Il neopaganesimo di Arcore
di Eugenio Mazzarella
«Chiunque accetta di assumere un mandato politico deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che esso comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda all’articolo 54». Il cardinal Bagnasco ad Ancona, aprendo il consiglio permanente della Cei, non poteva essere più chiaro su ciò che la Chiesa italiana, che si riconosce nei valori di moralità “civile” sottesi alla carta costituzionale del paese in cui vive e opera, chiede a chi s’impegna in politica, e con maggior forza a chi in questo impegno si richiama ai valori cattolici. Con l’invito, sotto questo segno, a lasciarsi alle spalle logiche di confronto istituzionale puramente divisive, Bagnasco riprende il tema del X forum del progetto culturale Cei sul 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia: “L’unità del paese si fa intorno al retto vivere”. Tesi che già faceva eco alla notazione accorata di Benedetto XVI, in udienza generale il 3 novembre scorso, che non c’era «solo spazzatura in diverse strade del mondo ma nelle coscienze» ed è da lì che bisognava toglierla, perché ci fosse una politica degna del suo ufficio di presidio del bene pubblico. E su cui Bagnasco aveva già parlato ad un incontro con parlamentari cattolici («senza una vita retta non c’è politica efficace»), e il cardinal Ruini aveva invitato i cattolici a essere uniti in politica «non da un partito, ma da stili di vita moralmente ineccepibili». D’altro canto, Benedetto XVI e il cardinal Bertone nei giorni scorsi sono intervenuti in modo inequivoco sul bisogno di moralità e di stili di vita degni in politica. Sono indicazioni incubate da tempo, da parte della Chiesa, ed espresse con sempre maggiore chiarezza in presenza di una crisi dell’etica pubblica che ha pochi precedenti, e che la spinge a reiterare la richiesta di cattolici “nuovi” in politica. L’”usato garantito” non appare più sufficiente. Esemplificativa già, nei giorni della prima comparsa del caso Ruby, una posizione di monsignor Mogavero, responsabile giuridico Cei: questa volta il contenzioso non si sarebbe chiuso con un finanziamento riparatore alle scuole cattoliche. Se Dio vuole, è il caso di dire, in sostanza si fa strada la convinzione che – al di là dell’occhio “terreno”, talora un po’ troppo, agli equilibri politici contingenti – in politica non ci può essere una tutela dei “valori cattolici” che non abbia a suo sostegno, in chi se ne fa interprete, le “virtù” che ai cattolici sono richieste, l’irreprensibilità di una vita, pubblica e privata, che non dia scandalo. Senza di che il cattolicesimo si riduce a “cattolicesimo culturale”, ma niente che scaldi i cuori e testimoni di una fede che a quei valori dia sostanza e credibilità, e in definitiva speranza di successo in un mondo dove i valori sono sempre più in competizione di credibilità, e talora in aperto conflitto; si riduce alla brutta copia di quel cristianesimo borghese, conformista e simoniaco, su cui già nell’800 Kierkegaard richiamava l’attenzione per provare a diradare le nebbie morali in Danimarca. È probabile, viste le carte del nuovo caso Ruby, che noi – moralmente, e a prescindere dai dati giudiziari – si stia un po’ peggio. Credo che questa convinzione si faccia strada tra i vescovi italiani, se Bagnasco ad Ancona dice no a «ideali bacati», «a una rappresentazione fasulla dell’esistenza, a un successo basato su artificiosità, scalata furba e mercimonio di sé». È sempre più evidente che accorate analisi – pur serie, quando sincere – sul nichilismo valoriale di cui si farebbe portatore questo o quel provvedimento legislativo su inizio o fine vita, ormai rischino di essere un modo di gettare il pallone alla “viva il parroco” nella decisiva partita dei valori e per i valori che si gioca oggi in Italia. C’è un paganesimo imperante che trasuda da tutti i pori della società italiana, e trova il suo “consenso”. È inutile negarlo. E a lungo il premier, difendendo il suo “stile di vita”, insieme si è affidato a questa sintonia e ha provato, come un incantatore di serpenti, a moltiplicarla. Ma l’incanto pare scemare. E ad ogni modo, ai cattolici, d’ogni fede ed osservanza, pone un problema. Dopo la “cricca” e i suoi pochissimo “gentiluomini” del papa, dopo ripetuti scandali derubricati a vita privata e a indebita intromissione del “moralismo” nella vita pubblica, quanto ancora è tollerabile un’aria morale da cupio dissolvi, dove ormai si fa fatica ad avere fiducia in alcunché? La virtù della prudenza nell’assegnazione ufficiale o ufficiosa della patente di “cattolico”, o nella compiacenza all’auto assegnazione della patente di cattolico in politica, ormai è un tema che chi fa riferimento a quei valori non può eludere. Forse è giunto il momento che i cattolici, come le donne, non siano più a disposizione, “a prescindere”, di chiunque che non abbia rispetto per i loro valori nella concretezza delle virtù che implicano. Nella crisi nichilistica del presente non possiamo permettercelo. Non se lo può permettere l’etica pubblica di questo paese. Non possiamo assentire all’idea, almeno noi cattolici, che sulla “vita privata” non c’è sindacato morale, e questo tanto più quando aspetti della vita privata rivestano rilevanza pubblica. Il cristianesimo è nato come sindacato sulla vita privata – anche quella privatissima, del mondo delle intenzioni e non solo degli atti – degli uomini al cospetto di Dio, che certo non è esercizio di reprimenda penale, ma di incoraggiamento alla virtù perché si faccia lievito del “pubblico”. E ad ogni modo anche del sindacato su Cesare il cristianesimo si è fatto carico: il Battista ci ha lasciato la testa. I comportamenti pubblici non sono zona franca dal sindacato morale, e non basta invocare il consenso come “giudizio di dio” sostitutivo. Cerchiamo di essere seri: da tempo in Italia, non sta andando in onda il dialogo tragico tra i fratelli Karamazov con a tema: “se dio non c’è tutto è permesso”; ma una debolezza umana che è insostenibilità pubblica. Uscire da questa debolezza con il contributo di tutti, e certamente dei cattolici, è decisivo per rispondere sul serio all’appello di Bagnasco al Forum del progetto culturale della Cei sulla necessità di dover generare, al controverso giro di boa del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, «un nuovo innamoramento dell’essere italiani».