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Contro il 

“popolo sovrano”

di Bruno Moroncini

Continua, pur se in tono dimesso, lo scontro tutto ideologico fra politica e tecnica su cui richiamavo l’attenzione già nel mio precedente intervento su Inschibboleth. Continua la polemica che vede contrapposti un governo democraticamente eletto e legittimato dal voto popolare e un governo tecnico nominato dall’alto, fosse pure questo ‘alto’ il presidente della Repubblica come garante della costituzione, un governo di competenti che supplisce temporaneamente alle difficoltà della politica.  Continua, sia a destra sia a sinistra, prendendo a pretesto la debolezza dell’Europa dominata dall’egoismo tedesco, i provvedimenti impopolari del governo tutto tasse e niente crescita, la sua sottomissione agli interessi dei mercati e della speculazione finanziaria; continua attraverso la difesa di quei ceti che non vogliono perdere i propri privilegi e il fuoco amico che gli apparati di stato preoccupati di veder ridotta o eliminata la propria fetta di potere aprono contro il loro stesso governo e soprattutto contro il suo migliore ministro, il più brillante ed estroso, il più innovativo sul piano del linguaggio e dei comportamenti, sicuramente il meno assimilabile allo stile ipocrita e sussiegoso dei politici italiani, vale a dire la signora Elsa Fornero; continua soprattutto attraverso la minaccia ripetuta a ogni istante di elezioni anticipate invocate ufficialmente dai partiti come l’unico modo democratico con cui il popolo sovrano può legittimamente riappropriarsi di sé e della sua storia, ma volute in realtà come estremo antidoto - sui cui effetti d’altronde è più che lecito dubitare - alla propria scomparsa. D’altra parte, se proprio si voleva andare alle elezioni, bisognava farlo appena dopo la caduta di Berlusconi e prima dell’insediamento del governo Monti, non ora; ma allora come adesso la paura, il vero e proprio terrore di andare a governare la crisi, ha spinto i partiti, piuttosto che a riconoscere il vuoto che li fagocitava, ad affidarsi, come il piccolo Hans freudiano, al ’gestore della tecnica’, l’idraulico capace di sostituirgli il fapipì rotto e ormai inservibile con uno nuovo di zecca. 

Mai come adesso, in un’epoca di globalizzazione, di Unione Europea e di decisioni assunte da organismi internazionali non eletti, cresce l’ipocrita nostalgia per le belle sovranità nazionali di una volta, per gli stati che battevano moneta, per le banche centrali che garantivano il debito e per le politiche di welfare finanziate con la spesa pubblica, senza contare le svalutazioni fatte per sorreggere le esportazioni. Ma dietro la foglia di fico del lamento e dell’indignazione per l’espropriazione della sovranità popolare cinicamente perseguita dai sempre più fantomatici ‘poteri forti’ si nasconde solo la resistenza che ceti, classi e gruppi di pressione, espressioni della società civile o annidati nei meandri dell’amministrazione dello stato, oppongono alla perdita dei privilegi e dei vantaggi acquisiti in passato e ai quali non si intende rinunciare.

  Su quelle che potremmo chiamare le mitologie della democrazia, prima fra tutte quella della sovranità popolare, ha posto l’attenzione Alessandro Pizzorno in un saggio comparso sull’ultimo numero de «il Mulino» - una rivista tornata a macinare idee dopo un periodo di appannamento dovuto all’indulgere da parte della precedente direzione a un antiberlusconismo di maniera - che già dal titolo mostra il suo carattere provocatorio: In nome del popolo sovrano?Pizzorno non nasconde che lo stimolo a elaborare una riflessione sull’incompatibilità fra esercizio del voto ed efficienza dei governi gli sia venuto proprio dal «fastidio per la vaghezza, fumosità, irrilevanza del chiacchiericcio che in questi giorni ha accompagnato le vicende politiche italiane», oscillanti fra gli appelli a tornare al popolo e le difese d’ufficio del governo tecnico che è in realtà anch’esso un governo politico.  Un cicaleccio che o per ignoranza o per paura, o per entrambe, non affronta le questioni centrali poste dalle democrazie moderne, dal modello cioè impostosi dappertutto in occidente solo dopo la fine della seconda guerra mondiale e che da qualche tempo mostra, nonostante il discorso ideologico dominante, la corda. Questioni che essenzialmente riguardano l’affermazione che le democrazie intese come esercizio della sovranità da parte del popolo attraverso il voto siano proprio per questo in grado di attenuare, se non di eliminare, la povertà e le disuguaglianze sociali. 

Dopo una divertente analisi sull’irrazionalità del voto individuale per cui, come dimostrano indagini e inchieste sociologiche, accade che elettori con preferenze presenti nei programmi dei partiti di sinistra votino a destra e viceversa, Pizzorno enuncia la sua tesi principale sul voto cosiddetto democratico: il diritto di voto viene concesso dalle élites dominanti non allo scopo di rendere più giusto ed efficiente l’esercizio del governo, ma per garantirsi la pace sociale. Il risultato delle rivoluzioni, da quelle passate come la francese dell’ ’89 a quelle arabe dei giorni nostri, è sempre lo stesso: l’estensione del diritto di voto a tutto il popolo al solo scopo di cooptare nell’esercizio del potere quella parte del popolo che con le sue rivendicazioni ha dato inizio alla turbolenza rivoluzionaria.  Per fare questa distinzione fra tutto il popolo e una parte del popolo giustamente Pizzorno rimanda al duplice significato del termine greco demos e quindi alla teoria classica della democrazia come forma di governo: per i Greci antichi il termine demos poteva riferirsi sia alla Polis, nel suo complesso di collettività politica, sia alla parte plebea della città.  Il corollario di questa affermazione è, come è ovvio, che i significati del termine demos siano fra di loro contraddittori, che si escludano a vicenda; e che per questa ragione la Polis, che altro non è se non l’articolazione delle due declinazioni del demos, sia in se stessa conflittuale, sempre a un passo dalla guerra civile dichiarata. Ne discende allora che quando nella modernità la società, la Polis, viene attraversata dai nuovi conflitti aperti dall’avvento del capitalismo, le vecchie e nuove oligarchie usino l’estensione del diritto di voto a tutto il popolo come merce di scambio per evitare la stasis, la guerra civile, e per ottenere la pace. Alla lunga infatti ‘tutto il popolo’ edulcorerà, rendendole del tutto innocue, le rivendicazioni potenzialmente rivoluzionarie della ‘parte del popolo’ o del popolo come ‘parte’ (‘senza parte’ se usiamo il linguaggio di Ranciére).

Questo scambio che, secondo Pizzorno, si trova a fondamento delle democrazie moderne, se assicura da un lato la neutralizzazione del conflitto, rischia di produrre dall’altro l’inefficienza del governo. Quest’ultimo infatti è indotto a «prendere decisioni che all’elettorato, o a una parte decisiva di esso, appaiono aver effetti favorevoli per il periodo delle imminenti elezioni; ma che le analisi di esperti dicono aver conseguenze dannose nel lungo periodo per la situazione economica o sociale del paese». A ben guardare è esattamente la critica che recentemente Mario Monti ha rivolto ai partiti politici italiani e alla loro miopia che li porta, in nome del consenso necessario per vincere le elezioni, a favorire gli interessi immediati dei ceti di cui vogliono essere i rappresentanti anche se ciò avviene a scapito degli interessi generali del paese. Corollario di questa affermazione è il rimprovero da sempre rivolto alla democrazia di mettere la decisione sul bene della città in mano agli incompetenti piuttosto che ai competenti (i tecnici).

  La conseguenza da trarre da queste e altre considerazioni è che il sistema rappresentativo delle democrazie moderne fondato sul principio della sovranità popolare esprimentesi nel voto e nel criterio maggioritario non possa che risultare deleterio per la vita delle comunità storiche: esso dovrebbe produrre situazioni di inefficienza tale da smentire anche il motivo per il quale era stato adottato, quello di garantire la pace sociale. Tuttavia ciò non è avvenuto e il sistema rappresentativo non solo prospera ma si estende trasferendosi dall’occidente al resto del mondo (almeno ci prova). La risposta di Pizzorno a questo paradosso è altrettanto sorprendente e provocatoria: «se il sistema è più o meno rimasto immutato nella sua formula rappresentativa, ciò è avvenuto perché lo Stato ha generato capacità immunitarie che riescono, pur parzialmente, a controllare le conseguenze deleterie del metodo».  Come lo Stato aveva concesso il diritto di voto per neutralizzare il conflitto potenzialmente rivoluzionario, così, una volta concessolo, ne neutralizza gli effetti ‘comunitari’, di contaminazione, di apertura all’altro chiunque esso sia (l’altro è per definizione incompetente se non peggio), ripristinando un campo decisionale sottratto alle oscillazioni del voto popolare, senza però mutare l’assetto formale delle democrazie rappresentative, anzi esaltandolo come l’unico possibile. È evidente che a questo punto la sovranità popolare svolga nient’altro che una funzione mitica.

Dei dispositivi immunitari elaborati dallo stato per ovviare agli effetti deleteri della sovranità popolare Pizzorno ne indica tre: 1) il formarsi di canali di rappresentanza degli interessi alternativi a quello elettorale; rientrano in questo ambito tutte le forme di pressione esercitate direttamente sullo stato senza passare per la mediazione parlamentare: manifestazioni pubbliche, cortei, scioperi, petizioni, ma anche azioni lobbistiche, tentativi di organi dello stato di influenzare altri organi dello stato, etc. 2) La trasformazione nella natura degli obiettivi che vengono proposti nel dibattito elettorale come segno distintivo della rappresentanza: quanto più il suffragio si allarga tanto più gli obiettivi specifici di governo risultano alla maggior parte degli elettori o incomprensibili o eccessivamente settoriali con la conseguenza, tipica degli stati moderni, di spostare l’attenzione sul benessere complessivo della nazione e quindi su scopi genericamente etici o educativi o salutistici. Anche in questo caso i movimenti extra-parlamentari avranno la meglio rispetto ai partiti storici. 3) Lo spostamento dal principio di maggioranza a quello di competenza nel rapporto di collaborazione fra il cittadino e lo Stato: un esempio appariscente di questo dispositivo immunitario è rappresentato dalla proliferazione delle cosiddette ‘autorità indipendenti’ che valutano comportamenti ritenuti decisivi per la vita complessiva dello stato solamente in base al principio di competenza o come si dice adesso del ‘merito’ (un caso esemplare è l’agenzia per la valutazione del sistema universitario).

Due conclusioni si possono trarre da tutte queste considerazioni. La prima è che l’opposizione fra politica e tecnica non funziona: se la politica è caratterizzata dal richiamo al popolo come a una realtà olistica dalla cui sovranità espressa attraverso il voto democratico discende la legittimazione a governare, essa è la stessa politica che, una volta vinte le elezioni, per governare effettivamente è costretta a ricorrere ai dispositivi immunitari e quindi a bypassare il parlamento come prodotto della sovranità popolare; la seconda è che l’invocazione di un ritorno al popolo contro i tecnici al governo è un trucco mitico, un raggiro: la presunta sovranità popolare non esprimerà una volontà unitaria, la volontà di tutto il popolo, ma in nome del più bieco principio di maggioranza stabilirà chi saranno i funzionari addetti a un determinato compito dell’organizzazione dello stato, quello cioè di proporre le leggi. Un atto amministrativo sarà surrettiziamente elevato a espressione della sovranità di tutti. Era già vero per Rousseau: la volontà generale, la volontà di tutti, si decide a colpi di maggioranza; e poi è chiaro che ci vogliono i tecnici perché le cose marcino.

Nessun dubbio che il discorso di Pizzorno riecheggi fino a esserne quasi una copia conforme quello reazionario e aristocratico di Platone contro la democrazia contenuto nel libro VIII della Repubblica: la democrazia mette i destini della Polis nelle mani del primo venuto, dell’uno qualsiasi, dell’incompetente e dell’immorale, essa trasforma la città in un mercato e sfocia inevitabilmente nella tirannide. Ma il richiamo di Pizzorno al doppio significato del termine greco demos apre uno spiraglio: la democrazia degenera solo laddove voglia essere di tutti. Invece la democrazia è il governo di una parte o dei molti e il dominio del voto può essere corretto dal sorteggio e/o dal buon funzionamento delle assemblee.  Quel che conta è liquidare la tesi borghese-moderna in  base alla quale la legittimazione del governo riposa sulla sovranità popolare espressa attraverso il voto democratico: lungi dal dare vita al buon governo (tema oggetto di un saggio di Angelo Panebianco compreso nello stesso numero del Mulino e altrettanto interessante), questo metodo lascia chi deve governare in balia delle mediazioni partitico-parlamentari costringendolo poi a dover ricorrere ai dispositivi immunitari. Tanto varrebbe attribuire direttamente al voto comunitario, quindi di parte, il potere di rendere il governo immune dalle mediazioni partitico-parlamentari, piuttosto che mantenere in vita il feticcio della democrazia rappresentativa per ritrovarsi poi in balia dei governi tecnici.

Che poi questa soluzione nel dibattito attuale della politica italiana si presenti sotto il nome di presidenzialismo è la cosa meno importante: quello che conta è che ci si decida a cambiare la costituzione. D’altronde, lo ricorda Pizzorno in chiusura del saggio, nel dibattito della Costituente italiana si trattò a lungo se parlare di sovranità dello Stato, di sovranità nazionale, o popolare o della legge. Se alla fine fu scelta la dizione di ‘popolo sovrano’ è perché si pensava alla funzione dei partiti. Ma oggi che, nella forma storica in cui li abbiamo conosciuti, i partiti sono scomparsi, che senso ha conservare quella formula? È tempo di rifondare la repubblica italiana non tanto contro quanto senza la volontà del popolo sovrano: fare un passo  al di là e lasciarsi alle spalle il mito della sovranità del popolo.

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