La democrazia di massa nell’era mediatica:
una realtà che la sinistra italiana non ha ancora compreso.
di Mauro Visentin
Ciò che è avvenuto nella politica italiana nelle settimane che hanno preceduto il vertice aquilano del G8 presenta aspetti che meritano di essere analizzati. Direi infatti che sono molto istruttivi per chiunque abbia interesse a confrontare le proprie idee (che sono, talvolta, solo i propri pregiudizi) con i mutamenti in corso nella realtà che ci circonda. Un esercizio al quale la sinistra sembra sempre meno capace di dedicarsi, ma che sarebbe, invece, proprio per lei, il più proficuo. Sgombriamo subito il campo da una questione, come spesso accade, mal posta (da destra, per evidenti motivi di interesse a porla così, ossia in modo improprio, e da sinistra per ragioni culturali): la questione del rapporto fra politica e vita privata dei leader con capacità o possibilità di indirizzo (in altre parole, quelli “che contano”, infatti la vita privata dei politici di seconda e terza fila può, tutt’al più, definire un costume, ma non è, per quanto la concerne, certamente espressiva di un problema che abbia rilevanza pubblica). Quando lo scandalo privato che stava per travolgere Clinton giunse, in America, al suo apice, una sinistra italiana che non aveva mancato, nel corso della sua storia, di praticare con successo il principio della doppia morale (o perlomeno di essere testimone della sua efficace applicazione da parte di alcuni dei propri più qualificati esponenti), mostrò di indignarsi per l’ennesima prova di puritanesimo ipocrita di cui la più grande democrazia del mondo (che era però ancora, agli occhi di molti elettori rimasti legati alla cultura del vecchio PCI, anche il Paese-guida del capitalismo mondiale) tornava a dare prova, dopo le vicende che erano costate, a vario titolo, la presidenza degli Stati Uniti ad esponenti di spicco del Partito Democratico (ed anzi, in un caso, ad un suo vero e proprio totem) come Ted Kennedy e Gary Hart. E mostrò di preferire, tutto sommato, un sistema come il nostro, nel quale anche i cattolici esibivano, per questo riguardo, una visione più laica e tollerante, ritenendolo espressione di un modello superiore di democrazia politica. L’imbarazzo che si è visto affiorare a tratti anche negli interventi con i quali, pure, la sinistra ha affondato il coltello in occasione della campagna scandalistica condotta da alcuni organi di stampa (La Repubblica in primo luogo) contro il capo del governo è, probabilmente, ancora il segno di quella cultura. Il PD è apparso oscillare tra la gratitudine per un regalo inatteso della sorte e una specie di pudore che lo costringeva a farsi forza per sfruttarlo. Ebbene, vogliamo forse criticare questo atteggiamento? Riteniamo, per caso, preferibile una lotta politica che si serve anche di informazioni ottenute guardando dal buco della serratura o gettando un’occhiata sotto le lenzuola di questo o di quell’esponente politico? Certamente no, ma ciò non toglie che la vicenda, come dicevo, sia, per molti aspetti, istruttiva e funzionale all’esame di alcune questioni con le quali la sinistra dovrebbe, finalmente, mettendo da parte vecchi moralismi e pregiudizi ideologici, fare i conti.
1. Il primo problema è quello rappresentato dalla personalizzazione della vita politica, che in America e in numerose democrazie Occidentali (quasi tutte quelle che hanno adottato un sistema di tipo presidenziale e/o maggioritario, quindi, quasi tutte tout court) è un fatto ormai acquisito. E’ evidente che se la vita politica si personalizza il diaframma fra dimensione privata e dimensione pubblica, fra sfera personale e sfera politica, per quanto riguarda l’esistenza dei leader, si assottiglia fin quasi a sparire. Allo sviluppo di questa tendenza, senza dubbio, Berlusconi è stato, tra i protagonisti della recente scena italiana, quello che ha impresso, da noi, il maggiore impulso. Naturalmente, qui il discorso non si aggira soltanto su un problema di “nemesi” individuale (qualcosa come quella forma di giustizia compensativa che alcuni vecchi adagi, desunti dalla saggezza popolare dei nostri nonni, sapevano rendere per mezzo di sentenze depositate irreversibilmente nel patrimonio morale collettivo della nazione, come quella riguardante il ferire per mezzo della spada, o quella che si riferisce, con cinica ironia e dunque abbastanza crudelmente, ad uno degli oggetti più desiderati dagli adolescenti di un tempo, vale a dire la bicicletta e a ciò che il suo uso comporta). La questione è più articolata. E riguarda, in primo luogo, non la preferibilità o meno di un sistema caratterizzato in questo senso, ma la presumibile reversibilità o irreversibilità di questo processo.
Ritenere che sia vera la seconda di queste ipotesi non è un semplice azzardo previsionale: è la ragionevole deduzione cui si trova di fronte chiunque rifletta, anche solo per poco, sulla crescente complessità dei sistemi democratici e sull’impossibilità che ad essa non faccia da contraltare, pena la perdita di qualsiasi controllo sui processi decisionali che la democrazia deve sottoporre alle proprie complicate procedure, una crescente semplificazione politica. I partiti politici, che sono sempre stati strumenti imprescindibili di pluralismo democratico (anche se la loro proliferazione incontrollata ha talvolta rischiato di soffocare la democrazia, che si è, perciò, dovuta, per lo più attrezzare, imponendo vincoli alla crescita esagerata, entro il suo ambito, delle istanze “di parte” nella vita pubblica) si sono sempre contraddistinti per via di una struttura verticale. Anche i governi occidentali presentano, di norma, questo doppio carattere: legittimati ad esistere dalla procedura “orizzontale” e democratica che ha dato loro vita, funzionano (se e quando funzionano) come istituti “verticali”, di impostazione leaderistica. Inoltre, il peso crescente degli strumenti comunicativi nell’acquisizione e gestione del consenso ha determinato inevitabilmente la concentrazione del corpo elettorale, più che sui programmi, su poche parole d’ordine, facilmente comprensibili, e sulla riconoscibilità di leader che siano anche e sempre più, uomini-immagine. Tutto questo ha, come conseguenza, appunto, la personalizzazione della vita politica, un fenomeno al cui dilagare, viste le premesse sulle quali si basa, delle istituzioni ben strutturate (quali non appaiono essere, almeno per questo riguardo, le nostre) possono porre degli argini, senza, però, poterne invertire l’orientamento.
In un quadro come quello delineato, nel quale, oltretutto, il confronto fra destra e sinistra sembra avviato a realizzarsi sempre più sul terreno dell’etica pubblica, la coerenza fra impegni politici e comportamenti privati è destinata ad assumere, per dei leader capaci di dare, del proprio ruolo, un’interpretazione all’altezza dei tempi, un peso crescente. Se nella moderna società della comunicazione di massa il rispetto per l’intimità di ciascuno è ormai un diritto pressoché evanescente, essa ha in sostanza cessato, si può dire, addirittura di essere un vero e proprio diritto per ogni uomo pubblico che conti, il quale si vede costretto, in cambio dei molti privilegi che il suo ruolo gli garantisce, ad accettare il sacrificio di questa sfera della propria vita sociale. Piaccia o no, questa è, innanzitutto, una conseguenza dell’evoluzione naturale delle democrazie liberali nelle società comunicative di massa. E la sinistra dovrebbe prenderne atto senza imbarazzati pudori. La questione, infatti, è di sostanza: se in questo sistema un leader è tanto più forte quanto più forte è la sua immagine, ciò significa che esso è, per la stessa ragione (vista l’essenziale volatilità e fragilità di questo fattore della vita collettiva) molto più vulnerabile di un tempo. E quindi esposto alla minaccia di ricatti e ritorsioni. Per questo, non per falso moralismo, occorre che la vita privata di un uomo pubblico, tanto più se con responsabilità di leader, e in particolare di leader politico, sia o appaia credibilmente essere lo specchio fedele delle sue scelte e decisioni di carattere generale.
2. Se ora, dalle considerazioni appena svolte e che si riferiscono alle moderne democrazie di massa nel loro complesso (anche se prendendo dichiaratamente spunto da recenti episodi di cronaca del nostro Paese), scendiamo ad esaminare, nel dettaglio, il caso italiano, appaiono evidenti due aspetti: il ritardo culturale della sinistra nel dotarsi di strumenti analitici adeguati, atti ad assolvere meglio di quanto sin qui non sia stato fatto, il compito essenziale di decifrare la realtà storica corrente, da un lato, e, dall’altro, le basi d’argilla sulle quali si fonda il legame “carismatico” che la destra ha stabilito, attraverso la persona del suo capo ed inventore, con la maggioranza del corpo elettorale. Questo legame appare profondo e solido soltanto per una ragione: l’assenza di alternative credibili che siano in grado di prospettare a questa maggioranza di elettori una scelta diversa.
Nel corpo elettorale italiano convivono, ignorandosi, nella migliore delle ipotesi, o detestandosi a vicenda, una maggioranza di votanti antropologicamente di destra e una minoranza ideologicamente di sinistra, con, in mezzo, una massa ondivaga, superficialmente permeata di valori religiosi, che la dispongono al rispetto nominale dell’autorità ecclesiastica e, nello stesso tempo, all’accoglimento almeno potenzialmente favorevole del concetto di “bene pubblico” e della sua messa in opera. Quando una parte di questa massa ondivaga si somma alla componente ideologica e di sinistra dell’insieme degli elettori, la sinistra politica raggiunge il massimo del suo possibile consenso, ossia qualcosa come un terzo dell’elettorato complessivo (quota che può variare in più o in meno anche in conseguenza delle astensioni dal voto e della loro distribuzione). Oltre questa soglia, essa non è mai riuscita sostanzialmente a spingersi. Ciò che le si oppone, impedendole di conseguire un risultato più incoraggiante, è la solida e coriacea componente maggioritaria del corpo elettorale, che ho definito prima “antropologicamente di destra”. Si tratta di una “destra” non ideologica anche se spesso benpensante e cattolica per conformismo o tradizione famigliare, familistica, localistica, essenzialmente miope e incapace di vedere il proprio interesse estendersi al di là dell’ambito immediato in cui si colloca il soddisfacimento delle esigenze più superficiali e materiali della vita di relazione. Questa destra si rispecchia perfettamente nell’attuale maggioranza di governo, sostanzialmente priva di valori propri ossia di un’identità assiologica. Ma dal momento che nessuna forza politica può fare a meno di un’ideologia che la identifichi, l’attuale centrodestra ha preso in prestito la sua dalla Chiesa cattolica, favorita in ciò dall’avvento, al vertice di quest’ultima, di un papa retrivo e tradizionalista per ciò che concerne la salvaguardia dei valori cristiani. L’operazione si è dimostrata vincente: essa ha saputo, infatti, coniugare l’interesse egoistico con il desiderio di tutela e protezione stimolato dalle molte paure che l’afflusso di una consistente massa di migranti ha indotto nella parte meno evoluta del corpo elettorale, proponendo un’identità cristiana forse posticcia ma di elevato valore difensivo. A questa si è aggiunta l’ideologia caricaturale, pseudo-celtica, territoriale della Lega Nord, non meno superficiale e artificiosa, ma altrettanto convincente e suggestiva agli occhi di un elettorato culturalmente piuttosto primitivo, disorientato e in cerca di riscatto.
3. Questa singolare commistione, cementata dal rapporto personale instaurato con i suoi elettori dal capo del governo, si è dimostrata finora vincente. Ma, come dicevo, ha basi d’argilla. Le ragioni di questa fragilità sono essenzialmente di due ordini. Cominciamo dalla prima. Il rapporto che Silvio Berlusconi ha stabilito con la massa degli elettori che lo votano (che votano lui, personalmente, ciò che lui rappresenta e il partito o l’alleanza che ha saputo costruire) è, ho già detto, di tipo carismatico. Devo riconoscere che questa definizione suscita, tenuto conto della personalità del soggetto investito di questo consenso, qualche imbarazzo. Sono infatti persuaso che in nessun altro Paese d’Europa o dell’Occidente liberal-democratico sarebbe stato consentito ad un uomo con il ruolo e le caratteristiche umane e psicologiche di Berlusconi di giungere a rivestire (per ben tre volte) la carica di Primo Ministro. Cosa che non depone certo a favore della maturità, della lungimiranza, della perspicacia e del senso critico della maggioranza degli elettori italiani, perlomeno nel confronto con i loro “colleghi” europei. Ma fatta questa premessa, è bene aggiungere che, forse, in un giudizio simile, pecco di ottimismo, per un verso, e di autolesionismo nazionale, per l’altro. Non è detto, infatti, che un avvenire simile non si prospetti per tutte le democrazie di massa o per gran parte di esse, se le tendenze degenerative che è possibile già adesso intravvedere all’opera in questi sistemi non verranno efficacemente contenute attraverso un complesso di regole istituzionali in grado di fungere da contrappesi. Insomma, piuttosto che una specie di circo equestre politico, come verosimilmente essa appare oggi alla maggior parte degli osservatori stranieri, l’Italia odierna potrebbe essere vista come una sorta di laboratorio in cui si sperimentano equilibri politico-istituzionali e sistemi di acquisizione del consenso destinati ad imporsi in tutti o quasi i regimi democratici di massa. Ad ogni modo, se il rapporto che lega in nostro attuale capo dell’esecutivo alla maggioranza del corpo elettorale è del tipo che ho detto, occorre riconoscere che esso si presenta come l’ennesimo capitolo di quella “autobiografia della nazione” di cui il Fascismo era, per Piero Gobetti, una sorta di epitome. Intendo dire, con questo, che il governo di centrodestra rappresenta un tentativo dei ceti economicamente più forti di instaurare un “regime” autoritario, minando alla radice le garanzie giuridiche della democrazia repubblicana, come a suo tempo il Fascismo aveva fatto con l’esangue sistema liberale uscito a pezzi dalla guerra ’15-’18? Naturalmente no: una simile, puerile semplificazione è tanto lontana da ciò che penso quanto lo è dalla realtà storica effettiva con la quale è doveroso misurarsi al presente. Né i tratti illiberali che pure si riconoscono nell’azione di questa maggioranza e che affiorano nella mentalità dirigista, nell’attacco sistematico alla magistratura, nella svalutazione del ruolo del parlamento, nel fastidio per il principio del bilanciamento dei poteri e nell’imposizione per legge di valori etici non condivisi sono, per ora almeno, tali da far temere che la stabilità delle istituzioni democratiche sia a rischio. Il mio intento è piuttosto quello di mettere in luce come il rapporto fra Berlusconi e il corpo elettorale che in gran maggioranza lo ha votato assomigli molto – per l’investitura popolare incondizionata di cui, in conseguenza del voto, lui stesso si considera oggetto, e per la delega totale e “in bianco” che i suoi elettori sembrerebbero avergli voluto conferire – a quello che per vent’anni ha contraddistinto, nella prima metà del secolo scorso, il legame della parte di gran lunga più numerosa degli italiani con un altro “cavaliere” (un po’ come lo zio e il nipote di cui parla Marx all’inizio del 18 Brumaio). Un legame che, come il rapido e quasi improvviso tracollo del Fascismo ha dimostrato, era tanto apparentemente solido quanto sostanzialmente fragile (anche per via del carattere non molto edificante della nazione, timorosa di esporsi, ma pronta a seguire in massa il primo che abbia il coraggio di farlo quando i tempi volgono al peggio). A ciò occorre aggiungere che anche il credito personale di Berlusconi presso i ceti dirigenti italiani e internazionali sembra in rapido declino. In Italia, per via di una gestione della crisi economica globale che è stata aggressiva solo sul piano comunicativo, e che, in definitiva, ha messo in luce soltanto il convincimento discutibile che una realtà virtuale, costruita con dichiarazioni ingannevolmente ottimistiche, possa, in maniera del tutto illusoria, prendere il posto, nelle coscienze degli attori reali, di quella effettiva. All’estero a causa del cambio della guardia avvenuto alla Casa Bianca, delle vita privata disinvolta che il nostro Primo Ministro continua a condurre come fosse ancora un semplice imprenditore e che all’estero ha grande risonanza, e dei comportamenti personali da lui tenuti in occasione dei vertici, che mostrano il carattere per lo più dilettantesco e velleitario della sua politica internazionale.
L’altro motivo di fragilità dell’ampio consenso di cui gode l’attuale maggioranza è quello rappresentato dal rischio che, incrinandosi il rapporto con la Chiesa, venga almeno in parte a mancarle la copertura ideologica “posticcia” che esso le garantisce. Indubbiamente, questo rapporto appare oggi molto forte, ma si cominciano ad intravvedere alcune crepe, in conseguenza delle notizie relative ai comportamenti privati del Presidente del Consiglio, che stanno diffondendo sconcerto nell’elettorato cattolico, come pure dei possibili conflitti, già a tratti esplosi, anche se solo episodicamente, tra la visione cristiana dell’accoglienza e l’ideologia xenofoba della Lega. Ultima considerazione da fare al riguardo è quella concernente la contingenza di questa “unità di intenti” con le gerarchie ecclesiastiche, che potrebbe facilmente mutare se mutassero gli orientamenti attuali della Chiesa – alla guida della quale si trova adesso un pontefice poco propenso alle aperture sul piano etico e dogmatico – in seguito, per esempio, all’avvento al pontificato di un esponente dell’ala progressista della Conferenza Episcopale.
4. In un quadro come quello che è stato appena descritto, i ritardi culturali del centrosinistra appaiono evidenti. Per molti aspetti, alcuni dei suoi leader sembrano ragionare come se la situazione che si presenta oggi agli occhi di un analista politico non fosse affatto cambiata rispetto a quella che ha caratterizzato la lunga stagione in cui la controparte era rappresentata dalla Democrazia Cristiana. In comune con quel periodo la situazione presente mostra di avere solo una cosa: la sinistra nel suo complesso ha mantenuto all’incirca la sua base tradizionale di consenso, perlomeno in termini quantitativi, senza incrementarla di un’unghia. Ma a quel tempo, a garantire l’immutabilità dei rapporti di forza era il cosiddetto”fattore K”, cioè il mondo diviso in due blocchi, il muro di Berlino, la guerra fredda. Oggi tutto questo non c’è più: i socialisti sono spariti insieme alla Democrazia Cristiana e con essi è sparito il vecchio centro-sinistra (anche come ipotesi politica), la legge elettorale è stata modificata prima in senso maggioritario (con un recupero proporzionale) poi in senso proporzionale (con correzione maggioritaria), la sinistra è riuscita in due occasioni a coalizzare un certo numero di forze male assortite, dando vita così a governi instabili e contraddittori, nessuno dei quali è riuscito a durare per tutto l’arco di una legislatura, e ha cambiato composizione e denominazione due o tre volte. Si è, insomma, tentato di tutto e di più, eppure gli orientamenti di fondo dell’elettorato italiano sono rimasti sostanzialmente gli stessi. Ciò che è sfuggito all’esame cui gli esponenti di spicco del PD e delle sue componenti hanno verosimilmente sottoposto i loro insuccessi e il favore che il corpo elettorale ha riservato da subito ad un parvenu della politica come Berlusconi è stato, in primo luogo, il fattore antropologico di cui ho appena terminato di esporre i tratti essenziali, o perlomeno il suo carattere e la sua possibile evoluzione, in secondo luogo, la natura dei mutamenti intervenuti negli ultimi vent’anni. Se il primo ha continuato a funzionare essenzialmente come funzionava il “fattore K” (che di esso è stato, forse, solo una variante storica, alla quale si potrebbe, in tal caso, ricondurre semplicemente l’effetto di averlo, per così dire, ingessato), sostituendosi ad esso dopo la sua caduta, la seconda ha aperto scenari che avrebbero consentito, ove si fosse riusciti a decifrarla correttamente, di intervenire sulle propensioni antropologiche di fondo della maggioranza degli elettori (una volta caduto il fattore ingessante), modificando il loro indirizzo o contrastandone la disposizione.
La prima conseguenza che deriva dall’esame del carattere piuttosto antropologico che ideologico del consenso di cui gode la destra consiste in questo: che l’elettorato italiano è, nella sua maggioranza, un elettorato a-ideologico. Più facilmente attraibile, per le ragioni che abbiamo visto e perché a ciò lo dispone il suo orientamento socialmente egoistico, miope e privo del senso dell’appartenenza ad una collettività nonché del rispetto degli oneri che questo comporta, da un’ideologia conservatrice-tradizionalistica (se non peggio). Ma anche ideologicamente educabile. Il che vuol dire, per l’elettorato nel suo complesso: nella condizione di poter essere, forse, con un’azione adeguata delle forze politiche, indotto ad assumere progressivamente il profilo di un moderno elettorato di cittadinanza (mentre per quella parte di esso che, invece, tradizionalmente vota la sinistra radicale e che appare legata ad una coscienza ideologica tanto anacronistica quanto rigida potrebbe semmai voler dire: lentamente rieducabile). E impegnarsi nel conseguimento di questo scopo spetta oggi alla sinistra moderata, sia perché è suo interesse farlo, sia perché essa sola è, per i motivi già visti, nelle condizioni di poterlo fare. Ciò che la sinistra (il centrosinistra) deve comprendere è che l’idea di poter attrarre la maggioranza dell’elettorato italiano qui ed ora – ovvero così come questa maggioranza è attualmente – è del tutto illusoria. Non perché in seguito ad una crisi del governo di centrodestra questo obiettivo non si possa comunque realizzare: questo sarà senz’altro possibile in futuro così come lo è stato in passato. Ma come una parentesi, senza poter gettare solide radici. La tentazione di fare a meno dell’ideologia (e quindi dell’identità), costruendo un partito pragmatico attento ai problemi del momento, è solo un equivoco. Certo, un moderno partito riformista deve essere “anche” pragmatico (soprattutto a proposito di temi rispetto ai quali la sinistra storica si è tradizionalmente fatta guidare da furori ideologici). Ma un’opposizione che sfrutti solo le défaillance in cui incorre la maggioranza non può fare altro che inseguire quest’ultima sul suo terreno, condannandosi alla marginalità. Nello stesso tempo, un’opposizione ideologica e di principio che si rivolga al “berlusconismo” nell’intento di denunciarne proprio la valenza antropologicamente degenerativa è destinata, senza una preliminare preparazione del terreno, ossia senza alcuna iniziativa volta a promuovere la crescita culturale e morale dell’elettorato italiano, a rafforzare, in ultima analisi, proprio il fenomeno che vorrebbe colpire e ridimensionare. Radicarsi nel cuore e nel cervello dell’elettorato (meglio: della sua maggioranza) come una reale e valida possibilità alternativa, dando vita alle premesse di un’autentica competizione politica per la conquista del diritto a governare è una meta che si può raggiungere, ma solo se la sinistra si impegna in una trasformazione della mentalità dell’elettore medio, ossia in una crescita economica, morale e civile del Paese che richiede un’opera mirata di modernizzazione consistente in un rinnovamento strutturale, infrastrutturale e istituzionale (in tutti i grandi paesi occidentali sono state soprattutto le buone istituzioni – che sono anche istituzioni efficienti – a rendere buono, cioè dotato di sufficiente discernimento, il relativo elettorato). Quindi, verosimilmente, tempi lunghi e qualche, per lei, doloroso sacrificio: quello di alcune delle convinzioni più consolidate della cultura politica cui essa fa ancora prevalentemente riferimento e che, in rapporto a certe caratteristiche assunte dalla situazione storica attuale, appaiono in serio ritardo.
Indicherei, a titolo di esempio, quattro questioni che costituiscono altrettanti fattori di ritardo e in riferimento alle quali questo ritardo mi sembra particolarmente grave ed evidente, anche se vanno facendosi largo all’interno del Partito Democratico (per ora, purtroppo, solo a parole e per ragioni, temo, ancora esclusivamente tattiche) programmi che mostrano una chiara visione dei problemi da affrontare.
Sono fattori di ritardo rispetto all’evoluzione storica della società di massa in Italia e alle sue dinamiche:
A)La difesa della televisione pubblica. Credo non ci sia bisogno di sottolineare come la televisione pubblica sia uno strumento a disposizione della maggioranza politica di turno per conquistare il consenso, amministrando l’informazione diretta (quella dei notiziari) e indiretta (quella delle trasmissioni di intrattenimento, che comprendono una vasta gamma di realtà comunicative, da quelle di profilo culturale e informativo elevato fino a quelle che, per questo riguardo, possono apparire di profilo molto basso o, in genere, popolare). Oggi, per fortuna, la diffusione della “rete” impedisce che quei Paesi nei quali il controllo politico dell’informazione è ferreo siano effettivamente in grado di isolare del tutto dal resto del mondo la propria opposizione interna (si tratta dei Paesi totalitari, che – ne abbiamo avuto un esempio assai calzante nelle vicende che hanno sconvolto l’Iran dopo le recenti elezioni presidenziali – possono giungere ad “oscurare” pressoché interamente un evento sgradito o a tentare di farlo). Ma la ragione per la quale la “rete” rappresenta oggi un valido antidoto contro questo rischio risiede nel suo carattere anarchico. Ossia, nella sua sostanziale incontrollabilità. La sinistra dovrebbe, pertanto, combattere ogni forma di monopolio (pubblico o privato) dell’informazione e della comunicazione. Al riguardo, la cosa essenziale, non è, però, rappresentata dalle dimensioni eccessive delle aziende che operano in questo settore, ma dal fatto che queste dimensioni non comportino un monopolio, ossia dal fatto che ce ne siano diverse in grado di concorrere fra loro e che esse diano luogo ad un’effettiva competizione. Più ampia e articolata è la gamma di proposte ideologiche alternative e concorrenti che vengono offerte alla massa del corpo elettorale, più efficace e vitale è il funzionamento di un sistema democratico. Al conseguimento di un simile obiettivo è chiaro che l’esistenza di una televisione di Stato oppone un indiscutibile ostacolo.
B)La preferenza accordata in linea di principio alla piccola e media impresa (industriale o commerciale, non importa). Non è affatto vero che i grandi gruppi siano nemici della democrazia. Al contrario, la natura impersonale della direzione e il carattere diffuso della proprietà sono elementi sui quali è possibile far leva (vigilando perché non si formino cartelli e patti di sindacato, dentro e fuori le imprese, che possano alterare o aggirare questa natura) per introdurre fattori di maggior trasparenza e rispetto delle norme (perlomeno sul piano degli strumenti di controllo posti a garanzia degli interessi sociali, dei consumatori e degli utenti).
C)La difesa della costituzione nel suo impianto istituzionalmente “debole”. La sinistra ha sempre visto nell’apparato statale non uno strumento per mezzo del quale garantirsi, ma una minaccia dalla quale proteggersi (depotenziandola). Questo vecchio riflesso agitatorio è stato, insieme all’esperienza cocente, allora appena trascorsa, della dittatura, la radice (oggi inconscia) che a suo tempo indusse la componente di sinistra dell’Assemblea Costituente a convergere con l’antistatalismo cattolico, dando vita ad una costituzione dal profilo istituzionale poco netto, con un bilanciamento insufficiente dei poteri a causa della forte prevalenza accordata al legislativo. Proprio la vicenda che stiamo vivendo dovrebbe, invece, insegnare al PD che i rischi di involuzione democratica di cui si intravvedono le tracce nell’azione dell’attuale maggioranza di governo sono stati resi possibili precisamente dall’attuale contesto istituzionale e che non c’è miglior difesa dell’ordinamento democratico di quella che si ricava da un sistema solido ed efficiente di poteri e contropoteri forti e ben definiti. Il segno della vocazione alla sconfitta dell’odierno centrosinistra è riconoscibile appunto nel prevalere della paura, nell’incapacità di accettare la sfida con coraggio, ricordando il principio che gli uomini passano e le istituzioni restano, nel far ruotare il problema della forma istituzionale nuova, necessaria al rinnovamento della Repubblica, intorno all’esigenza o al timore del momento (che può avere anche il volto di un uomo), anziché impegnarsi per trovare ad esso una soluzione destinata a durare nel tempo e a servire le generazioni che verranno.
D)La difesa della politica delle alleanze e dei governi di (ampia) coalizione. Andando al di là del valore fondativo, rispetto alla democrazia, che una mentalità di questo genere sembra assegnare al puro e semplice numero, nella sua piatta estrinsecità, delle forze politiche in campo – che è questione importante ma da discutere a sé e in altra sede –, la convinzione che per governare si debbano mettere insieme molti partiti sembra sottovalutare drasticamente uno dei principali problemi che investono il processo comunicativo in una società di massa. Ossia quello della semplicità, della coerenza e della chiarezza del messaggio. Per superare la resistenza psicologica che l’orientamento e la disposizione antropologici della maggioranza dell’elettorato oppone alla proposta politica del centrosinistra occorre rendere questa proposta più plausibile e chiara, e un modo di farlo è certo quello di non stipulare accordi con forze ideologicamente eterogenee (come sono oggi quelle residuali che, all’estrema sinistra, si riconoscono ancora in parole d’ordine il cui significato e contenuto sono ormai fuori dalla storia, o quella di un partito di centro che si dichiara espressamente confessionale e si richiama all’esperienza storica della Democrazia Cristiana): l’andare da soli, in determinate circostanze, è forse, più che una scelta di isolamento, una necessità imposta dall’obbligo della chiarezza, e ignorarla potrebbe comportare il rischio, per la sinistra, di “restare al palo” fino alla fine dei suoi giorni.