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Verità e democrazia

di Marco Ivaldo

Sembra abbastanza diffusa la persuasione che la democrazia e un ordinamento liberale dello stato presupporrebbero la neutralizzazione di ogni riferimento a una verità oggettiva o a un complesso di verità oggettive nel discorso pubblico. Il fatto che nella sfera democratica delle posizioni pubbliche determinati attori si richiamino a una verità che varrebbe non soltanto per coloro che la pronunciano ma universalmente, introdurrebbe – secondo questa persuasione - un elemento di rigidità, di intolleranza, anzi di violenza nelle relazioni sociali e nelle procedure democratiche di formazione della volontà collettiva. Osservando ad esempio che nell’insegnamento della chiesa sulla società temporale sarebbe avvenuto in questi ultimi anni uno spostamento di accento dalla carità/giustizia alla verità, Gustavo Zagrebelski sostiene che mentre al buono e al giusto si può lavorare insieme e cooperare, ognuno portando qualcosa di se stesso alla loro determinazione, attorno al vero si potrebbe lavorare solo deduttivamente, “logicamente”, non “dia-logicamente”, e questo implicherebbe di provocare separazioni ed esclusioni, approvazioni e condanne. Insomma: al contrario della ‘logica‘ della giustizia e della carità la ‘logica’ della verità  richiederebbe di rinunciare al rapporto di sé con gli altri e tenderebbe a separare gli uni dagli altri i cittadini.    

Nelle riflessioni seguenti vorrei tentare di argomentare una tesi diversa: la democrazia – come forma di governo che prevede non solo l’esercizio del potere da parte del demos, cioè del popolo, secondo leggi, ma anche la formazione della volontà politica attraverso giudizi sugli affari comuni (res publica) elaborati mediante le procedure e le regole della ragione argomentativa –, la democrazia è un ordinamento politico che, secondo una espressione di Habermas, è essenzialmente sensibile alla verità (wahrheitssensibel), ha a che fare con opinioni vere, cioè vedute che elevino una argomentabile pretesa di verità. In altri termini:  Per esistere e sussistere come insieme di regole condivise e come forma di governo collettivo delle cose comuni il regime democratico implica un rapporto alla verità, almeno nella forma della seria ricerca di essa. Non solo le costituzioni democratiche contengono un insieme di valori, di doveri e di diritti che devono valore per tutti, qualunque sia il punto di vista personale, filosofico, politico e religioso di ciascuno. Anche la formazione di giudizi sulle cose comuni che risiede alla base della decisione politica in democrazia non è concepibile se non come ricerca di giudizi adeguati alle realtà che sono oggetto del pubblico discorso, di giudizi cioè che abbiano una interna pretesa di verità e di validità. Misconoscere questa pretesa di validità del giudizio – che deve essere distinta dalla pretesa di potere – significa distruggere la natura del giudizio stesso. Ciò che invece un ordinamento democratico esclude è non la (ricerca della) verità, ma che qualcuno pretenda di possedere questa verità in modo esclusivo o definitivo e tenti di imporre questa sua veduta a tutti senza passare per il medio della ragione argomentativa (medio per quale tutti gli agenti e argomentanti si trovano su posizioni di partenza eguali). Ma questa è una concezione grottesca della verità, che identifica la verità con l’imposizione, mentre la verità richiede la libertà, la ricerca, il dubbio: la libertà per riconoscerla, la ricerca per indagarla, il dubbio per sottoporre a controllo i risultati dell’indagine e aprire a nuove indagini.                 

In un libro abbastanza recente (Sullo spirito e l’ideologia. Lettera ai cristiani, Milano 2007)  Roberta De Monticelli prende posizione sul relativismo, cioè la posizione che sostiene che i valori sarebbero validi solo per coloro che li professano e che non esisterebbero valori e verità universali (“Ciò che appare a ciascuno è anche, per colui al quale appare”, così viene espresso il logos di Protagora, addotto come manifesto del relativismo ) e sul fondamentalismo, cioè la posizione che pretende di possedere la verità in modo esclusivo e totale. Entrambi condividono l’illecita assunzione che il vero e il certo coincidano. La mossa davvero cruciale per uscire da questa impasse consisterebbe nel distinguere sempre fra il modo in cui le cose stanno, cioè la loro verità, e la certezza, cioè il riconoscimento sempre fallibile - e sempre provvisorio e condizionato dalla nostra finitezza -  che della verità noi siamo in grado di dare. Mai la certezza che una oggettività esista – anche in senso morale – potrà coincidere con la certezza che ho ragione solo io nel modo di rappresentare (interpretare) questa oggettività stessa. Proprio questa coscienza della differenza fra verità e certezza mi spingerà a interrogarmi e a interrogare gli altri, a sottoporre la mia certezza alle loro critiche, a criticare le loro certezze, cioè alla discussione effettiva e alla ricerca in comune, dialogica, della verità, cioè di una comprensione adeguata della realtà.  

Si coglie da qui che non solo il fondamentalismo, e in generale una posizione che pretenda di possedere la verità in modo esclusivo o privilegiato, preclude il dialogo e la discussione democratici; anche il relativismo conduce a svuotare il dialogo del suo autentico significato, che è di scambiarsi pensieri e discorsi animati dalla convinzione che vi sia qualcosa di vero da apprendere dagli altri attraverso tale scambio, qualcosa di consistente che ancora non conosco o conosco solo in maniera approssimativa e precaria. Proprio la convinzione che una verità esista, e che il mio sapere attuale non la esaurisca, rende per me interessante (inter-esse) il cercarla, e pertanto mi fa disponibile ad ascoltare che cosa pensano gli altri, a sottoporre le mie e le loro vedute alla riflessione critica, a entrare nello spazio delle ragioni e nella pratica della argomentazione. E’ la presenza di una verità intesa come esigenza della ragione, teoretica e pratica, e come regola del giudizio, non la sua cancellazione o il suo indebolimento, che rende sensata la pratica della discussione e lo scambio delle ragioni. D’altro lato se non ci fosse una verità che trascende la soggettività (pur manifestandosi in questa e a questa), non ci sarebbe nemmeno l’errore, cioè il falso, il contrario dal vero, non avrebbero senso né il domandare, né il ricercare, né il dubitare. La pratica della democrazia come formazione di una volontà comune in merito alla res publica è in definitiva strettamente legata al discorso, alla elaborazione e allo scambio di argomenti che conducano alla formulazione di giudici competenti e in grado di orientare la decisione. Ma nessun giudizio è pensabile senza che esso sia caratterizzato da una pretesa di validità e di verità, cioè dalla pretesa di asserire il vero in relazione a un certo stato di cose o a certe assunzioni di valore.            

Fra verità e libertà non c’è affatto opposizione, anzi esiste un rapporto essenziale. Il nostro accesso alla verità è soltanto la libertà, la libertà del pensare, del riflettere, del giudicare: la verità non può venire imposta, pena il venire snaturata e smarrire il suo significato; può soltanto venire liberamente cercata e riconosciuta, ed è consentito soltanto esortare a questa libera ricerca, che è un fatto eminentemente personale. La verità – in particolare la verità della ragione pratica, ovvero di quella ragione che ha a che fare con lo scopo dell’esistenza - può come tale venire riconosciuta soltanto in un libero giudizio. A questo proposito va chiarito che più che un “oggetto” da definire in un complesso di proposizioni la verità  - nel senso originariamente greco di non-nascondimento, svelamento, essere-in-luce (aletheia) - è la “fonte” inesauribile di infinite interpretazioni. Pensata come svelamento, come manifestazione della realtà la verità è un principio che si offre a una molteplicità di liberi accostamenti a essa, cioè di personali interpretazioni, e che rimane ulteriore o eccedente rispetto a ognuna di esse e anche alla loro totalità. D’altra parte concepita come facoltà dell’affermare e del negare, dell’accogliere e del rifiutare, la libertà è inseparabile dalla verità. La libertà non si esercita in un vuoto ontologico, ma è presa di posizione di fronte alla verità, è ricerca della verità nel modo di inventarne la interpretazione pertinente, la figura di comprensione adeguata. Questa ricerca non è solo una operazione dell’intelletto, ma un impegno globale dell’esistenza, un cammino esistenziale. Essere sensibili alla verità implica volerla, ma anche lasciarsi afferrare, toccare, modificare da essa.     

Ancora: ciascuna interpretazione è tale – cioè è interpretazione, e non mistificazione o “ideologia” – proprio perché rivela ed esprime, da un profilo determinato e personale, quella verità che pure resta per essa ulteriore e inesauribile. Il relativismo non vede questo legame strutturale che vincola l’interpretazione alla verità; esso giudica che esistano solo interpretazioni, e che le interpretazioni valgano solo per chi le enuncia (ma nel giudicare che esistono solo interpretazioni, il relativismo pretende di asserire qualcosa di vero e valido in generale, cioè si contraddice). Il fondamentalismo non vede che la verità si offre ad esseri finiti come siamo noi solo nel medio di un punto di vista, di una “prospezione”, cioè di una interpretazione, la quale, proprio perché tale, deve porsi in ascolto di altre interpretazioni, per pervenire a una veduta più ricca e adeguata, che nasca dal’apprendimento reciproco. La ricerca della verità, la quale si manifesta a noi sempre nel medio di nostri progetti di comprensione di essa, richiede lo scambio di argomenti e il dialogo delle opinioni, piuttosto che renderlo inutile. D’altro lato, il servizio della verità è di per se stesso servizio al bene e alla giustizia: non è concepibile, se esiste un logos che circola fra e connette i molteplici logoi, una opposizione fra la ‘logica’ del buono e del giusto e quella del vero. Opposizione vi potrebbe essere se il bene/giusto e il vero sono presi in maniera astratta e unilaterale, ad esempio facendo del primo l’oggetto del puro sentimento e del secondo l’oggetto del puro intelletto. L’uomo, la persona è invece una totalità aperta, i cui vettori fondanti sono insieme desiderio e intelligenza.                                   

A mio giudizio non sono contraddittorie, come a prima vista potrebbe apparire, anzi sono compatibili e reciprocamente si richiamano due affermazioni: a) che il mio punto di vista, e il punto di vista di ciascuno, non sia il punto di vista unico e definitivo, ma (soltanto) un punto di vista; b) che questo individuato punto di vista riguardi nondimeno la verità, ovvero sia giudicato da chi ne è il portatore come un punto di vista vero, seppure con la concomitante coscienza della differenza fra la verità e la propria certezza riguardo a essa. La prima affermazione sollecita a riconoscere che non siamo padroni e possessori della verità e che nessun punto di vista è come tale una totalità che non può venire trascesa e che escluda altri punti di vista sulla verità stessa e si ponga come definitivo. La seconda affermazione richiama invece la responsabilità che abbiamo nei confronti della verità, una responsabilità che si esercita già con il dovere di procurarci conoscenze vere e di maturare convinzioni fondate, e con l’impegno ad argomentarle erga omnes in maniera appropriata e pertinente, ovvero in modo che esse manifestino consistenza teorica e coerenza pratica. L’esercizio di questa duplice convinzione - che è insieme anti-dogmatica e anti-relativistica - è essenziale per stare nello spazio e nella pratica della discussione democratica: ci consente di considerare le conoscenze che abbiamo seriamente argomentato e giustificato come conoscenze vere (e non come semplici preferenze personali), e tuttavia ci permette di ammettere che si possa trattare pur sempre di verità parziali - ma effettive, almeno per quanto esse si manifestano nel nostro punto di vista - e perciò di verità suscettibili di integrazione da parte di altri punti di vista. Da ciò l’apertura al dialogo, che lungi dall’alimentarsi dello scetticismo, per il quale tutte le opinioni valgano lo stesso (cioè infine niente), si fonda invece sull’interesse e la sensibilità per la verità, e perciò sull’interesse a ponderare e valutare il contenuto oggettivo delle diverse posizioni che si presentano nell’ambito dei discorsi pubblici     

E’ necessario distinguere due forme di costruzione dell’accordo in democrazia, che chiamo – consapevole delle discutibilità di queste denominazioni - compromesso e mediazione. Nel  compromesso un agente concede all’altro di realizzare una parte del proprio quadro di valori, a condizione che l’altro gli conceda di realizzare una parte del proprio. I valori degli agenti non vengono qui posti in comunicazione effettiva; ogni agente rivendica un proprio spazio e tende semplicemente a conservare e, nel caso, a rendere visibile il proprio patrimonio identitario. La società si presenta in definitiva, da questo punto di vista, come una somma di individui o di gruppi isolati, ciascuno dei quali coltiva il proprio privato interesse dentro un quadro minimale di regole chiamato stato o governo. Nella pratica della mediazione invece, muovendo dai propri giudizi di valore - che ogni agente del discorso pubblico legittimamente considera fondati e consistenti  - si cerca di individuare un nucleo di valori che possa diventare oggetto di comune riconoscimento, e da qui si procede per realizzare quelle parti dei rispettivi disegni o programmi politici che risultino comuni e accomunanti. Solo in questa ottica – che non muove da una antropologia individualista, ma da ciò che una certa tradizione chiama personalismo comunitario - ha senso parlare di bene comune. Alla mediazione si potrebbe naturalmente obiettare che il nucleo di valori riconosciuto come comune potrebbe lasciare fuori di sé parti significative dei valori di partenza di ciascuna posizione, che invece verrebbero conservati come tali nel compromesso. Si può tuttavia contro-argomentare a questa obiezione: 1) che l’accordo pratico ottenuto attraverso la mediazione, in quanto si fonda sopra un insieme di valori riconosciuti, può rappresentare un parziale ma reale avanzamento nel bene comune - ad esempio in quanto limita comportamenti arbitrari e dannosi, o produce soluzioni limitate e condivise su questioni rilevanti -, e 2) che il risultato raggiunto non impedisce affatto che ogni agente che ha praticato con convinzione la mediazione continui a richiamare l’attenzione dei cittadini sulla costellazione di valori fondamentali che giudica valida, lavorando con gli argomenti e con la concreta testimonianza per conquistarne, se non subito, almeno in prospettiva, il libero consenso. In altri termini la convergenza su un nucleo accomunante di valori non blocca la pubblica discussione, non esclude che ciascuna posizione in gioco continui a comunicare e illustrare le ragioni di fondo per le quali essa giustifica tali valori comuni, richiamando su di esse l’attenzione degli altri. La formazione per via discorsiva della volontà collettiva si alimenta non solo degli accordi pratici, ma anche degli sforzi che tendono alla comunicazione e alla comprensione reciproca delle rispettive ragioni. Anzi fa parte dell’essenza della democrazia tenere in vita questo spazio pubblico della comunicazione delle ragioni, oltre che fa parte di essa la ricerca continua di un reciproco riconoscimento di valori.      

In società pluralistiche sul piano degli orientamenti e degli stili di vita la formazione del consenso fra i cittadini dovrebbe venire perseguito attraverso la ricerca di un nucleo di valori umani, e di diritti e doveri, condivisi; la individuazione consensuale di questi valori, diritti e doveri, può trarre alimento dall’apporto di differenti dottrine filosofiche e sapienziali (ad esempio le religioni) e da diverse visioni morali. Una  convergenza su un nucleo di valori umani (cioè la formazione, da sempre rinnovarsi e alimentarsi, di un “senso comune”) potrà essere il risultato, mai definitivo, di una pratica dialogica e di uno scambio di argomenti nello spazio della pubblica discussione, nella quale nessun agente politico o sociale o morale si trova in una posizione privilegiata come portatore di una visione della verità totale ed esclusiva, anche se ogni agente deve avere riconosciuto il diritto di presentare e argomentare le proprie ragioni di fondo riguardo al bene comune e alla giustizia.  

Ora, la discussione politica è condizionata non solo dagli interessi ma anche dalle visioni del mondo e dell’uomo (e i pannelli di valori) che sono proprie dei soggetti che entrano nella discussione stessa. Dobbiamo prendere atto della presenza, nel discorso pubblico, di antropologie diverse e non raramente in conflitto, ad esempio sulle grandi questioni della bio-etica, ma anche sulle questioni di giustizia che pongono in questione una idea dell’uomo e del futuro dell’umanità. La democrazia è – come si è detto – non solo un complesso di regole, ma è una forma di vita e di governo delle cose comuni. Pertanto, per la formazione di un consenso politico e di un accordo pratico indispensabile alla tenuta del patto di cittadinanza (cioè di un “senso comune” democratico), ogni agente dovrebbe partire sì dalle rispettive antropologie o visioni del mondo, ma dovrebbe insieme orientarsi alla ricerca di quel “punto comune” fra le diversità, che incarni il massimo possibile di realizzazione dei valori umani e di rispetto della dignità dell’uomo in un momento storico determinato. A questo scopo più che affermare la “non negoziabilità” di alcuni valori come premessa dell’azione politica, sarebbe richiesto a mio avviso di individuare, o di allargare e approfondire, un nucleo di valori condivisi e di far esprimere, attraverso il giudizio e l’azione, questi valori stessi nella loro energia formativa di senso e di bene comune. Lo spazio pubblico e le istituzioni della democrazia dovrebbero venire intese come lo spazio della regolazione dei conflitti e della discussione in vista della ricerca di valori umani condivisi e di accordi pratici che li rispecchino - condivisione che a sua volta è un processo dinamico e può eventualmente allargarsi e approfondirsi. I soggetti della pubblica discussione possono infatti sempre imparare qualcosa gli uni dagli altri in quello che, con Habermas, chiamerei un processo di apprendimento complementare, che si alimenta dallo sforzo di ascoltarsi e comprendersi anche nelle rispettive ragioni di fondo. Orbene, un tale processo ha significato se si intende la formazione democratica della volontà collettiva come un processo sensibile alla verità, per il quale non esistono soggetti privilegiati grazie a un possesso esclusivo o totale di essa, ma nemmeno è valida una posizione di indifferenza rispetto alla verità: esistono invece soggetti, o meglio persone parimenti coinvolte nella ricerca argomentativa e dialogica della verità stessa e nello sforzo, da sempre rinnovare, di offrirne interpretazioni valide, comunicabili e creative, aperte ad ascoltare la parola dell’altro.    

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