La fratellanza tra libertà ed eguaglianza
di Leonardo Samonà
Nel corso della sua storia moderna la forma democratica di vita associata, che caratterizza il mondo occidentale, ha visto crescere irresistibilmente, insieme a libertà ed eguaglianza, anche lo scontro tra questi due pilastri della propria evoluzione politica. Da una parte il regime democratico incentiva infatti la crescita costante dei diritti individuali, accompagnata dalla pluralizzazione delle forme di vita e dei loro orizzonti normativi. Dall’altra rafforza progressivamente il principio dell’eguaglianza, che esige regole sempre più indifferenti alla pluralità di quelle forme di vita, e ne depotenzia i valori “interni” a vantaggio di valori comuni meramente procedurali. Se restringiamo la nostra considerazione a questo aspetto antitetico della relazione tra libertà ed eguaglianza, dobbiamo certo osservare per un verso che, per molto tempo, spinta alla differenziazione e spinta all’indifferenziazione hanno giocato una sorprendente partita, perché hanno permesso che libertà ed eguaglianza maturassero insieme, pur con i loro sotterranei antagonismi, e conferissero attraverso la loro convivenza una tenuta irrequieta ma durevole alla modernità. La concorrenza dei due valori ha trovato il suo instabile punto di equilibrio nell’omogeneità degli interessi e delle radici culturali, capace di preservare la diversità sotto l’ombrello di un’identità più o meno forte – divenuta nel corso della modernità quella “nazionale” – e di difendere d’altra parte tale identità dagli aspetti più stranianti della diversità, reprimendo al proprio interno la loro spinta al disordine o tenendoli fuori dai propri confini in un avvicendarsi ininterrotto di guerra e pace armata. Un’eguaglianza che combatte per l’emancipazione dalla diversità e una libertà che combatte per l’emancipazione dalla sottomissione a ogni riferimento esteriore si sono trovate così a solidarizzare contro un nemico comune, rappresentato dai privilegi, dalle gerarchie, dall’oppressione di poteri esterni che pretendono l’assoggettamento; e per molto tempo hanno potuto respingere incessantemente a fondo i contrasti che opponevano l’una all’altra. Tuttavia nell’epoca della globalizzazione – un’epoca che ha rotto i confini nazionali, ha mescolato le culture e ha abbattuto le distanze senza creare prossimità, ma producendo soltanto, con la forza dirompente di mezzi tecnologici, la costrizione dell’umanità in uno spazio ristretto a villaggio globale – questo tipo di solidarietà tra libertà ed eguaglianza sembra ora portare in primo piano i suoi veleni. L’uguaglianza prende il volto di un’identità formale che pesa come una cappa di piombo su ogni tipo di diversità respingendola sempre più violentemente nell’irrilevanza, cioè producendo sempre nuove ineguaglianze. La libertà si estenua in un gioco di trasgressioni che non producono una rescissione dei legami, ma solo una fuga sempre più percettibilmente entropica dal livellamento di tutte le forme di vita; e intanto precipita verso una decisa ostilità all’eguaglianza, nella misura in cui la sua potenza di emancipazione viene vanificata dalla forza ogni volta inesorabilmente maggiore con cui l’eguaglianza si affranca, a sua volta con tratto ostile, dall’incidenza della diversità. La libertà e l’eguaglianza distruggono, con un tale scatenamento di reciproca inimicizia, i tratti che ne fanno dei valori. L’una sembra soltanto un principio di dissoluzione di regole e responsabilità: un’impresa peraltro velleitaria, perché dominata reattivamente dal potere di risucchio della collettività, un potere (dovuto per esempio a meccanismi economici o a progressi tecnologici) che sempre più appare come autoreferenziale, funzionante da sé, capace di legare al di sotto di qualunque spinta centrifuga e di ridurre le differenze a meri fenomeni quantitativi e statistici. L’uguaglianza perde a sua volta i suoi connotati etici per trasformarsi in un inarrestabile processo di omologazione, che copre indifferentemente, sotto la sua maschera ingannevole, odiose diseguaglianze e diritti inalienabili alla diversità. Passate da una battaglia solo sotterranea a una competizione mortale, libertà ed eguaglianza disseppelliscono anche la lunga serie di rinnovate forme di schiavitù e ingiustizia di cui hanno disseminato il loro percorso evolutivo. Guardate sotto la luce del conflitto che ora le divora, libertà ed eguaglianza appaiono dunque due valori viziati fin dall’origine. E mi sembra si possa dire che la storia europea del secolo scorso si sia lasciata soggiogare dalla fascinazione di questo giudizio negativo, sia quando – ed è stato il pericolo più grande, quello dei fascismi – ha rigettato entrambi i valori, mostrando così un’avversione totale ad essi, perché estesa al loro intimo legame; sia quando si è lasciata sedurre dalla possibilità di instaurare il predominio della libertà sull’eguaglianza o di questa su quella, illudendosi di far scaturire da questo predominio la pace tra i due valori – ed è la storia dei due blocchi, anche dopo che, con il crollo del muro di Berlino, si è creduto che la “caduta” dell’uno decretasse la “ vittoria” dell’altro. Ma davvero dobbiamo guardare al rapporto tra libertà ed eguaglianza come a una rivalità alla lunga destinata a mandare in rovina la società? O non dovremmo assimilare la dura lezione proveniente dagli eventi terribili del XX secolo per comprendere che oggi l’Occidente, in un’epoca particolarmente mutevole e tenebrosa quanto al suo futuro, si ritrova a dover smaltire quanto prima la pericolosa illusione che la coppia dei valori più importanti della sua storia politica possa risolvere le proprie interne tensioni attraverso il predominio di un valore sull’altro? Viviamo in un’epoca in cui urge la necessità di elaborare nuovi strumenti culturali, capaci di comprendere l’anima nascosta e autentica di una forma democratica della vita sociale vissuta per molto tempo come processo di mero svuotamento di valori a regole procedurali, definite soltanto negativamente per la loro neutralità e non comprese invece nella ricchezza di spirito che le ha prodotte. Strumenti difficili da mettere a punto, tanto più sotto la pressione di un risveglio minacciosissimo dell’istanza di eguaglianza, che riapre le ostilità sotto forma di guerra contro una libertà declinata come emancipazione occidentale dalla dipendenza e dal bisogno. Per le sue connotazioni geografiche e culturali, tale guerra nasconde un potenziale esplosivo incalcolabile per le sue dimensioni “globali”, e coltiva un’idea di “rivincita” che, nelle sue manifestazioni più inquietanti, sembra posseduta da una mira alla vittoria totale, e sembra dunque proporre di nuovo, nelle sue viscere più profonde, il rigetto congiunto di libertà ed eguaglianza. Possiamo ancora perdere tempo prezioso inseguendo il miraggio, riaccesosi a Berlino nel 1989, di una pace armata della libertà accettata dall’eguaglianza come una cambiale a scadenza indeterminatamente remota? O non è piuttosto il caso di riprendere di nuovo il legame irresolubile tra libertà ed eguaglianza a partire dalle sue risorse più interne e positive? Se torniamo per esempio alle parole d’ordine della Rivoluzione Francese, dovremmo prestare una rinnovata attenzione al fatto che l’esito virtuoso del complesso intreccio tra i due valori era stato affidato sin dall’inizio alla salda speranza di vedere generarsi la fratellanza “in mezzo a loro”, con uno slancio che, certo, è sempre stato in qualche modo “controfattuale” e utopistico, ma è stato sempre anche inteso come l’effetto di un radicamento inestirpabile della libertà nella relazione sociale, attraverso un appello all’unità che le giunge dalla sua più essenziale intimità e che la costituisce come strutturalmente responsabile per altri e di fronte ad altri. La speranza nella “fratellanza” è salda perché la libertà schiude al suo interno un legame con l’“altro” più profondo di quello che si manifesta nella dipendenza, e fa dell’unità sociale o politica il più inclusivo dei legami, capace di coniugare in maniera paradigmatica l’uno e i molti. Ma a sua volta questo legame resta sempre anche affidato alla speranza, perché si presenta come conseguenza della partecipazione responsabile degli individui all’unità. E implica una trasformazione dell’idea stessa di unità, che va intesa come quella che si costituisce come raccoglimento dei differenti e non è dunque senza di essi. Tuttavia la fratellanza va decodificata. Essa fa vedere i diversi come simili, e cioè fa germogliare l’eguaglianza sul terreno della diversità. Per questo motivo si presenta come il legame congenito di libertà ed eguaglianza; e però, in quanto fa così rientrare la diversità all’interno dell’unità, ricolloca la comunità prima, in linea di principio, della libertà. La forma nuova di questo primato conferisce per un verso alla fratellanza un carattere di fragilità. La sua priorità non è infatti mai data, ma sempre in qualche modo progettata e sperata, cioè affidata alla responsabilità. Se però si pretende di garantirla riconsegnandola alla mera “natura” socievole dell’uomo o alla previa condivisione di una visione del mondo, essa si rivela al di sotto della libertà e dunque del potere di unificazione che aspira ad evocare. Come legame di sangue (la “nazione”) la fratellanza ha mostrato subito di provocare nuove diseguaglianze e schiavitù, e perfino di averne bisogno. Come legame ideologico si è parimenti mostrata come uno strumento al servizio dell’inimicizia e della lotta. Come richiamo all’identità culturale ha preso immancabilmente il volto dei “respingimenti” e della difesa di privilegi. Solo quando abbandona la difesa dell’identico e, seguendo il comando della “regola aurea”, assume radicalmente la prospettiva dell’altro, la fratellanza scopre l’indistruttibilità dei legami e della socialità. La forza della democrazia, che oggi appare come una forma di governo insostituibile anche per la sua incomparabile tolleranza dei conflitti interni, deriva dal fatto che essa fa dell’unità un principio verso il quale convergono, attraverso il libero consenso, tutti gli individui che compongono il corpo sociale. L’unità è quindi sempre spostata in avanti, in un orizzonte per così dire escatologico che situa il punto di partenza nella diversità, e dunque in ciò che è altro dall’unità, che è fuori dal comune. La democrazia ha in questo senso sempre la sua condizione di partenza nella libertà dell’altro, cioè nella libertà dell’individuo situato fuori dalla comunità, e proprio per questo nella libertà di ognuno, cioè nell’eguaglianza che non esclude nessuno, che non prescinde dagli individui, ma si costituisce come il raccoglimento e l’inclusione di tutti. In quanto partono sempre dall’altro, libertà ed eguaglianza non possono prescindere dalla fratellanza. Questo fa sì che la democrazia non si possa costituire a partire dall’unità ma neanche a prescindere da essa. La democrazia non può ridursi a valori meramente procedurali – anche se è minacciata da valori sostanziali fatti valere indipendentemente dal consenso – perché un tale forma politica si costituisce come inclusione dell’altro. Questo fa dei valori procedurali non il semplice esito della deriva nichilistica di società che rinunciano alla loro “identità” morale e culturale per abbandonarsi alla logica consumistica del mercato, ma un guadagno spirituale formidabile di società che mettono a fondamento dei valori costituenti la libertà dell’altro, sempre a rischio di esclusione e di persecuzione; e per questo motivo rifiutano una libertà privilegiata, e assumono una libertà che pretende l’eguaglianza per potersi affermare (non si può dimenticare in proposito l’efficacissima dichiarazione di Voltaire di essere disposto perfino al sacrificio per difendere la libertà d’opinione, appunto, dell’altro). Anche la costituzione, atto fondativo di uno stato democratico, rimane sempre un termine verso il quale si deve convergere a partire dalla libera responsabilità di ognuno. Nella fratellanza, la democrazia si è posta già oltre la semplice assunzione della formula negativa della “regola aurea” e della libertà che trova nell’altro il suo limite, per abbracciare il lato positivo della relazione ad altri. La struttura teleologica dell’unità in un regime democratico – una struttura che implica la libertà (la laicità) non come spazio dell’accidentale quanto piuttosto come momento necessario dell’unità, e che proprio per questo non può tuttavia vedere a sua volta la libertà ridotta a mera emancipazione dall’altro – ha a mio giudizio un terreno decisivo di elaborazione nella difficile comprensione dello spazio della laicità in ambito religioso. Proprio in questo ambito – dal quale certo, va detto, ha preso sempre più netta distanza la storica affermazione moderna di diritti civili attraverso la battaglia di liberazione da una concezione autoritaria della relazione religiosa – va cercata tuttavia oggi la coltivazione, certamente sempre esposta al rischio autoritario, di una connessione positiva tra la libertà e il vincolo all’altro. In particolare, oggi, la forma democratica dell’unità può avere un suo fecondo modello nella forma di “comunità” richiesta dall’incontro e dal dialogo interreligioso, che oltretutto costituisce la sfida decisiva dell’epoca in cui viviamo. L’unità cui questo modello fa riferimento non può essere rivendicata come proprietà di una parte in dialogo, ma non può essere nemmeno ridotta all’indifferente convivenza di principi “stranieri” l’uno all’altro. L’indifferenza assume infatti sempre il volto prevaricante di un’ostilità contro le differenze religiose, e dunque l’egemonia di un nuovo punto di vista (a questa obiezione dovremmo stare molto attenti noi “occidentali”). L’unità richiesta dal dialogo interreligioso implica invece una connotazione di “unicità” che ha però come tratto specifico l’inclusione di ciò che l’unità stessa distingue da sé: il divino che può unire è solamente quello che accoglie l’altro. Una tale connotazione del divino istituisce la laicità, non nel senso di uno spazio esteriore al sacro (il profano), ma nel senso di uno spazio appropriato a fare entrare in gioco la posizione specifica – quella dell’ultimo in un processo che parte dalla libertà – in cui si colloca il principio che raccoglie e unifica. L’esser come l’altro, la somiglianza dei diversi, il convenire quale risultato di un dialogo a partire da posizioni diverse, si radicano nell’esser altro del divino, e nel suo tenere insieme facendosi altro, cioè ad un tempo ammettendo l’altro e sottraendo a ciascun protagonista del dialogo l’ultima parola. Questo è a mio giudizio il modello di un incontro tra individui che converge nell’unità e “scommette” su di essa (nel senso che guarda all’unità come termine raggiungibile a partire dalla libera e responsabile adesione degli individui). Nella forma di una salda speranza nella forza fondativa della fratellanza, e non nella forma dell’imposizione di valori che vigono “assolutamente” solo nella misura in cui restano indifferenti al convergere del consenso su di essi – o nella misura in cui, per dirla in altri termini, restano indifferenti alla laicità –, si costituisce l’azione politica adatta a un regime democratico e capace di durevole effetto in esso. L’idea di un’unità che nasce nella forma di unificazione di “identità” diverse e nella ricerca, mediante un dialogo disarmato e intenso, di punti verso i quali convergere e sui quali raccogliere consenso, mi sembra la più attrezzata per rispondere in modo decisivo e non effimero all’urgente domanda di un legame politico globale capace di ricucire le spaccature sempre più profonde che lacerano il mondo attuale. Questa forma di unità, radicata nel legame all’altro e costituentesi come accoglimento dell’altro, interpreta a mio giudizio in modo appropriato la fratellanza: è il valore politico più fragile, perché, come è stato ampiamente dimostrato da esiti tragici di nobili istanze, non può essere in alcun modo conquistato mediante “battaglie”; ma, nella misura in cui svela il fondamento più saldo e irrinunciabile di libertà ed eguaglianza, è allo stesso tempo anche il valore politico più decisivo che l’Europa moderna, in mezzo ai suoi errori catastrofici, ci consegna come preziosa eredità.