Torniamo alle domande fondamentali
di Walter Tocci*
È accaduto un fatto storico poche settimane fa nell’assemblea costituente del Pd, curiosamente sfuggito all’attenzione della pubblicistica e degli stessi protagonisti. Si è infatti consumato lo scioglimento dei Ds. La decisione era stata presa al congresso di Firenze, ma solo alla Fiera di Roma si è compiuta in modo definitivo. Se in futuro ci sarà un candidato diessino a segretario non avrà più il sostegno di tutti i diessini, ma sarà espresso da una diversa configurazione del dibattito politico nel Pd. Da quella appartenenza, inoltre, non verranno più nei prossimi anni i candidati a sindaco delle grandi città. E neppure il segretario del circolo della mitica via dei Giubbonari.
Si è esaurito il ciclo di V. Veltroni e D’Alema e di tutto il ceto politico che si è formato intorno a quel dualismo, trovandosi a gestire una cosa non da poco come la transizione postcomunista. Quella generazione ha molti meriti: ha portato la sinistra per la prima volta al governo; ha realizzato l’ingresso in Europa; ha assicurato buona amministrazione nel Paese e nei territori. Risultati strabilianti rispetto alle difficoltà di oggi.
Però quel ceto politico, di cui anche il sottoscritto fa parte, porta la responsabilità di non aver mai affrontato la sostanza della crisi della sinistra italiana, di aver sempre ag- stanza aggirato il problema riconducendolo alla fondazione di un nuovo partito – le varie cose uno, due – fino a portare tale crisi in dote al Pd. Nato per espandersi verso il centro, questo partito ha sfondato nell’elettorato di sinistra con l’illusione del voto utile, senza poi avere la capacità di mantenere quei consensi proprio perché il suo motore di sinistra era inceppato da tempo. Franceschini lo ha capito meglio dei dirigenti ex diessini e questo porta un vantaggio all’intero Pd. Rimane insoluto l’altro lato del problema di un ampliamento dei consensi nell’area moderata e spoliticizzata, senza il quale la vocazione maggioritaria rimarrà un flatus vocis vocis.
Lo scioglimento dei Ds elimina un equivoco e rende più chiara la questione. Infatti, quel partito portava già in sé la contraddizione tra una dichiarata identità di sinistra e la difficoltà nel corrisponderla nei fatti: era una formazione di scarso peso elettorale, a insediamento prevalentemente regionale, con un debole radicamento sociale, tutti caratteri sottodimensionati rispetto alla storia e alla potenzialità della sinistra italiana. D’altronde, non è più entusiasmante il bilancio di coloro che erano partiti per un’orgogliosa rifondazione per poi approdare a confusi cartelli elettorali senza rappresentanza.
Lo scioglimento dei Ds facilita la fondazione del Pd. Purché si prenda coscienza anche della crisi della tradizione dei cattolici democratici, la quale, per ragioni diverse, si trova di fronte all’esaurimento delle condizioni che ne hanno fatto per decenni una delle culture politiche più fertili: non c’è più la Chiesa conciliare, né il radicamento popolare democristiano da cui traeva la linfa vitale, né le grandi strutture pubbliche – dall’Iri, alla Rai, alle banche – da cui veniva la formazione della classe dirigente.
Occorre, quindi, una maggiore modestia per rilanciare il progetto, dicendoci apertamente che abbiamo intrecciato due decadenze, della sinistra italiana e del cattolicesimo democratico, e che solo in un contenitore più ampio possiamo affrontarne le cause e trovarne le vie d’uscita. Dalla consapevolezza dei rispettivi limiti può venire la disponibilità a mettersi in discussione. Ad esempio, è inutile aver unito laici e cattolici se continuiamo a ripeterci stancamente le stesse cose di prima, ci siamo uniti col presupposto che proprio
dallo stare insieme potessero scaturire sintesi più avanzate rispetto alle vecchie convinzioni. Un approccio più pensoso verso le rispettive culture può diventare una forza creativa.
In ogni caso esso renderebbe evidente l’impossibilità di tornare indietro alle case di origine, per il semplice motivo le troveremmo diroccate.
Il Pd nasce da una rielaborazione critica delle tradizioni di provenienza e solo in questo modo è in grado di raccogliere il suo frutto migliore, prima che sfiorisca, cioè quella straordinaria curiosità e disponibilità che ha portato tanti cittadini a impegnarsi in politica per la prima volta, senza aver mai frequentato i vecchi partiti.
La sinistra italiana si trova al punto di massima debolezza in un secolo di storia, se si esclude il periodo della tirannide fascista. Mai come oggi è stata tanto evanescente sul piano politico, sociale e culturale. L’avversario ne è consapevole e intende assestare colpi decisivi mai tentati in precedenza, non esclusi quelli costituzionali. Certo, è un problema europeo, ma è indubbio un fattore nazionale di aggravamento. Eppure le condizioni al contorno sarebbero favorevoli, se l’ideologia a noi avversa che ha dominato il campo per trentennio
ora è crollata sotto il peso dei subprime. Alla massima opportunità corrisponde anche la massima difficoltà e ciò non può dipendere da fattori contingenti. Dovrebbe essere giunto il momento di porsi domande fondamentali, le Grundfragen, quelle che una volta poste aprono nuove strade del pensiero, che non annichiliscono nella risposta ma intraprendono con essa un corpo a corpo per tenere in tensione il problema. Le domande fondamentali si collocano all’estremo opposto degli indovinelli, i quali prima creano l’incertezza assoluta e poi fanno scomparire l’interrogativo.
1. Quale capitalismo?
La prima Grundfrage è imposta dalla crisi: che razza di capitalismo è questo? Oggi che è in affanno possiamo domandarcelo senza apparire irriguardosi. Quando eravamo giovani comunisti i nostri dirigenti ci insegnavano a con- contrastarlo, ma anche a rispettarlo. Il profitto, ci dicevano, è pur sempre una ricchezza meritata dall’imprenditore e la distinguevano dalla rendita che invece il rentier incassa senza alcun merito. Le migliori energie riformiste in Italia sono state spese in passato per separare le due forme di ricchezza, ma oggi quei dibattiti sembrano fuori tempo. Non perché la questione sia stata risolta ma perché il problema è molto complicato. Con l’ascesa della finanza, infatti, la rendita ha sopravanzato il profitto e lo ha intrappolato nella propria logica. Il profitto è tale in quanto entra in un prodotto finanziario. E tale subordinazione diventa ancora più forte verso il lavoro. Infatti, nella ripartizione della ricchezza l’aumento più forte è andato a favore della la rendita, poi del profitto e il tutto a discapito dei redditi da lavoro. Nella regolazione dei processi e nell’allocazione delle risorse la componente finanziaria è diventata il dominus rispetto all’economia reale. Perfino la struttura dell’impresa è stata piegata nell’unico interesse degli azionisti finanziari, a discapito di tutti gli altri stakeholder, come spiega il, bel libro di Silvano Andriani che ha per titolo, appunto, L’ascesa della finanza. Ha vinto l’economia del possesso contro l’economia della produzione. Ciò non poteva che avere una risonanza speciale in Italia, dove ha risvegliato le corde premoderne del patrimonio familistico – la «roba» verghiana – e ha favorito il ripiegamento del grande capitalismo nei settori regolati per via politica, telefoni, autostrade, televisioni ecc. Non solo, la rendita finanziaria ha trascinato la gemella rendita immobiliare in un’organica economia di carta e di mattone che ha sostenuto un intenso e lungo ciclo edilizio, consumando una quantità di suoli pari all’estensione di due regioni come il Lazio e l’Abruzzo. Mentre fioriva la retorica sulle tecnologie immateriali gli investimenti in edilizia superavano per la prima volta quelli dei macchinari industriali.
Questa economia del possesso non poteva che trovare in Berlusconi il suo interprete più autentico; l’appropriazione è, infatti, l’unico registro della sua attività imprenditoriale e politica, che si tratti di reti televisive, aziende, parti- riale partiti o persone. Ha utilizzato tutte le risorse comunicative, da politico e da tycoon, per diffondere anche nell’immaginario collettivo l’idea della ricchezza come possesso piuttosto che come relazione.
E la sinistra? Certo, ha compreso il ritorno alla grande del protezionismo e ha pensato di contrastarlo con le liberalizzazioni. A questo obiettivo è stato dedicato almeno un decennio del riformismo italiano, con grande impegno e in- cennio incerti risultati. Anche per me, se rifletto sulla personale esperienza di amministratore, questo è stato il fronte di battagliapiù forte, dai tassisti alle gare europee sulle reti dei trasporti.
Rimango convinto della bontà di quelle politiche, ma vedo oggi con maggiore distacco l’infatuazione della sinistra italiana. Abbiamo avvertito il ritorno della rendita, ma in modo confuso e come una parvenza del processo strutturale che lo causa. Abbiamo letto, secondo una lunga tradizione, i fenomeni di rendita come espressione dell’arretratezza del capitalismo italiano e certo questa era una componente, ma non la sola. Anzi, il fatto nuovo del capitalismo consiste proprio nel ritrovare un collegamento con l’atto originario dell’appropriazione,
a lungo dissimulato dall’economia classica.
L’accumulazione del capitalismo nasce, infatti, nel momento in cui si recintano i terreni liberi formando così la rendita assoluta; in seguito si afferma il mercato che cerca di far dimenticare nell’equilibrio concorrenziale quella prepotenza iniziale. Oggi, con il dominio della rendita finanziaria il capitalismo torna al primato del possesso rispetto a quello della produzione. Le transazioni finanziarie sono molto più eteree e sofisticate dell’atto di recintare un terreno, ma l’atteggiamento di fondo è il medesimo.
Il recintare è un atto fondativo non solo per l’economia, ma anche per la politica. Il nomos viene da nemein che significa appunto «dividere un pascolo», e da qui discende, secondo la classica lettura schmittiana, una categoria fonda- fondamentale del politico. Più semplicemente, basta aver visto un film western per sapere che quando si recinta un terreno si forma una rendita e allo stesso tempo si crea un nemico.
Il capitalismo finanziario risveglia questi fenomeni primordiali e rilancia il momento dell’appropriazione come terreno comune tra l’economia e la politica. Il primato della rendita porta con sé un potere costituente. Per questo la forma
capitalistica contemporanea è accompagnata da una formidabile verticalizzazione del potere in tutti i campi, nello Stato, nell’impresa, nella società.
Avremmo dovuto contare su un altro potere costituente, non potevano bastare le pur necessarie liberalizzazioni. Non si trattava solo di modernizzare il processo economico eliminando i suoi arcaismi corporativi e proprietari. No, il vecchio era intrecciato al nuovo, la rendita parassitaria era diventata la forza regolativa della produzione moderna.
Un altro potere costituente poteva venire solo dal lato produzione, dal lavoro delle donne e degli uomini come la dimensione non solo economica ma politica. Proprio su questo terreno invece è stata massima la dimenticanza del- della sinistra non solo italiana. Nei casi migliori ce ne siamo occupati come problema della distribuzione del reddito, come regolazione dell’offerta di manodopera, come relazioni sindacali. Ma è completamente scomparso il tema lavoro come dimensione della cittadinanza, come principio ordinatore della società, come fattore costituzionale, tutto ciò, insomma, che è contenuto nel mirabile incipit della Carta, la Repubblica fondata sul lavoro lavoro. E la mancanza si è fatta sentire nella scarsa qualità delle relazioni sociali e politiche. La subordinazione del lavoro è la causa principale della frantumazione corporativa, del prevalere di ogni egoismo, dell’involgarimento dello spirito pubblico.
2. Quale Stato?
Le sconfitte del Novecento hanno reso quasi impossibile parlare del lavoro come principio politico. Eppure, solo dal lavoro può scaturire un altro potere costituente capace di contrastare quello della rendita sul terreno sia interessi
sia degli ordinamenti: produzione contro possesso relazione contro appropriazione, socialità contro egoismo. Tutto ciò si è realizzato a suo tempo nel grande compromesso del Welfare State. Il potere costituente del lavoro si
è espresso mirabilmente nello Stato novecentesco fino a essere scritto appunto nelle costituzioni, non solo quella italiana. Se, infatti, il classico conflitto capitale-lavoro si manifesta nel processo di accumulazione, il conflitto rendita- lavoro si media nella statualità.
Da qui sorge allora la seconda Grundfrage: che razza di Stato abbiamo di fronte? Fino a poco tempo fa poteva sembrare una domanda fuori tempo. I cantori della globalizzazione ne annunciavano una graduale estinzione e alla fine ci ritroviamo con la rinascita delle Partecipazioni statali a Wall Street. Per quasi un ventennio la stessa parola «Stato» è sembrata quasi una bestemmia, non solo per il liberismo della destra, anche per il ‘nuovismo’ della sinistra. E oggi, invece, tutti lo cercano, tutti lo invocano, tutti lo piegano alle proprie esigenze. Ha svolto molti mestieri in passato, come proprietario di aziende pubbliche, come regolatore dei processi, come assicuratore del welfare, ma non si era ancora visto all’opera come discarica dei rifiuti tossici della finanziarizzazione, per dirla con l’icastica definizione di Cavazzuti.
Come deve essere interpretato questo fenomeno? È il ritorno oppure il declino dello Stato? Ecco un tema da approfondire; certo, è una grande occasione per la sinistra poter tornare a parlare di politiche pubbliche, ma c’è anche pericolo
che tutto si riduca a un intrappolamento delle funzioni pubbliche nel riassetto del turbocapitalismo, come una sosta ai box per riparare il motore e poi ripartire come prima.
Quale Stato? Ritorna tutta la grandezza della questione e dalla risposta che ne daremo dipenderà in gran parte l’esito della crisi, non solo in campo economico, ma negli assetti civili e morali. Che cos’è questo Stato che pretende di entrare nella nuda vita decidendo contro l’individuo e la stessa famiglia quando si debba morire? Come si concilia il rifiuto dello Stato espresso dall’opinione pubblica in tante forme con il bisogno di sicurezza altrettanto forte? E si può parlare di Stato se almeno in un terzo del Paese non è assicurata
la funzione primordiale del presidio del territorio, curata come si vede nella gestione dei rifiuti, nella lotta alle mafie e nel controllo dei flussi migratori? E poi ancora, a quali condizioni la nazione italiana potrà continuare esprimersi mediante uno Stato unitario?
La crisi economica mondiale porta in primo piano il problema della statualità e gli specifici caratteri nazionali rendono ancora più lacerante. Anche di ciò abbiamo avuto una percezione superficiale nel ventennio passato, ce ne siamo occupati sotto il titolo delle riforme istituzionali, dando peraltro risposte non sempre efficaci. Legge elettorale, Senato federale, forma di governo e altri marchingegni di questo tipo sono rimasti al di sotto della mutazione del ruolo dello Stato nell’epoca globale e al di sopra della crisi tra amministrazion pubblica e organizzazione civile. L’ingegneria istituzionale ha visto solo la parvenza del fenomeno ben più corposo della crisi di statualità.
3. Quali partiti?
Proprio la crisi di statualità ha fatto mancare il terreno di incontro tra politica e società. La volontà del progetto non ha più incontrato la spontaneità della trasformazione. Quando la politica è vigorosa instaura un rapporto intenso, quasi erotico, con la società e lo Stato ne costituisce l’alcova. Il venir meno della dimensione statuale è all’origine di un forte senso di estraneità, come ha messo in evidenza Enzo Roggi. Da una parte la società si è depoliticizzata e lo vediamo perfino nei movimenti più impegnati sui temi di sinistra; le prime parole dei giovani dell’Onda erano spese per prendere le distanze dalle forze politiche. D’altro canto la politica stessa si è desocializzata, ha perso la funzione di rappresentanza dei soggetti sociali. Da questa perdita di realtà è venuta la degenerazione della forma partito in una mera organizzazione del ceto politico. Si impone così la terza Grundfrage Grundfrage: che razza di partiti abbiamo di fronte? Le classi politiche attingono la linfa vitale non più dallo Stato centrale ma dai monopoli locali. Prima, con le Partecipazioni Statali agivano sul processo di accumulazione, ora gestiscono le rendite del territorio. E infatti la forma dei partiti ormai assomiglia all’organizzazione in franchising delle reti di vendita delle agenzie immobiliari.
Entrando in un negozio di Tecnocasa o di Toscano si tratta con un rivenditore locale, ma si ha l’impressione di entrare in contatto con un’azienda nazionale più affidabile. Anche i partiti vanno assumendo ormai questa organizzazione in
franchising: sono tenuti insieme dal simbolo e da leader televisivi, pur essendo ormai costituiti da notabili locali dotati di una forza elettorale personale che spesso trasportano da una lista elettorale all’altra.
La struttura politica è falsamente unitaria e la divisione dei compiti è netta: i notabili alimentano il patrimonio, mentre i leader curano il marchio; ai primi il voto di scambio e ai secondi il voto di opinione. Non sono ammesse invasio- invasioni di campo, dal locale non vengono obiezioni sulla linea politica nazionale e viceversa i leader lasciano fare la gestione dei patrimoni locali.
Questa forma articolata conferisce ai partiti moderni quel tipico carattere leggero all’apparenza e pesante nella sostanza. Tante feudi inespugnabili, ma pronti a cambiare le alleanze con i principi. Che ciò possa costituire il brodo di coltura di una nuova questione morale è del tutto ovvio, l’anomalia consiste semmai nell’accorgersene solo dopo l’iniziativa dei magistrati, mai mentre il processo strutturale era sotto gli occhi di tutti da almeno un ventennio. Anche senza il malaffare questa forma politica è devastante soprattutto per la sinistra. I partiti in franchising sono adatti ad attrarre clienti, non i cittadini; curano lo scambio locale, ma rimangono indifferenti ai progetti politici; mantengono il ceto politico, non selezionano la classe dirigente.
Anche in questo caso ci siamo occupati della parvenza del problema. Si è parlato dei partiti solo in termini politologici, come attori del sistema politico-istituzionale, mai come strutture di rappresentanza della società, mentre proprio su questo terreno essi intanto subivano la trasformazione più corposa, seppure in forma deteriore.
Soprattutto qui si era vista una via d’uscita con le primarie, ma sono state confuse con una mera procedura elettorale, o per acclamare i prescelti o per fare la conta tra i notabili locali. Invece, le primarie potevano essere qualcosa di più, un paradigma di organizzazione per ripensare in termini moderni una forza politica a insediamento popolare. A quei tre milioni e mezzo di cittadini che avevano mostrato disponibilità a spendere un’ora del proprio tempo bisognava dire dopo poche settimane a quale porta dovevano bussare, quale telefono chiamare, quale militante cercare e invece si sono perfino smarriti gli elenchi. Sarebbe stata una esperienza nuova di partecipazione politica, ma avrebbe comportato lo smantellamento del partito in portato franchising e non c’è stata la forza o la volontà di farlo.
Riassumendo, la crisi della sinistra italiana presenta questo filo conduttore: sono stati avvertiti i problemi nuovi dell’epoca nostra, ma sempre mediante una parvenza, mai per una presa di coscienza diretta e sostanziale. Abbiamo capito
il ritorno della rendita, ma come problema di ammodernamento dell’economia da realizzare con le liberalizzazioni. Abbiamo avvertito la questione dello Stato, ma è stata declinata come esigenza di riforme istituzionali. Sentivamo che i partiti non erano più quelli di una volta e abbiamo cercato di rinnovarli agendo dall’alto con le ricette della politologia e delle procedure elettorali.
È tempo di abbandonare le parvenze e guardare alla sostanza: il principio costituente del lavoro, la nuova statualità, i partiti radicati nella società.
Bisogna uscire dalla caverna platonica, dove abbiamo combattuto con le ombre. Si deve venire alla luce del sole per guardare in faccia la realtà e trovare la strada per la rinascita della sinistra italiana.
* In collaborazione con Argomenti Umani, diretta da Andrea Margheri