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Elogio della malinconia

di Alfonso Maurizio Iacono

Anziani signori che si pensano giovani e onnipotenti, prostitute che si credono veline, ruffiani per vocazione e per professione, donne che amano farsi schiave pur di apparire in tv. I confini si sfumano.  Sembra di essere nella descrizione che il grande filosofo illuminista, padre dell'Encyclopédie, Denis Diderot fece di una scena che disse di sognare mentre stava ammirando a Parigi un quadro del pittore Jean-Honoré Fragonard. Sognò di essere nell'antro di Platone e gli spettatori erano come i prigionieri. Ma, a differenza di Platone, Diderot ne fa l'elenco: “re, ministri, preti, dottori, apostoli, profeti, teologi, politici, bricconi, ciarlatani, artisti facitori di stupefacenti illusioni e tutta la genìa dei mercanti di speranze e di paure”. Chi osava dire qualcosa, chi aveva l'ardire di criticare, veniva malvisto e minacciato. Diderot aveva scritto queste cose nel 1765, ma sembrano i nostri giorni. Oggi bisogna essere sempre euforici, gioiosi, perchè, ci dicono, l'infelicità è una malattia che va tenuta lontana. I mezzi ci sono. I soldi, per chi ce li ha, pure.

In un'epoca in cui non siamo più in grado di distinguere tra il normale e il patologico,  e non sappiamo più bene dove stia la differenza tra una gioia sana e un piacere insano, tra la tristezza e la depressione, tra una sofferenza che ci fa crescere e una dolore che ci opprime, vorrei tessere l'elogio della malinconia. Quella che ci fa sentire la mancanza, il limite, l'irreversibile, l'irraggiungibilità di una meta, l'invalicabilità di un confine, l'infinito di un orizzonte. Quella che abbatte il delirio di onnipotenza e ci fa capire che il tempo avanza e muta le cose e noi stessi. Quella che ci toglie la facile illusione a buon mercato del gratta e vinci. Quella che ci porta all'ironia,  mettendo in dubbio noi stessi ogni qual volta ci prendiamo troppo sul serio. Quella che ci fa volgere lo sguardo al passato con umiltà e commozione. Quella che ci spinge verso un futuro che non c'è e potrebbe non esserci mai. Quella che ci evita l'inganno di una falsa pienezza di vita quando invece cerchiamo soltanto di sfuggire a noi stessi. Quella che deride la furbizia e la mette dove deve stare, negli anfratti dei servi.  Quella che ci dà una coscienza e una dignità.

La malinconia è l’inevitabile portato della vita umana. Ne abbiamo oggi così tanta paura che la identifichiamo con una malattia, la depressione. Ma la malinconia non lo è. Neppure la tristezza lo è. Perché tendiamo a confonderle con la depressione? Perché attribuiamo a un atteggiamento sano il marchio della malattia? George Steiner ha scritto: “Le interposizioni tra pensiero e atto sono molteplici e varie come la vita. Le ombre che cadono tra il pensare e il fare non possono mai essere inventariate esaustivamente e ancor meno classificate. Le costruzioni ingegneristiche o architettoniche più esigenti ammettono lievi deviazioni dal progetto o dalla calibratura precisa. Nessun pittore, per quanto capace, può trasferire appieno sulla tela la sua visione interna o quel che crede di vedere di fronte a sé. Perfino nella sua forma più rigorosa, la musica incorpora solo parzialmente il complesso di sentimenti, idee, relazioni astratte del suo compositore. La distanza tra ciò che preme sulla sensibilità, tra l’immaginato e la sua enunciazione linguistica, è un melanconico clichè, un luogo comune di una sconfitta perpetua fin dagli inizi non solo della letteratura, ma degli scambi più intimi e urgenti tra gli uomini”.

La tristezza è la sofferta consapevolezza dello scarto incolmabile tra il pensare e il fare, è il senso del limite, è la ferita narcisistica. Solo una cultura invasa dall’insano senso di onnipotenza può rifiutare di accettare questo inevitabile scarto che dà il segno inequivocabile della nostra mortalità.

Non siamo più in grado di distinguere la malinconia e la tristezza dalla depressione. Non ci riusciamo più. Come ha osservato il biologo Steven Rose: “all’interno della nostra cultura e delle nostre società altamente individualistiche vi è una crescente tendenza a medicalizzare l’angoscia sociale e ad etichettare l’infelicità come uno stato patologico, da correggere mediante intervento medico che sia attraverso l’uso di farmaci o di altre forme di terapia”. Nella nostra epoca, domina la spinta a patologizzare il normale. Un tempo era la condizione patologica a dirci qualcosa della normalità. Una malattia funzionava da lente di ingrandimento per ciò che era sano. Oggi accade il contrario. Una malattia come la depressione, considerata ormai come un’epidemia su scala globale, non riesce più a essere una lente di ingrandimento per la condizione normale, perché tutto sembra mostrarsi con le fattezze del patologico. E’ ormai senso comune chiamare depressione quasi ogni tipo di sofferenza sentimentale. Il dolore dell’abbandono della donna amata o dell’uomo amato diventa sintomo della depressione e dunque segno di una malattia. Ma la sofferenza non è di per sé una malattia. Se tuttavia la tendenza è verso l’identificazione di ogni sofferenza con la malattia, allora la questione è culturale e riguarda la medicalizzazione sempre più crescente delle relazioni sociali. La ricerca della felicità individuale, prospettata dai paesi occidentali, ha bisogno del supporto medico e psichiatrico? Se è così, fin dove si estende la pratica della diagnosi medica? E quali terapie prescrive per gli individui e per la società? Queste domande non implicano qui l’ovvia e scontata conclusione che gli individui non possono e non devono ridursi a perdere le loro libertà in favore di terapie a base di psicofarmaci né ancor meno che a governare le persone debbano essere medici e sciamani con il camice bianco che si prendono cura di loro. Ma non implicano neanche la conclusione che la ricerca della felicità e, al contempo, della libertà possano e debbano essere necessariamente aiutate dalla farmacopea, nuovo angelo chimico del focolare che sta lì accanto, pronta a sorreggerti quando le forze sembrano affievolirsi e quel senso di sicurezza che si è alimentato di un sottaciuto desiderio di onnipotenza, sembra all’improvviso mancare, creando smarrimento, ansia, panico, depressione. 

Il fatto è che lo smarrimento non si traduce necessariamente in ansia e in panico, e la sofferenza non è di per sé una malattia. 

Salute e malattia, però, non sono entità distinte. Ogni malattia può essere una lente d’ingrandimento per capire in cosa consista la stato di salute. Nell’ansia riconosci lo smarrimento, nella depressione la malinconia. Proprio per questo rapporto di parentela così stretto, il normale e il patologico possono confondersi e, nella confusione, può capitare che si attui la colonizzazione della salute da parte della malattia. E’ quel che sta accadendo, mi pare, anche alla politica e alla democrazia.

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