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Franceschini 

e Kuhn

di Umberto Curi

Come è ampiamente noto, nella sua opera fondamentale (La struttura delle rivoluzioni scientifiche 1967), il filosofo e storico della scienza Thomas Kuhn introduce una distinzione molto circostanziata fra due fasi chiaramente riconoscibili nello sviluppo storico-scientifico. Da un lato, la fase della cosiddetta “scienza normale”, durante la quale domina incontrastato un paradigma, e la comunità scientifica è esclusivamente intenta a risolvere i problemi che si pongono all’interno del perimetro concettuale delimitato da quel paradigma. A questa fase, di durata ed estensione variabile, subentra poi quella che Kuhn chiama “scienza straordinaria”, caratterizzata dalla crisi del paradigma precedentemente accettato, e da un impegno della comunità scientifica ad elaborare una molteplicità di ipotesi, la cui proliferazione cessa solo nel momento in cui un nuovo paradigma venga universalmente accettato e condiviso dall’intera comunità scientifica.

Le categorie kuhniane sono probabilmente le più adatte per descrivere la fase nella quale versa attualmente il Partito democratico, dopo le due successive batoste elettorali riportate in Abruzzo e in Sardegna, e dopo l’abdicazione di Veltroni. Quella che si è aperta è – o, meglio, dovrebbe essere – una fase di “scienza straordinaria”, nella quale si prenda atto definitivamente del tramonto del vecchio paradigma e si proceda senza indugi né remore verso la formulazione di un nuovo assetto, affrontando a viso aperto una fase, non si sa quanto lunga, di escogitazione di ipotesi teorico-politiche fortemente innovative. Quanto è accaduto a Roma, in occasione della recente riunione dell’Assemblea nazionale, procede invece nella direzione opposta. Il tentativo, fin troppo palese, è quello di considerare indiscutibile il paradigma entrato in crisi (e.g.: la forma organizzativa, il modo di essere, la strategia, la dirigenza politica, del Partito democratico), e di procedere semplicemente a qualche ritocco cosmetico, esorcizzando dunque lo spettro della scienza straordinaria. Un suicidio collettivo annunciato. Una scelta destinata a seppellire qualunque prospettiva di alternativa al centrodestra di qui all’eternità. Accompagnata, per giunta, dalle dichiarazioni di esplicita esultanza dei membri dell’Assemblea nazionale, concordi nell’esprimere “sincero  entusiasmo” per la nomina di Franceschini, e nell’ammonire severamente a “non lasciarsi prendere dalla delusione”.

Scusateci tanto. Ci eravamo sbagliati. Avevamo pensato che l’esito catastrofico delle elezioni in Abruzzo  e in Sardegna, l’andamento disastroso delle iscrizioni al partito, la perdita di oltre 12 punti stimati, rispetto al risultato conseguito nelle Politiche dello scorso anno, fossero ben più che sufficienti a far capire in quale abisso stia precipitando quella che avrebbe dovuto essere (e per qualche mese è stata) la grande speranza degli Italiani che non vorrebbero morire berlusconiani. Più ancora, avevamo creduto che i segnali degli ultimi mesi, provenienti soprattutto dalle elezioni primarie svoltesi non solo a Firenze, ma anche in molti centri in giro per l’Italia, nelle quali regolarmente tutti i candidati “ufficiali” del partito erano stati letteralmente travolti, in favore di personaggi semisconosciuti, bastassero a rendere chiara non solo la portata di una crisi assolutamente senza precedenti, ma più specificamente servissero a far emergere un distacco degli elettori democratici dal loro partito di riferimento che ha assunto ormai i caratteri di uno scontro aperto. Ci eravamo illusi che, toccato il fondo ( ed è lì che si è giunti, lo si riconosca o meno), gli “spiriti animali” di questa organizzazione si sarebbero risvegliati dal torpore conseguente alla batosta subìta alle elezioni politiche, e avrebbero preso qualche iniziativa all’altezza del disastro incombente. Avevamo ingenuamente creduto che anche ai membri dell’Assemblea nazionale fosse chiaro ciò che qualunque persona appena sana di mente è in grado di capire, e cioè che l’avvicendamento alla segreteria (con un personaggio totalmente coinvolto nella linea scelta da colui che lo aveva preceduto, per giunta) fosse una risposta del tutto insignificante ed ininfluente, rispetto alla gravità della crisi. Avevamo immaginato che un partito che dovrebbe essere erede di due grandi culture politiche, quella cattolico-democratica, e quella del comunismo italiano, e che pretende addirittura di andare oltre, trovasse al suo interno le risorse, l’onestà intellettuale, il coraggio politico, di puntare davvero ad un nuovo inizio, sbarazzandosi del peso di un’oligarchia diventata ormai asfissiante, gettando a mare i tatticismi sterili di questi ultimi dieci mesi, liquidando una volta per tutte la partita infinita fra le due squadrette che da anni si fronteggiano, incapaci di comprendere che non stanno disputando la Coppa dei Campioni, ma il campionato dilettanti di serie Z. Qualcuno degli “esultanti” dovrebbe spiegare sulla base di quale fine analisi politica la semplice nomina del vice di Veltroni alla segreteria, restando inalterato tutto il resto, dovrebbe magicamente guarire il partito, scongiurando un tracollo ormai alle porte. Perché mai il semplice cambio di un leader, rispettabile e simpatico quanto si vuole, dovrebbe essere il rimedio giusto per un male che, per estensione e gravità, va ben al di là delle responsabilità di Veltroni? Se non ora, quando? Se non si affrontava ora, in questo momento di massima difficoltà, una navigazione in mare aperto, impegnandosi davvero a costruire un partito nuovo, con facce nuove, idee e ideali rinnovati, forme organizzative e metodologie politiche innovative – se non si tentava ora, cosa si sarebbe dovuto aspettare? Per quanto tempo ancora si priverà il paese di una credibile alternativa  di governo a Berlusconi? Quanto dovrà durare il purgatorio delle tante brave persone che si vergognano di essere rappresentate da un ceto politico quale è quello che è attualmente investito della direzione politica? Si sa: sono domande che resteranno senza risposta. Meglio “non lasciarsi prendere dalla delusione”. Meglio inebriarsi di questa “esultanza”. Meglio, soprattutto, reimmergersi nella routine della “scienza normale”, facendo finta di niente, precipitandosi a comporre le liste per le elezioni amministrative e le Europee col solito bilancino di equilibrio fra le “anime” interne. Meglio lasciar credere che il fallimento di un intero gruppo dirigente – nazionale e locale – di un’intera politica, di una strategia complessiva, possa essere scaricato unicamente sulle spalle dell’unico “capro espiatorio” di turno – non migliore, ma certamente non peggiore degli altri. Lasciamo allora che la comunità politica continui testardamente a lavorare all’interno di un paradigma ormai usurato e infine inservibile. Evidentemente, non sono ancora maturi i tempi di una “scienza straordinaria”. 

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