Religione ed
ethos democratico
di Marco Ivaldo
Vorrei avanzare una riflessione sulla questione, oggi molto dibattuta, di un possibile contributo delle religioni alla costruzione di un ethos democratico muovendo da due considerazioni.
La prima riguarda il ruolo che le religioni, in particolare le tre religioni di origine abramitica, vengono esercitando con crescente incidenza, da alcuni decenni oramai, nella sfera pubblica. Per un verso si è rivelata fattualmente sbagliata la fede ‘positivistica’ che lo sviluppo scientifico, unito ai progressi della tecnologia e della tecnica, avrebbe gradualmente sostituito l’interpretazione religiosa del mondo. Le religioni, come fonti di motivazioni e di scopi del vivere, non sono affatto scomparse dalla vita delle persone; anzi nelle società di massa contemporanee tende a manifestarsi, come reazione ai fenomeni di frammentazione sociale e di anomia, una domanda di senso, che trova nelle religioni uno dei più potenti sistemi di significato in grado di accoglierla e di interpretarla. E’ il fenomeno, suscettibile per altro di ermeneutiche differenziate, del ‘ritorno’, ma forse si dovrebbe dire: della ‘permanenza del religioso’. Per altro verso la riduzione della religiosità a cosa privata – che trova le sue premesse nell’epoca delle guerre di religione, ma che veniva ritenuta da alcuni teorici come una implicazione necessaria dei processi di secolarizzazione - è entrata in crisi nei fatti: l’esperienza religiosa si propone non soltanto come rilevante sul piano della vita di moltissimi individui, ma elabora esigenze etiche e istanze civili che vuole vedere rispecchiate o corrisposte anche nella vita pubblica e nella sfera politica. Ciò accade non soltanto nell’islam e nell’ebraismo religioso. La chiesa cattolica ad esempio – che pure si ispira alla distinzione evangelica fra ciò che è dovuto a Dio e ciò che è dovuto a Cesare e che ha elaborato un complesso confronto riflessivo con la modernità, sfociato nel Concilio Ecumenico Vaticano II – accentua oggi con particolare enfasi il ruolo storico e pubblico della fede cristiana (da lei per altro sempre rivendicato), e declina questo ruolo volendosi come interprete di alcuni ‘valori non negoziabili’, che le legislazioni civili dovrebbero tutelare o almeno non contraddire.
La seconda considerazione mi è sollecitata dalla notissima affermazione del giuspubblicista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo cui “lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire”. In tale affermazione si esprime il dubbio che lo Stato democratico costituzionale sia in grado rinnovare in maniera autonoma le condizioni normative della propria esistenza, e si manifesta l’idea che questa forma statuale dipenda in definitiva da specifiche tradizioni metafisiche e religiose oppure da determinate forme dell’ethos vincolanti per la comunità. Habermas - il quale pure manifesta la fiducia che una “ragione non disfattista” possa elaborare una strategia di giustificazione autonoma dei principi costituzionali con la pretesa di riuscire accettabile da tutti i cittadini – ammette in pari tempo che, riguardo alla efficacia di questa strategia argomentativa indipendente da tradizioni metafisiche e religiose, resta “un dubbio di carattere motivazionale”. In particolare le risorse e le strategie argomentative della ragione pubblica patirebbero un deficit motivazionale quanto alla promozione di quegli atteggiamenti morali che ci si deve attendere da cittadini che devono partecipare in maniera attiva alla res-publica non solo nell’ottica di un illuminato auto-interesse, ma in quella del bene comune. Questo a causa di una “modernizzazione aberrante” della società nel suo complesso, che avrebbe reso storicamente sempre più fragile, nelle attuali società democratiche, il legame sociale e che può esaurire quella forma di solidarietà da cui lo Stato democratico dipende, pur senza poterla imporre per via giuridica. Questa circostanza ha sollecitato Habermas, come è noto, a ripensare le potenzialità contenute nelle tradizioni religiose, in particolare nella tradizione cristiana: “Nella vita delle comunità religiose – egli ha detto - , nella misura in cui evitino dogmatismo e costrizione delle coscienza individuale, può rimanere intatto qualcosa che altrove è andato perduto”, e che nessun sapere empirico e strumentale può riattivare, cioè: “possibilità di espressione sufficientemente differenziate, sensibilità per vite andate male, per le patologie sociali, per l’insuccesso di progetti di vita individuali e per le deformazioni di contesti di vita sfigurati” . Anche Böckenförde sottolinea per parte sua l’esigenza di un ruolo non ideologico e politico, ma spirituale delle religioni nella costruzione del legame sociale e della unità politica nelle condizioni di pluralità che sono proprie delle società democratiche, legame e unità che non potrebbero affatto venire prodotti e garantiti su presupposti puramente funzionalistici e eudemonistici.
Ora, la permanenza del religioso e il suo proporsi come esigenza etica e istanza civile sul piano pubblico, per un verso, e il riconoscimento delle potenzialità delle tradizioni religiose per alimentare i presupposti etici e gli atteggiamenti morali necessari alla convivenza democratica per l’altro verso, sono due fenomeni che suggeriscono e sollecitano una richiesta complessiva, richiesta la crisi del mondo attuale acutizza. Si tratta di questo: i cittadini appartenenti a una specifica religione di chiesa e i cittadini non appartenenti a una chiesa o comunità religiosa sono oggi convocati insieme a ripensare il rapporto fra le religioni e lo spazio politico con i suoi presupposti morali secondo forme nuove, che non possono più semplicemente ripetere o reiterare quelle elaborate negli ultimi tre secoli, e ciò anche se la cultura moderno-liberale ha messo a tema un complesso di autonomie e di vincoli che non debbono affatto venire cancellati o ignorati. Penso che abbia consumato il suo tempo l’idea di una neutralizzazione politica della religione, che intenda la religione stessa come semplice affare privato, a cui va sottratta ogni incidenza costruttiva nella sfera pubblica. Ma giudico anche non accettabile l’idea, oggi abbastanza in voga, di fare (o di rifare) un uso strumentale della religione, in particolare della religione di chiesa: l’idea ad esempio di fare del cattolicesimo quasi una nuova religione civile che funzioni come fattore di auto-identificazione sociale di fronte all’impatto di altre culture e religioni e fornisca un antidoto conservatore contro derive relativistiche sul piano dei costumi morali (con l’aggiunta, in questa impostazione, di fare del magistero della chiesa in ambito morale – ma si dovrebbe precisare: nell’ambito di ciò che viene designata ‘morale naturale’ - l’interprete ipso facto privilegiato degli atteggiamenti etici necessari a promuovere e garantire la convivenza). Qui deve essere chiaramente affermato: la fede cristiana non è cosa privata, ma – ciò che è assai diverso – è realtà ed esperienza personale, o meglio interpersonale; e ancora: la fede cristiana non è affatto una religione civile, comunque si voglia intendere questa espressione e come già sapevano le prime comunità cristiane che si trovavano messe a confronto con la religio romana, ma è piuttosto – per riprendere una espressione molto bella di Aldo Moro – “principio di non appagamento e di mutamento dell’esistente nel suo significato spirituale e nella sua struttura sociale”.
Ora, quanto alla esigenza di pensare in forme nuove il rapporto fra le religioni e le basi morali della democrazia ancora Habermas elabora, mi sembra, una interessante proposta. Egli invita i “cittadini credenti” (va inteso: credenti nelle religioni fondate su una rivelazione) e i cittadini non appartenenti a chiese (che egli chiama “cittadini secolarizzati”) a intendere di comune accordo la secolarizzazione “come un processo di apprendimento complementare”, nel quale entrambi possano prendere reciprocamente sul serio, anche per motivi cognitivi, i rispettivi contributi sui temi dibattuti nella sfera pubblica. In questo quadro il filosofo tedesco osserva che i cittadini secolarizzati non hanno in linea di principio la facoltà di negare un potenziale di verità alle immagini religiose del mondo, né di contestare ai cittadini credenti il diritto di contribuire a pubbliche discussioni in linguaggio religioso. Pertanto le rappresentazioni religiose non devono venire squalificate a priori come semplicemente irragionevoli e pubblicamente irrilevanti, anzi rappresentano una sfida cognitiva per tutti.
Rispetto a questa interessante posizione di Habermas – che condivido nel suo orientamento di fondo - vorrei però far valere che non solo ai cittadini secolarizzati, ma anche ai cittadini credenti dovrebbe venire riconosciuta la capacità di “traduzione”, ovvero la competenza di trasferire il potenziale di verità delle immagini religiose del mondo dal linguaggio religioso a quella che il filosofo chiama “una lingua accessibile a tutti”. Penso in altri termini che il cittadino credente debba vedersi riconosciuta, o comunque debba assumersi in prima persona, la responsabilità della ‘mediazione culturale’ (riconoscimento in verità abbastanza inusuale oggi non solo in quella che si chiama ‘cultura laica’, ma anche nella chiesa). La mediazione culturale, come qui la intendo, è precisamente la “traduzione” di una immagine della realtà da un linguaggio a un altro linguaggio, e - per riferirmi adesso alla tradizione religiosa cristiana - dal linguaggio che manifesta i contenuti immediati della rivelazione, a cui risponde l’atto peculiare della fede, al linguaggio che viene parlato dalla ragione a tutti comune e che articola l’agire della ragione stessa. Si tratta di una prospettiva che non intende affatto la “traduzione” secondo il programma di una ermeneutica demitizzante, ma secondo quello di una interpretazione universalizzante (Pareyson), cioè mirante a mettere in valore l’universale partecipabilità e comunicabilità dei contenuti di una rivelazione, la loro capacità di interessare la persona al di là di una sua appartenenza a una chiesa o gruppo religioso, di appellare la sua libera riflessione
La possibilità per cittadino credente di vivere la sua identità cristiana nella sfera pubblica dipende in ampia misura dalla sua capacità di realizzare questo tipo di mediazione culturale, ovvero – per riprendere e riformulare a mio modo una posizione di Habermas, poco prima evocata – dalla sua capacità di contribuire alle pubbliche discussioni non solo in linguaggio religioso (che ha un suo proprio inalienabile diritto nella esplicita testimonianza), ma, muovendo dalla coscienza religiosa e ispirandosi a questa, anche in un linguaggio capace di attirare l’ascolto e l’interesse dei membri della ‘città’ al di là della loro personale appartenenza (o non appartenenza) a una religione di chiesa. E’ la lingua della comune ragionevolezza, a condizione di non ridurre questa ragionevolezza alle sue declinazioni formalistiche oppure empiristiche, e di assumerla invece quale ci viene tramandata dal ‘socratismo perenne’ del logon didonai, la ragionevolezza come pratica di giustificazione dei pensieri e delle azioni.