Federalismo ed elezioni europee
di Umberto Curi
Negli stessi giorni in cui la Direzione nazionale del Partito Democratico varava definitivamente le liste per le prossime elezioni europee, al Senato il gruppo parlamentare dei Democratici si asteneva – e dunque più o meno esplicitamente approvava – il provvedimento legislativo che dà avvio alla realizzazione del federalismo fiscale. La contraddizione, esaltata dalla contestualità temporale fra questi due comportamenti, non potrebbe essere più evidente, fino al punto da apparire imbarazzante. Per quanto imperfetto nei temi definiti, e soprattutto ancora troppo indeterminato nei contenuti specifici, il federalismo fiscale al quale il PD ha fornito il suo avallo implica concettualmente il riconoscimento dell’originarietà dei poteri locali, e dunque rovescia il preesistente rapporto fra centro e periferia, in nome del criterio della sussidiarietà. Viceversa, la composizione delle liste per il Parlamento europeo, più vistosamente in alcune circoscrizioni (quelle del Nord-Est e del Nord-Ovest, soprattutto), ma in sostanza anche nelle tre rimanenti, obbedisce al primato del centro rispetto alla periferia. Di conseguenza, gli apparati regionali del Partito si sono visti inviare i nomi dei capilista senza avere alcuna reale possibilità di esprimere il loro orientamento, né ancor meno di proporre candidature alternative. Il tutto, in nome di alcune opzioni che potrebbero in qualche caso essere anche ragionevoli, ma che comunque sono catapultate dall’ “alto”, in barba ad ogni pur sbandierato principio di autonomia. La contraddizione ora segnalata non è di poco conto, né lievi sono le conseguenze che da essa potrebbero scaturire. Si dimostra, infatti, in questo frangente, fino a che punto nella dirigenza dei Democratici il federalismo non sia affatto un approdo culturalmente e politicamente condiviso, ma sia piuttosto un terreno sul quale, con evidente riluttanza, ci si sente costretti a procedere per ragioni tattiche e di mera convenienza politica. Si conferma, inoltre, un punto che più volte si era affermato nel recente passato, e cioè che senza un’organizzazione federalista dello stesso Partito, l’appello a scelte politiche di taglio federalista non poteva che suonare ipocrita, dettato soltanto da circostanze contingenti. Non si può sperare, infatti, di convincere l’elettorato sulla genuinità della propria scelta di campo, in favore di un superamento del centralismo, perseverando in pratiche centralistiche nella gestione del Partito. Ma vi è, fra i molti, un aspetto che forse più di ogni altro rende pericolosa e comunque mortificante la vicenda delle candidature per le elezioni europee. Al di fuori di ogni retorica di stampo leghista, e di ogni impropria celebrazione ideologica, il principio base di un federalismo concepito senza estremismi o improvvisazioni è costituito dalla responsabilizzazione delle istanze locali, rispetto al potere centrale. Non si tratta di una scelta semplice, né immune da rischi. Ma corrisponde comunque ad una tendenza, avviatasi impetuosamente dopo la svolta dell’89, e tale da potersi considerare sostanzialmente irreversibile. Non si vede con quale coerenza lo stesso Partito possa assecondare un provvedimento legislativo che responsabilizza le istanze locali sul piano della riscossione dei tributi e dell’erogazione dei servizi pubblici essenziali, e poi nelle stesse ore confiscare quelle stesse istanze dal diritto-dovere di esprimere autonomamente una propria rappresentanza politico-parlamentare, rivendicando la supremazia del potere centrale. Con queste premesse, solo un miracolo potrà risparmiare al PD quella batosta elettorale, verso la quale un misterioso ed irrefrenabile cupio dissolvi sembra volerlo orientare.