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Chiamarsi Partito

in Italia

di Andrea Margheri*

Pochi giorni or sono le dimissioni di Veltroni e la decisione eleggere in Assemblea il nuovo segretario avevano scatenato polemiche distruttive, amplificate da un’offensiva mediatica senza precedenti a sostegno di un appello diretto agli elettori. Quelle tensioni esasperate ora sono in parte dissolte per il riemergere dei processi di «lunga durata», che stanno alla base sia del progetto del Pd sia delle sue difficoltà successive. La forza dei fatti si impone al di là dei passaggi tattici più o meno controversi e costringe tutte le varie anime del Pd ad aprire una fase nuova di riflessione e di impegno. Per chi, come noi di «Argomenti umani», può giovarsi di un punto di osservazione e di intervento modestissimo, ma assolutamente autonomo che, quindi, conserva la freddezza

necessaria all’analisi dei fatti, appaiono chiare alcune tendenze di fondo che la vicenda ha messo in luce. Vorrei provare a delinearne alcune.

La prima richiama il dibattito ancora del tutto aperto sulla forma partito e sul modello di partecipazione. Oggi possiamo vedere con più chiarezza la contraddizione che si è aperta nella società italiana con il tentativo di co- costruire anche nell’area progressista il partito del leader op- struire opponendo

l’appello democratico agli elettori nelle cosiddette ponendo primarie all’automatismo gerarchico senza scampo su cui si fonda, invece, l’unità del Popolo della libertà. Quell’appello apparve a taluni una coraggiosa «innovazione», ma era un vicolo cieco. Si scontrava sì con la storia della democrazia italiana e delle culture riformiste sia di origine socialista sia di origine cattolica, ma anche con le esigenze ‘nuove’ della società complessa. Di fronte all’automatismo della gerarchia della ricchezza e del dominio invasivo dei media, c’è una domanda insopprimibile di continuità e valorizzazione dell’impegno civile. Le reti informatiche sono di svariata natura antropologica e culturale, ma se si ha la pazienza necessaria è facile scorgere anche in esse quella domanda impellente della continuità dell’impegno. Più forte ancora tale domanda si esprime nel tessuto sociale, come reazione ai processi di frantumazione e di disfacimento provocati dalla crisi istituzionale del Paese. E come speranza di un’ascesa sociale alternativa a quella garantita solo dal denaro

e dal potere già consolidato.

Al populismo di modello autoritario e personalistico del Popolo della libertà, il Pd ha di fatto opposto un populismo democratico e plebiscitario. Il tentativo è valso a impedire una grave, pericolosissima dispersione di forze organizzate, di risorse intellettuali, di riferimenti morali. La democrazia senza partiti non è il ‘nuovo’, ma blocca proprio l’emergere delle spinte progressiste dal tessuto sociale e dai luoghi comunitari del sapere, del pensiero, del lavoro. Il partito nella storia italiana e forse europea deve essere oltre che una macchina elettorale, una comunità di partecipazione fondata sulla responsabilità dei dirigenti verso gli iscritti, sulla continuità dell’impegno sul territorio e nei centri della vita produttiva e sociale, sulla valorizzazione delle risorse intellettuali e culturali, plurali e articolate, che senza il partito restano disperse o marginali.

Così possono formarsi, anche attraverso contrasti e polemiche, quel ‘pensiero collettivo’, quelle idee forza che debbono costituire la base necessaria dell’unità nell’azione. Il pluralismo è una ricchezza solo se esistono i meccanismi collettivi della ricerca e dell’elaborazione.

Le primarie sono un ottimo strumento per scegliere democraticamente i candidati alle cariche istituzionali. Devono lasciare il campo per quel che riguarda il partito e i suoi organismi dirigenti. Questo leggiamo nella «crisi di febbraio».

Ma c’è un punto di ancora maggior rilievo e che ci pare ancor più decisivo. Un partito è prima di tutto una visione del mondo, un progetto, una risposta alle domande della realtà in cui opera e dei conflitti in cui è coinvolto. È, in definitiva, la forma organizzata della funzione storica che i sostenitori si sono dati.

Come potrebbe esistere un partito che ha funzioni storiche multiformi e intercambiabili? Ovviamente, rischierebbe costantemente di frantumarsi o resterebbe al palo, scosso e paralizzato dal ‘singhiozzo intellettuale’.

Queste sono ovvietà, ma per qualche tempo sono state come oscurate e dimenticate. Si è pensato che il problema dell’identità del Pd potesse essere risolto dalla semplice convivenza delle diverse culture riformiste come permanente proposta elettorale. E questo sarebbe stato il «nuovo»? O non è stato piuttosto un trascinamento nel nuovo secolo del «vecchio»? E non solo delle diverse radici storiche, che è fatto necessario e positivo, ma anche delle rispettive ‘insufficienze’ teoriche e pratiche. Il che riproponeva un paralizzante circolo vizioso.

Siamo più che convinti che l’origine profonda delle difficoltà di questo anno di vita del Pd stia nella insufficienza dell’analisi dei cambiamenti del mondo, e in primo luogo della l’analisi crisi globale e dei suoi effetti sulla società europea e italiana.

Anche il Pd, come in generale le forze della sinistra europea, è rimasto immerso in un apparente paradosso culturale. Proprio mentre i fatti segnano il crollo clamoroso del «ciclo» ultraliberista avviato dalla rivoluzione della Thatcher e da Reagan e consolidatosi come frutto e fondamento insieme dell’egemonia del «pensiero unico» e degli Stati Uniti, proprio mentre quel modello finanziario, economico, geopolitico di globalizzazione capitalistica si sfalda sotto i nostri occhi, la sinistra europea sembra cogliere solo gli effetti particolari nella dimensione nazionale, sembra priva di una risposta politica e sociale a dimensione internazionale.

È un paradosso solo apparente. Troppo forti sono state le influenze che il liberismo senza regole e con pochi principi ha esercitato sui ‘rinnovatori’ della sinistra, troppo forte l’illusione che ci fosse l’approdo definitivo del capitalismo

e la fine dei conflitti. Così, in Italia non c’è stata una liberalizzazione della società delle rendite e dai privilegi corporativi, né una lotta organizzata contro gli effetti del pensiero unico sul rapporto tra politica ed economia, tra Stato e mercato. Mentre Obama, perfettamente consapevole della fase storica, guida un difficile processo di rinnovamento la sociale e culturale della società americana, in Europa la sinistra sembra balbettare.

Più grave ancora in Italia dove subisce il successo del populismo e del localismo di Berlusconi e della Lega che costruiscono la loro forza sulla paura sociale delle conseguenze della globalizzazione. Una destra al potere che mal sopporta la Costituzione e la divisione dei poteri istituzionali, porta che finisce per aggravare la crisi del sistema produttivo, la spaccatura tra Nord e Sud, la crisi della democrazia e del sistema politico.

Ma un progetto serio di rinnovamento che realizzi insieme le aspirazioni e le speranze sia della cultura socialista, sia del cattolicesimo sociale, non può nascere e svilupparsi senza la consapevolezza della crisi, senza un’analisi del suo significato storico. Da qui si deve partire sia per ricollegarsi al movimento dei lavoratori e alla protesta sociale, sia per sostenere le forze della scienza, della tecnologia, del sapere, dell’imprenditorialità, della creatività a cui è affidata l’imprenditorialità, principalmente nelle strutture produttive e nell’organizzazione sociale la risposta alla crisi.

Questo al Pd nei mesi passati è mancato, mentre il teatrino mediatico della politica politicante ci invischiava sempre più nel dramma e nella farsa. Il problema ora non cambia: occorre colmare il vuoto, proporre la forza di un pensiero collettivo sulla crisi, sui suoi effetti sociali e ambientali, sulla

qualità e sostenibilità di un nuovo sviluppo. Nel nostro modesto lavoro abbiamo scelto questa via, che riteniamo la via maestra per tutto il Pd.

 

* In collaborazione con Argomenti Umani, diretta da Andrea Margheri

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