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Destra e sinistra:

un “vecchio” tema e un nuovo equivoco

di Mauro Visentin

   

 In tempi di crisi (economica, in primo luogo, ma, di seguito a questa e con un effetto “a valanga”, anche sociale, civile, morale intellettuale e via dicendo: una crisi economica dell’entità di quella che stiamo attraversando non lascia nulla di stabile e immutato, perché incide sulle stesse basi psicologiche della “sicurezza” e produce un senso, diffuso e incontenibile, di disorientamento e paura), in tempi come questi, dicevo, è inevitabile che la politica si mostri altrettanto confusa e frastornata della massa dei cittadini che governa e degli elettori ai quali si rivolge. Così come è inevitabile che lo dia a vedere proprio mentre cerca di dissimularlo. Ossia, in primo luogo, attraverso le parole di cui si serve. Queste non sono mai, di norma, particolarmente attente e calibrate: la politica, in una società di massa, deve soprattutto, attrarre, affascinare, soggiogare. E un obiettivo come questo si ottiene tanto più facilmente quanto più le parole sono scelte con il criterio dell’“effetto” che produrranno piuttosto che con quello del loro contenuto informativo e della loro aderenza alla realtà. Ma quando una società nel suo insieme, anzi un intero sistema sociale, o, più esattamente, addirittura il “mondo” vengono investiti, come adesso, da un turbine devastante e incontrollabile, l’uso politico delle parole si fa, per quanto la cosa possa apparire difficile, ancora più frenetico e insensato. Sia per il motivo che ho appena descritto, ovvero per il disorientamento diffuso che colpisce indifferentemente un po’ tutti, ceto politico dirigente e corpo elettorale, sia perché lo smarrimento della massa degli individui e l’accentuarsi del suo deficit di discernimento critico favorisce la possibilità, per la politica, di propinare all’insieme delle persone che costituiscono il magma amorfo divenuto, nell’uso comune del linguaggio, la “gente” anche le proposte più assurde e sprezzanti nei confronti del buon senso, senza tema di ottenere, da parte di questo “magma”, reazioni indignate (o con il rischio accettabile di provocare una simile conseguenza solo, tutt’al più, in una piccola parte, decisamente minoritaria, della platea degli elettori). In condizioni come le presenti, infatti, accade sempre più spesso che l’oltraggiosa e devastante idiozia di certe affermazioni e proposte del ceto politico (frutto di confusione intellettuale o di istintivo cinismo, poco importa) non lasci alcuna traccia e non venga minimamente rilevata dai più, e questo proprio perché – come la “lettera rubata” dell’archetipo di ogni Sherlock Holmes di questo mondo, ossia il C. Auguste Dupin di Edgar A. Poe – è sotto gli occhi di tutti.

    Così, negli ultimi mesi (e in particolare nei primissimi di questo 2009) abbiamo assistito ad una vera orgia di parole a commento del caso Englaro, delle elezioni in Sardegna, della crisi del PD e di quella dei mercati finanziari, da un lato, a sostegno di provvedimenti governativi riguardanti le intercettazioni telefoniche, l’assistenza medica a chi è immigrato in Italia clandestinamente, il  rilancio delle centrali nucleari e delle infrastrutture, dall’altro. Tanto per dire. Un piccolo florilegio varrà ad esemplificare persuasivamente questo rilievo.

    A proposito della triste vicenda della famiglia Englaro, non si è avuto nessun ritegno da parte dei politici di destra e, in generale, dei cattolici oltranzisti (alcuni dei quali militano, per imprecisati e sospetti motivi, perfino “a sinistra”) nel lasciarsi andare alle dichiarazioni più assurde e offensive (anche, se non soprattutto, nei confronti del lessico e della logica elementare), come quella consistente nel dichiarare l’attuazione della sentenza definitiva della corte d’appello di Milano un caso di “eutanasia” nell’atto stesso in cui si denunciavano come impressionanti e indescrivibili le sofferenze alle quali Eluana sarebbe andata incontro a causa della sospensione di alimentazione e idratazione artificiali. All’interno del PD si è, negli stessi frangenti, sostenuto, da parte dei suddetti cattolici oltranzisti (intenzionati, forse, a proporre, per questo partito, un’identità confessionale molto simile a quella dei settori più tradizionali della vecchia DC) che si dovesse concedere libertà di coscienza a coloro che intendevano avvalersene per coartare, di comune accordo con la maggioranza di governo e servendosi dello strumento legislativo, la coscienza altrui. Sempre in relazione al tema della convivenza nel PD fra laici e cattolici, in margine al dibattito suscitato dagli eventi appena ricordati, si è confusa la fine del voto identitario con la fine dei partiti identitari. Ora, mentre la prima cosa, che anche l’ennesima sconfitta elettorale della sinistra mostra chiaramente, è, di per sé un fenomeno positivo, perché implica la semplificazione del quadro politico e una maggior maturità democratica del corpo elettorale (in una democrazia matura non si vota l’ottimo – che il più delle volte non c’è, almeno se si intende per “ottimo”, dal punto di vista del singolo elettore, il partito la cui identità coincide con la propria –, ma il meno peggio, ossia la formazione politica la cui identità si allontana meno dalle proprie preferenze e aspettative), la seconda è una pura e semplice insensatezza – attraverso che cosa si dovrebbe infatti definire l’ottica “di parte” di cui un partito è espressione se non attraverso la sua identità? –, tanto più che essa sembra paradossalmente servire, in realtà, solo alla rassicurante conservazione, entro un nuovo contenitore politico, delle vecchie e non più attuali identità di provenienza. Riguardo alle analisi preoccupate di molti tecnici che si sono espressi con scetticismo circa i tempi di recupero dei mercati nelle condizioni attuali, si è sostenuto, da parte del governo, che l’odierna crisi economica non va drammatizzata, perché il pessimismo peggiora le cose, ignorando che l’ottimismo si rivolge, in ogni caso, al futuro, non al presente, e che questo può essere affrontato in modo ragionevole solo se non si coltivano illusioni a proposito della gravità della situazione che esso prospetta, ossia con realismo. Si è affermato, sempre da parte della maggioranza, che occorre aumentare la sicurezza dei cittadini, messa a dura prova dalla criminalità diffusa, e si è pensato di introdurre una normativa, con riguardo ad uno dei più efficaci strumenti di indagine per reati di questa natura – cioè le intercettazioni telefoniche nonché l’analisi dei tracciati e dei tabulati della telefonia mobile –, che consenta il ricorso ad una misura di questo tipo solo quando si siano già raccolte prove sufficienti all’arresto del sospetto autore del reato (come dire: quando tale strumento sia divenuto ormai inutile). Ultima perla del governo a scartamento leghista: l’abolizione del divieto, per i medici, di denunciare gli extracomunitari clandestini che si recassero, per un’emergenza sanitaria, in qualche postazione o presidio ospedaliero: a prescindere dalla natura moralmente repulsiva di un simile provvedimento (non il primo, non l’unico e, presumibilmente, non l’ultimo di questo genere e tenore imposto alla maggioranza dalla sua componente xenofoba), è del tutto palese (e se n’è accorto più di un esponente dello stesso centrodestra) che la misura, scoraggiando il ricorso dei clandestini alle strutture sanitarie, si tradurrà in un’attenuazione del monitoraggio medico su questa componente non marginale della popolazione presente sul territorio dello Stato, con un conseguente, inevitabile e assurdo aumento dei rischi per la salute pubblica (anche per quella degli abitanti del nord-Italia). Ancora: si è negata, da destra, la presenza del benché minimo rischio di infiltrazioni mafiose nella partecipazione alle gare d’appalto per l’assegnazione dei lotti riguardanti le grandi opere infrastrutturali del mezzogiorno e nella loro gestione, e si è, da sinistra, estremizzato questo rischio fino al punto di non lasciare spazio ad altra conclusione, per chiunque non sia disposto a spezzare il nesso tra premesse e conseguenza, oltre a quella che al sud non si debbano più costruire opere di questo genere. Finalmente, l’opposizione ha enfatizzato il costo di un ritorno al nucleare, dimenticando del tutto quello della bolletta energetica e della nostra dipendenza dal gas della Russia, con le incognite derivanti dalla difficile situazione diplomatica che attraversano i rapporti tra questo paese e l’Ucraina. Come si vede, ce n’è per tutti, e per tutti i gusti. 

    Ma è proprio sulla contrapposizione fra destra e sinistra che vorrei soffermarmi, e in particolare sul significato che possono rivestire oggi due termini come questi, coinvolti anch’essi, quanto e più di altri, nella diffusa iconoclastia semantica che pervade il senso di rottura con il passato inerente alla percezione delle nuove dinamiche sociali e che tende a tradursi in un’autentica logoclastia, trasformando il lessico politico tradizionale in una specie di cimitero degli elefanti. Ciò non significa, naturalmente, che certe espressioni del linguaggio politico novecentesco non debbano essere mandate opportunamente in pensione. Ma solo quando il loro significato si sia venuto stemperando perché a dissolversi è stato, innanzitutto, l’oggetto o il contenuto che esso rivestiva (come, ad esempio, nel caso di “socialdemocrazia”). Non quando il valore semantico di una parola è ancora attuale, sebbene abbia mutato i suoi termini di riferimento e si debba applicare, oggi, ad un contenuto parzialmente nuovo, ossia frutto di una evoluzione interna che non corrisponde, però, al completo tramonto del proprio oggetto. E questo è appunto il caso di “destra” e “sinistra”. Tuttavia è opinione diffusa, soprattutto fra coloro che fanno mostra di spirito innovativo, quella che una simile divaricazione fra contrapposte identità, idealità e ideologie politiche sia oggi obsoleta, incomprensibile ai più, sostanzialmente vuota di significato. Eppure, sebbene nessuno se ne accorga, dire una cosa del genere è tanto insensato quanto lo sarebbe affermare che non esiste più alcun motivo di applicare alla politica e all’etica pubblica l’idea di conflitto, contrasto, opposizione. Infatti, finché la politica non si sarà estinta per lasciare il campo interamente alla pura e semplice amministrazione, le ideologie avranno ancora qualcosa da dire. In passato (un passato assai recente) si era preso a parlare di fine o morte delle ideologie, scambiando la fine delle ideologie ottocentesche e la polverizzazione del fattore ideologico nelle società di massa con la morte, senz’altro, dell’ideologia come atteggiamento e disposizione psicologica. Dell’ideologia, cioè, come tale e, quindi, di ogni ideologia. Ma il fenomeno al quale i moderni sistemi democratici di massa ci hanno posto di fronte è tutt’altro: è quello che ho appena chiamato “polverizzazione del fattore ideologico”, ossia, ad un tempo, una estensione potenziale dell’ideologia, o più esattamente del suo modo di accostare le cose e i problemi dell’esistenza, alle forme anche più banali del vivere comune, e una consentanea riduzione dell’elemento assiologico presente in essa alla misura, “minima”, di queste forme elementari di massa, che si nutrono di miti popolari e immediati. Sono oggi ideologia, o possono diventarlo in certi casi, tutt’altro che sporadici: il tifo sportivo; il culto per il divismo di certe figure e personalità del mondo cinematografico, televisivo, musicale; i simboli esteriori di uno stile di vita (una marca di automobili o motociclette, la foggia di certe calzature, la passione per determinati cibi o un’alimentazione particolare, un taglio di capelli inconsueto, tanto per fare qualche esempio); in generale i comportamenti che sanciscono l’appartenenza ad un gruppo. In questo quadro, è comprensibile che i significati ideologici di “destra” e “sinistra” debbano risultare confusi e pressoché annullati nella massa “entropica” e disordinata degli innumerevoli valori in campo. Ciò non toglie che essi – come fattori ideologici, appunto, e non come espressioni di una irrinunciabile verità della storia o dell’uomo – siano ancora necessari per dare senso e orientamento al conflitto politico (finché, beninteso, questo continuerà ad esistere e a manifestarsi). Occorre perciò, se si vuole uscire dalla genericità di maniera delle denunce di morte, cercare di determinare il senso che oggi riveste (ma anche che deve o può rivestire) una contrapposizione “storica” come questa.

    E’ chiaro che, parlando di “destra” e “sinistra” non si intende, qui, evocare lo spettro delle posizioni estreme che nel corso del 900 (ma in parte ancora adesso) hanno, volta per volta, incarnato questi due orientamenti della topografia politico-ideologica dell’Europa moderna. Non è certo la destra fascista, da un lato, né la sinistra comunista e sovietica, dall’altro, quello che abbiamo di mira con l’intento di stabilirne il possibile significato al giorno d’oggi. E non perché, al presente, queste posizioni siano assenti o scomparse, né per il fatto che sono ormai divenute residuali. Ma per ciò che giustifica questi esiti, ovvero per la ragione di fondo che esse non hanno più riscontro nella geistige Situation der Zeit, nella “situazione spirituale dell’epoca”. Per lo stesso motivo non ritengo che il termine “sinistra” possa ancora essere interpretato ricorrendo all’idea di “socialdemocrazia”, benché in molti paesi europei esistano ancora oggi partiti di massa che si denominano attingendo a questa nobile tradizione e quantunque ci sia un folto gruppo parlamentare che si richiama ai principi del socialismo europeo nel parlamento di Bruxelles. La socialdemocrazia, anche se mantiene il suo nome storico, si è evoluta, in Europa, sua terra d’origine, divenendo qualcosa di molto diverso da ciò che era inizialmente. Oggi parlare di “classe operaia” nel senso che il socialismo democratico dava a questa espressione in Germania, non solo all’inizio del secolo XX ma anche dopo Bad Godesberg, non è più possibile. Non perché, ancora una volta, non esista una “classe operaia”, ma perché gli interessi di cui è portatrice non sono più (ammesso che lo siano mai strati) configurabili come l’espressione più autentica dell’interesse generale della società nel suo complesso. Inoltre, essa ci appare oggi come una costellazione molto frammentata al suo interno e le conquiste ottenute in suo nome (quel complesso di leggi, disposizioni, provvedimenti, che va sotto il nome di “stato sociale”), appaiono, al presente, gravate da costi non più sostenibili e allo stesso tempo troppo rigide e inadeguate di fronte alla crescita della popolazione e ad un allungamento molto significativo della vita media, alla moltiplicazione delle figure professionali e alle diverse esigenze che caratterizzano, dal punto di vista della flessibilità del lavoro e delle protezioni ad esso accordate, il poliedrico mondo dei “servizi”, settore che da decenni è in continua crescita. Del vecchio “stato sociale”, una moderna sinistra europea deve saper conservare ciò che è irrinunciabile e saper abbandonare quello che, invece, non è più realistico pensare di mantenere. Direi, semplificando, che per una sinistra rinnovata occorre puntare sull’assistenza più che sulla previdenza, sulla formazione e promozione sociale piuttosto che sulla tutela delle posizioni acquisite. Occorre, in altre parole, combinare libertà ed uguaglianza in modo piuttosto equitativo che, come pretendeva le vecchia sinistra “di classe”, egualitario. Ovvero, dando più peso alla redistribuzione delle opportunità che a quella del reddito (anche perché i margini per quest’ultima sono, oggi, imposti dal corso dell’economia globale e le possibilità di intervento di un singolo governo o stato, sia pure solo con riferimento a ciò che avviene entro i confini del proprio territorio, soprattutto in tempi di difficile congiuntura economica, sono piuttosto ridotte). Rispetto al tema dell’assistenza ci sarà sempre una divaricazione, nel governo delle comunità, fra un’impostazione più “solidaristica” ed una meno sensibile al richiamo dell’equità sociale. Lo stesso dicasi per il tema della formazione. Poi, il modo in cui i servizi che riguardano l’erogazione di prestazioni assistenziali e formative vengono forniti può essere deciso in base a criteri tecnici di funzionalità ed efficienza. In altre parole, non è irrinunciabile che l’erogazione sia interamente nelle mani dello Stato, è irrinunciabile, per una sinistra moderna, che gli obiettivi e i criteri per valutarne il conseguimento siano stabiliti nel quadro di un sistema pubblico, integrato o meno che esso sia, volto alla tutela e protezione dei soggetti socialmente più deboli (secondo un criterio di gradualità della prestazione, funzionale al grado della debolezza sociale da compensare) piuttosto che al profitto. In ultima analisi, potremmo sintetizzare tutto questo dicendo che al giorno d’oggi il divario tra destra e sinistra si misura sul terreno dell’etica pubblica anziché su quello del confronto fra progetti e sistemi sociali alternativi. Esemplificando: su un terreno sul quale il diritto alla vita e alla salute si sposa piuttosto con quello di decidere della propria esistenza, disponendone liberamente (a partire dal suo grado più basso, quello biologico, per salire progressivamente ai più elevati, rispetto ai quali questa libertà non potrà mai essere, per definizione, assoluta) che con quello di godere di un vitalizio pensionistico che consenta di trascorrere più di un terzo della vita in occupazioni liberamente scelte, restando a carico della collettività e prefigurando, così, un sistema sociale in cui l’uomo sia sempre più libero dal bisogno di impegnarsi in un’attività lavorativa ingrata, che abbia l’unico scopo di procurargli un sostentamento di natura materiale. Obiettivo certo non disdicevole, ma che la storia del secolo scorso ha dimostrato poco o per nulla realistico.

    Una sinistra di questo genere, attenta ai diritti esistenziali della persona e intenzionata ad estenderli al numero progressivamente più alto possibile di coloro che attualmente ne sono esclusi, limiterà il suo impegno ideologico (senza confonderlo con la verità della storia) al terreno di un’etica sociale come quella appena descritta per sommi capi, mantenendo, nei confronti di altri aspetti dell’identità della sinistra tradizionale un atteggiamento pragmatico. Si porrà, per esempio, il problema della tutela dell’ambiente, ma solo allo scopo di preservarlo per le generazioni future ed entro i limiti precisi di quello che questo comporta, non per odio verso un modello industriale di sviluppo visto come l’artefice di tutti i  mali e interpretato come espressione di un’avidità sociale nociva e da combattere. Avrà la convinzione che nei rapporti internazionali si devono esplorare tutte le strade ed attivare tutti i canali diplomatici che possono consentire di raggiungere gli obiettivi di politica estera perseguiti, mantenendo la pace tra le nazioni. Ma non riterrà la guerra uno strumento inevitabilmente malvagio e sempre condannabile. Semplicemente, si risolverà ad adottarlo o a sostenerne l’adozione solo in casi estremi, quando gli interessi vitali del Paese o di un intero settore geopolitico fossero irrimediabilmente minacciati e compromessi, e senza ammantare un simile ricorso alle armi (o un simile passaggio dalle “armi della critica alla critica delle armi”) degli orpelli ideologici che costituivano il vecchio equipaggiamento della propaganda sovietica e americana, pretendendo che il fine della guerra sia la liberazione dei popoli o la promozione della democrazia e del progresso. Questo passaggio da un confronto fra destra e sinistra basato su un’alternativa di sistema ad un confronto fondato, invece, su due etiche pubbliche alternative è, dunque, il motivo saliente sul quale occorre far leva per definire un concetto di “sinistra” nuovo ed attuale, con il corredo di una corrispondente identità ideologica, della quale fa organicamente parte l’idea che i sistemi sociali evolvono e mutano, ma seguendo logiche interne, e che i sovvertimenti politici, quando avvengono, sono e, in generale, possono essere, casomai il frutto di quell’evoluzione o di quei mutamenti, non la loro causa. 

    D’accordo, ma un simile “passaggio” può essere utilizzato anche come filo conduttore per giungere a ridefinire, oltre ed insieme all’idea e al concetto di “sinistra”, l’idea e il concetto, altresì, di quella che deve o dovrebbe essere una nuova “destra”? La risposta a questa domanda non può che essere affermativa. E da questo punto di vista occorre dire che, in Italia, una nuova destra si è costituita prima di una nuova sinistra. Cosa che, forse, a prescindere dalle circostanze che possono averne, contingentemente, favorito il successo, può essere indicata come il fattore di fondo, probabilmente decisivo, delle sue vittorie politiche (non semplicemente elettorali) e della sua prolungata fase di crescita. Al riguardo, però, occorre aggiungere dell’altro, perché questa destra, pur essendo “nuova”, ha in se stessa qualcosa di atipico ed inquietante. Non è, insomma, una destra alla Sarkozy, alla Merkel, all’Aznar. La sua modernità consiste nell’aver, per suo conto, già impostato i temi della propria contrapposizione alla sinistra, e assai prima di questa, essenzialmente sul piano dell’etica pubblica. Non sono più, per esempio, i motivi tradizionali, relativi al confronto tra pubblico e privato, quelli che giocano il ruolo di maggior spicco nell’ambito della definizione ideologica dell’identità del centrodestra italiano. Al contrario, l’attuale maggioranza di governo, che negli ultimi 15 anni ha ottenuto per ben tre volte di essere chiamata dagli elettori alla guida del Paese, ha fatto, sul piano delle privatizzazione e delle liberalizzazioni, assai meno del centrosinistra. Un suo esponente di punta, che riveste il ruolo decisivo di ministro dell’economia, è un convinto fautore dell’intervento pubblico nell’attività economica e nel controllo dei mercati. Anche le riforme fiscali e previdenziali inizialmente avviate dal centrodestra e poi bloccate o riviste dal centrosinistra non sono state, finora, riproposte nella loro versione originaria dopo il ritorno al potere della prima di queste due alleanze politiche. Viceversa, l’attuale governo si è distinto per la sua sorprendete sintonia con una Chiesa cattolica sempre più preconciliare sui temi relativi alla vita, alla morte, alla procreazione. Ha dato prova di non tenere in alcun conto formazione e ricerca (che sono stati due dei settori sui quali i tagli di bilancio hanno inciso di più). Ha mostrato di avere, dell’assistenza, un concetto socialmente asfittico e comunque più caritatevole che equitativo o perequativo (anche in questo caso in perfetta sintonia con gli orientamenti di fondo della gerarchia ecclesiastica). 

    Ma, come ricordavo poco fa, il centrodestra, che è nato, da noi, all’indomani del ciclone giudiziario che ha travolto le vecchie formazioni, sulle quali si era fondato, per oltre cinquant’anni, il nostro sistema politico, presenta, però, rispetto agli altri partiti conservatori del continente europeo, alcune peculiarità, che gettano su di esso una luce ambigua. La prima di queste è il controllo che esso esercita e che, in generale, è in grado di esercitare, sull’informazione e sulla comunicazione televisive. La seconda, l’assoluta spregiudicatezza con la quale mostra di voler cavalcare i peggiori fantasmi e le paure profonde che si annidano nell’animo di un corpo elettorale che solo in misura assai modesta si può dire costituito da soggetti democraticamente maturi, dotati di coscienza pubblica e in grado di rivestire consapevolmente un ruolo di cittadinanza attiva. Una destra, perciò, non semplicemente conservatrice, ma attraversata da un’idea che spesso mostra i suoi tratti illiberali, particolarmente quando espone il proprio concetto del principio di maggioranza, in base al quale un consenso maggioritario dovrebbe consentire l’esercizio di un potere svincolato da ogni contrappeso istituzionale, privo, pertanto di contropoteri che lo bilancino, e sciolto da ogni obbligo di tutela nei confronti dei diritti della minoranza. Tutto questo, insieme al suo già ricordato impegno sui temi etici (e in particolare bioetici) a fianco di una Chiesa tornata intransigente come ai tempi di Pio XII, fa del centrodestra italiano una compagine politica abbastanza atipica in Europa, con  somiglianze, analogie e simpatie, piuttosto, al di là dell’Atlantico – penso ovviamente all’esperienza da poco conclusa dell’amministrazione repubblicana di G. W. Bush – e al di là dell’ex cortina di ferro – dove il riferimento, fatte le debite e opportune differenze, all’autoritarismo di un Putin appare del tutto scontato visti anche i legami personali che questo leader ha stretto con il nostro capo del governo. Rimane però da capire se simili aspetti, un poco torbidi ed inquietanti, si limitino ad essere e a rappresentare semplicemente un tratto arcaico e involutivo del centrodestra italiano, o costituiscano, invece, l’indizio di qualcosa che si va preparando anche nel resto d’Europa. Si potrebbe supporre, ma è un’ipotesi priva di qualsiasi compiacimento, che questa evoluzione della destra moderata (fatti salvi quei motivi che sono più strettamente connessi alla specificità della situazione di casa nostra, ma che potrebbero anche essere destinati ad un rapido tramonto con la conclusione dell’esperienza rappresentata dall’attuale leadership del PDL) sia in una certa misura quella che si va predisponendo, in vista di un futuro delle società democratiche di massa abbastanza prossimo, in tutto l’Occidente. In altre parole, il fatto stesso che questa destra mostri caratteri di modernità strettamente congiunti ad elementi regressivi, può far pensare che questi ultimi siano l’espressione di tratti autoritari in qualche modo legati all’evoluzione (che potrebbe anche essere un’involuzione) delle democrazie moderne, interessate dai processi di massificazione che contraddistinguono la maggior parte delle società dei nostri giorni, democratiche e non. Se questo fosse vero, la contrapposizione fra desta e sinistra che si andrebbe profilando nel futuro ormai prossimo del mondo occidentale sarebbe quella rappresentata da un confronto fra due orientamenti: uno liberale e progressista (due aggettivi che nel mondo anglosassone hanno un unico corrispettivo nella parola “liberal”) ed uno liberale-autoritario, il quale ultimo, senza mettere in discussione le forme classiche dei sistemi parlamentari fondati sul suffragio universale, in tutte le circostanze in cui potesse farlo sfrutterebbe, assecondandoli, gli aspetti illiberali dei sistemi di comunicazione, costituzione, amministrazione, diffusione e controllo dell’opinione pubblica, divenuta al presente, quasi senza eccezione, opinione di massa.

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