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Barak Obama:

oltre l’orizzonte della guerra infinita

di Umberto Curi

1. “Per quanto riguarda la difesa, respingiamo come falsa la scelta tra la nostra sicurezza e i nostri ideali”. In questi termini, nel discorso di insediamento alla Casa Bianca il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha voluto sintetizzare quali dovrebbero essere le nuove linee strategiche, alle quali l’America si atterrà nel prossimo futuro. Pur trattandosi di un semplice accenno, nel contesto di un ragionamento inevitabilmente appena abbozzato, lo spunto ora citato può consentire di individuare la principale discriminante fra l’amministrazione entrante e quella uscente, fra Barack Obama e George W. Bush . Difatti, dopo il giuramento di Obama, il problema principale sarà quello di stabilire quali saranno i temi concreti – al di là della avvincente retorica dei suoi discorsi – sui quali si potrà misurare la discontinuità della nuova amministrazione rispetto a quella precedente. Per lo più, le previsioni formulate da analisti e commentatori in questi giorni si concentrano sui provvedimenti di politica economica e sociale, rivolti soprattutto a fronteggiare la crisi, e sul preannuncio di alcuni cambiamenti relativi alla politica energetica. Ma il banco di prova di gran lunga più significativo, quello che potrà  indicare se è vi è stata realmente una svolta, se davvero è  iniziata una nuova epoca per la storia del mondo, è quello costituito dalla politica estera. Dove la verifica dovrà riguardare non solo – si badi bene –  aspetti appariscenti, ma anche in fondo limitati, quali sono la promessa chiusura del lager di Guantanamo o il ritiro delle truppe americane dall’Iraq. Ma soprattutto l’impostazione complessiva delle relazioni internazionali, sul piano politico-economico, prima ancora che sul piano militare. E, all’interno di questo quadro, la funzione attribuita alla guerra. Come si vedrà, infatti, l’elemento di gran lunga più caratterizzante dell’amministrazione Bush, ciò per cui essa è destinata a restare come una tappa decisiva nella storia del pianeta, oltre che nello sviluppo delle idee, è certamente la nuova

concezione della guerra, teorizzata dagli intellettuali di ispirazione neoconservatrice, e concretamente attuata dal Presidente negli otto anni del suo mandato. Una concezione – e una pratica -  della guerra, capace di rovesciare i presupposti sui quali, per millenni, essa è stata definita e realizzata.

 

 

2. “Che cos’è la guerra, se non quel periodo di tempo in cui la volontà di contrastarsi con la violenza si manifesta sufficientemente con le parole e con i fatti? Il tempo restante si chiama pace” (De cive, I, § 12;  tr. it. Torino 1948, pp. 90-91). In questi termini, all’alba della modernità, per definire la guerra, e la sua differenza rispetto alla pace, Thomas Hobbes si serviva essenzialmente della nozione di tempo. La non casualità di questo riferimento è confermata da ciò che lo stesso autore scrive nel Leviathan, contaminando deliberatamente la nozione cronologica con quella meteorologica di tempo. Come la natura di una tempesta “non consiste solo in un rovescio o due di grandine, ma nella disposizione dell’atmosfera ad essere cattiva per molti giorni insieme, così la natura della guerra non consiste in questo o quel combattimento, ma nella disposizione manifestamente ostile, durante la quale non v’è sicurezza per l’avversario. Ogni altro tempo è pace”(tr.it. Bari 1974, I, p. 109). .

Non si possono confondere, dunque, le “poche gocce” di alcuni combattimenti isolati con “la tempesta della guerra”. La differenza non sta tanto nella quantità complessiva della pioggia, quanto piuttosto nella durata del fenomeno. Perché si possa parlare di guerra, è necessario che l’ostilità fra i contendenti, le operazioni militari, la “volontà di contrastarsi con la violenza”, abbiano rilevanza in rapporto al tempo. La guerra e pace, si definiscono e si contrappongono insomma come tempi. Più agevolmente riconoscibile la prima, in quanto coincide con una “manifestazione” ben visibile di “parole e fatti”, più indeterminata la seconda, perché caratterizzata solo dalla assenza di quelle parole e di quei fatti, entrambe sono tuttavia accomunate dal non essere episodi isolati, ma tempi aventi una “sufficiente” durata.

D’altra parte, in perfetta coerenza, e non in contraddizione, con queste affermazioni lo stesso filosofo sottolinea che una guerra così intesa – come stato, dunque, anziché come evento, come condizione universale di belligeranza permanente, e non solo come sporadico combattimento – è in realtà una pura astrazione, una sorta di idea-limite, che tuttavia non corrisponde ad alcuna realtà storica determinata. Difatti, ove davvero si desse “uno stato continuo di guerra”, esso renderebbe impossibile “la conservazione, così della specie umana, come di ciascun individuo particolare” (De cive I, §13; tr.it. p. 91), sicchè “non può esservi qualcuno che stimi come proprio bene la guerra di tutti contro tutti” (ivi, p. 92), che sarebbe per l’appunto la caratteristica naturale di un tale stato. O meglio. Hobbes accenna a qualche raro caso storico, nel quale la condizione puramente ipotetica di una belligeranza di tutti contro tutti si è effettivamente realizzata. Nelle epoche passate, ciò è accaduto presso altre razze che erano allora composte relativamente di “pochi uomini feroci, di vita breve, poveri, sporchi”. Quanto all’età presente – vale a dire al secolo XVII, nel quale vive il filosofo britannico – l’unico esempio che in qualche modo possa essere considerato simile ad uno stato continuo di guerra “ ce lo offrono gli Americani” (ivi, p. 91).

Ma l’esiguità e la marginalità dei riferimenti storici, e insieme la constatazione dell’evidente contraddizione, nella quale incorrerebbe chiunque scegliesse di rimanere in quello stato, poiché perseguirebbe consapevolmente il proprio autoannientamento, inducono ad affermare che è comunque necessario “uscire da una simile situazione. Se ne può concludere che, “se si deve avere guerra, non sia contro tutti” (ivi, p. 92). Se guerra vi dovrà essere, essa non sarà dunque permanente, ma transitoria. Non sarà un tempo, ma un evento, in qualche modo circoscritto. Non sarà contro tutti, ma limitata ad alcuni.

3. Anche indipendentemente dalle definizioni hobbesiane, dal punto di vista storico e concettuale la guerra è sempre stata concepita non come uno stato, ma come un evento. Per certi aspetti, anzi, essa è stata considerata l’evento per antonomasia, vale a dire la rottura dell’equilibrio nel succedersi “ordinato” degli avvenimenti, l’attivazione o l’accelerazione di processi, in luogo della quiete preesistente. L’abituale scansione delle diverse fasi storiche in  periodi distinti, assume spesso quale punto di riferimento una guerra, proprio perché essa si propone come irruzione di una marcata discontinuità, come spartiacque fra un “prima” e un “dopo” caratterizzati precisamente dal precedere o dal seguire l’evento bellico. In termini di teoria delle catastrofi, la guerra si costituisce essenzialmente come fattore morfogenetico, e cioè come quel mutamento di forma che conduce ad una transizione fra due diversi stati di stabilità strutturale. Proprio perché è diretta antitesi di ogni stato, perché sanziona il sopravvento del mutamento rispetto alla continuità, e del processo rispetto alla quiete, la guerra si iscrive in un orizzonte concettuale specificamente segnato dalla sua appartenenza alla sfera dell’evento, e dunque all’ambito del contingente e del particolare. 

Come espressione di ciò che accade hic et nunc, sua più compiuta manifestazione, per essere descritta la guerra esige un lessico adeguato alla sua morfologia, e dunque implica in particolare l’uso di categorie temporali idonee ad  esprimerne le caratteristiche peculiari. Di qui l’impossibilità di riferirsi ad essa, se non con termini che ne sottolineino il carattere in ogni senso extra-ordinario, la sua irriducibilità a qualunque stato. Di qui anche la necessità di servirsi di connotazioni cronologiche capaci di situare con precisione nel tempo ogni specifico accadimento  bellico. Da questo punto di vista, un segno esteriore, ma non per questo meno significativo, della stretta inerenza della guerra all’orizzonte temporale dell’evento può essere ravvisato nella consuetudine linguistica di identificare una guerra attraverso l’indicazione degli anni in cui essa si è svolta. Nessun altro principio di individuazione è richiesto, salvo quello consistente nel segnalare la “data” in cui il conflitto è cominciato e quello nella quale è terminato. Per definizione, dunque, la guerra ha sempre e comunque un inizio, e altrettanto inderogabilmente una conclusione. Una guerra che fosse sottratta a determinazioni cronologiche, o che fosse descritta senza riferimento a categorie temporali, si porrebbe in contraddizione col suo specifico statuto – quello di  essere un processo, non uno stato,  un evento, non una forma, una emergenza transitoria, non una condizione permanente.

 

4. “Per la maggior parte del XX secolo, il mondo è stato diviso da una straordinaria lotta per gli ideali: visioni totalitarie e distruttive contro libertà e uguaglianza. La grande lotta è finita. Le visioni militanti di classe, nazione e razza che promettevano l’utopia, ma davano miseria, sono state sconfitte e screditate”. Con l’affermazione di una netta soluzione di continuità, fra un passato durato quasi un secolo, e la nuova situazione inauguratasi con l’inizio del terzo millennio, si apre il documento sulla National Security Strategy(d’ora innanzi: NSS), reso noto al Congresso il 20 settembre del 2002. Articolato in alcuni densi capitoletti, riguardanti non solo le necessarie trasformazioni nella strategia e nel funzionamento delle istituzioni preposte alla sicurezza nazionale, ma anche le linee di una rinnovata politica economica, e preceduto da una Introduzione dello stesso G.W.Bush, il testo nel suo complesso non dissimula le sue ambizioni. L’obiettivo al quale esso tende è infatti quello di disegnare un nuovo quadro teorico-politico, al cui interno si collocano le opzioni di carattere più strettamente militare, e le stesse linee guida della politica economica statunitense, “per far fronte alle sfide e alle opportunità del XXI secolo”. Atto conclusivo di un processo di elaborazione avviato all’indomani dell’11 settembre, il NSS si propone esplicitamente come documento fondativo di una politica estera totalmente diversa, rispetto a quella a cui gli Stati Uniti si erano attenuti per oltre mezzo secolo, dalla fine della seconda guerra mondiale fino al crollo del muro di Berlino.

Le premesse per questo mutamento strategico erano già state poste nel testo intitolato Nuclear Posture Review(d’ora innanzi: NPR), sottoposto al Congresso il 31 dicembre del 2001. In esso, infatti, si offriva una prima dimostrazione concreta di ciò che lo stesso Presidente Bush intendeva, quando aveva affermato (novembre 2001) che “nella politica di sicurezza, gli USA dovevano procedere oltre il paradigma della guerra fredda”. Muovendo dal presupposto (già dichiarato nel rapporto del National Institute for Public Policy di alcuni mesi prima) che “non è possibile prevedere oggi quale sarà lo scenario strategico del 2005, e meno ancora del 2010 o del 2020”, il NPR sostituiva all’idea del graduale smantellamento degli arsenali nucleari, che pure rientrava negli impegni precedentemente assunti dall’Amministrazione, il criterio di una revisione, ispirata ad alcuni fondamentali criteri guida. In sintesi, il documento asseriva la necessità di lasciarsi definitivamente alle spalle i piani strategici assunti durante la guerra fredda, per adottare invece una “nuova triade”, articolata lungo tre direttive: “a) sistemi di attacco (sia nucleari che non nucleari); b) sistemi di difesa (sia attiva che passiva); c) una rivititalizzazione delle infrastrutture di difesa che consenta di acquisire nuove capacità di affrontare situazioni di emergenza con grande tempestività”. 

Oltre ad un completo ribaltamento, rispetto alla prospettiva più volte annunciata di una progressiva denuclearizzazione degli armamenti (“le armi nucleari giocano un ruolo decisivo nelle capacità di difesa degli Stati Uniti, dei loro alleati e dei loro amici”), il NPR prefigura già in maniera abbastanza esplicita quello che sarà il baricentro concettuale del NSS, vale a dire la nozione di guerra preventiva. Alla base delle “tre gambe” della “nuova triade”, vi è infatti la convinzione più volte ribadita che il compito principale della strategia americana nel XXI secolo dovrà consistere nel prevenire gli attacchi, più ancora che nel rispondere tempestivamente ad essi. Di fronte al presentarsi anche solo di una semplice minaccia – si legge nel NPR – è dovere primario degli USA impedire anticipatamente con tutti i mezzi, ivi inclusi anche gli armamenti nucleari, la realizzazione di attacchi contro l’America o i suoi alleati.

 

5.  Fra i documenti che preparano la svolta contenuta nel NSS, un’importanza particolare va riconosciuta al Defense Planning Guidance (DPG), scritto per il Pentagono nel 1990 da tre esponenti della destra radicale, Paul Wolfowitz , I. Lewis Libby, e Eric Edelman, destinati poi ad assumere ruoli chiave nell’amministrazione di George W. Bush.  Tenuto a lungo segreto, e poi accantonato da Bush senior (perché giudicato troppo radicale), il DPGproponeva una nuova grande strategia americana: “impedire ad ogni potenza ostile di dominare regioni le cui risorse potrebbero consentire agli Stati Uniti di aumentare il loro status di potenza….Scoraggiare i tentativi da parte di nazioni industrializzate di sfidare la leadership americana…Precludere l’emergere di ogni futuro concorrente globale”. Sebbene inizialmente sconfessati dalla stessa maggioranza repubblicana, questi princìpi sarebbero stati rilanciati di lì a poco da Zalmay Khalilzad, attualmente funzionario delegato dal Dipartimento di Stato per l’Afghanistan e l’Iraq, il quale scriveva nel 1995 che “il miglior criterio guida per gli Stati Uniti dovrebbe consistere nel mantenere la leadership globale ed evitare l’emergere di un rivale globale o un ritorno del multilateralismo”.

Per quanto indubbiamente significativi, i preannunci contenuti in documenti precedenti non sono tali da cancellare e neppure da ridimensionare le straordinarie novità espresse nel NSS, in maniera particolare relativamente alla concezione della guerra. Queste possono essere compendiate in un mutamento profondo dell’orizzonte concettuale, all’interno del quale si è tradizionalmente “pensata la guerra”, mediante l’eliminazione di categorie temporalmente definite e la loro sostituzione con espressioni che alludono alla permanenza stabile della condizione bellica. Già la nozione stessa di preventive warattribuisce alla guerra una connotazione temporale che rende logicamente insostenibile la formula nel suo complesso. E’ evidente, infatti, che si potrebbe considerare realmente preventiva solo una iniziativa che scongiurasse la possibilità della guerra, mentre ciò a cui si allude con quella espressione è la necessità di anticipare la guerra possibile (quella contro gli USA) con una guerra effettiva (quella intentata dagli USA). In altre parole, il termine “preventivo” risulta palesemente inapplicabile, poiché lo strumento mediante il quale la prevenzione dovrebbe essere attuata coincide con ciò che la prevenzione stessa dovrebbe impedire, sicchè si giungerebbe al paradosso che lo strumento potrebbe funzionare solo a condizione che esso resti disattivato.

Ad esiti non meno paradossali, ma non per questo meno significativi, conducono anche le altre locuzioni impiegate nel NSS, oltre che in numerosi altri discorsi pronunciati dal Presidente Bush prima e dopo il 20 settembre 2002. Designare una operazione strategica militare, quale è quella avviata prima contro l’Afghanistan e poi contro l’Iraq, con l’espressione Enduring Freedom, vuol dire ancora una volta adoperare una categoria che implica la permanenza o la perennità per descrivere qualcosa che, viceversa, dovrebbe essere per definizione circoscritto nel tempo, quale è appunto una guerra. Questa diventa dunque non già un evento, ma uno stato, principalmente caratterizzato dalla durata, e comunque tale da sfuggire alle determinazioni temporali con le quali abitualmente si designano le guerre. 

Osservazioni analoghe potrebbero essere fatte anche a proposito di molte altre espressioni ricorrenti nei documenti e nelle dichiarazioni dell’Amministrazione americana: da Infinite Justice (con la quale era originariamente designata l’operazione poi definita Enduring Freedom) fino a Infinite War, vero e proprio ossimoro, mediante il quale quella che dovrebbe essere per eccellenza un’occorrenza straordinaria e transitoria, massimamente de-finita, assume le caratteristiche improprie di una condizione in-finita - senza fines, dunque, né in senso spaziale, né in senso temporale. Il tutto, accompagnato dall’esortazione ad accettare (come ha raccomandato Bush all’indomani della strage compiuta a Riad il 13 maggio 2003) un dato di fatto, vale a dire  che “non conosceremo la pace nel nostro tempo”.

 

6. Non dovrebbe essere necessario sottolineare che non si tratta di sottigliezze linguistiche. E’ evidente, piuttosto, che l’insistenza con la quale locuzioni come quelle citate compaiono nei documenti ufficiali e nei discorsi di esponenti autorevoli dell’Amministrazione Bush dimostra che esse identificano l’asse principale della strategia americana fra il 2000 e il 2008: una concezione della guerra come stato, anziché come evento isolato, come prospettiva durevole, anziché circoscritta nel tempo, come modalità permanente di rapporto non solo con gli “Stati canaglia”, ma con chiunque minacci la leadership a stelle e striscie sul mondo intero. Eliminando ogni rapporto della guerra col tempo, cancellandone il carattere intrinsecamente transitorio, quale  passaggio fra stati diversi di stabilità strutturale, attribuendo ad essa il connotato della infinità, ciò che viene attuato non è un mero “aggiustamento” della strategia di sicurezza e di difesa, ma un vero e proprio riorientamento complessivo della politica estera americana, nella quale la guerra assume valore sostantivo e non più meramente strumentale.

Gli atti, i documenti, le dichiarazioni dell’establishment statunitense confermano che, almeno a partire dall’inizio del 2002, la guerra (inclusa quella con armamenti nucleari) non è più un’opzione estrema, concepita come risposta ad un attacco, e comunque sempre limitata nel tempo e nello spazio, ma è piuttosto una prospettiva stabile, destinata a durare almeno quanto una intera generazione, non già quale supporto di una più ampia iniziativa di politica estera, ma come principio con cui coincide e in cui infine integralmente si risolve la politica estera in quanto tale.

 

7. “Il tenore di vita dei cittadini americani non è negoziabile” – questo uno dei passaggi salienti di un discorso tenuto da G.W. Bush nel giugno 2002, sovente riproposto, con trascurabili variazioni, nei mesi successivi. Apparentemente classificabile come concessione puramente demagogica, questa affermazione offre in realtà la chiave di volta per comprendere l’orientamento complessivo della politica estera statunitense e, al suo interno, la concezione della guerra come condizione permanente. In uno scenario generale ormai ben conosciuto, quale è quello di un mondo nel quale 1/5 della popolazione (coincidente appunto con i cittadini del mondo occidentale) dispone dei 4/5 delle risorse dell’intero pianeta, la posizione secondo la quale il tenore di vita degli abitanti più privilegiati non è negoziabile, costituisce di per sé la prima e più importante dichiarazione di guerra nei confronti del resto della popolazione mondiale. Se in presenza dei colossali problemi indotti dai macroscopici squilibri esistenti, lo status di alcuni cittadini è posto come variabile indipendente, è evidente che questo elemento di assoluta rigidità implica di per se stesso il ricorso alla guerra, non già come mezzo per affrontare una singola e circoscritta minaccia, ma come tramite per scongiurare ogni e qualunque mutamento, come strumento per imporre la permanenza, rispetto all’ipotesi di una qualsiasi modificazione dello stato esistente.

Si comprende allora, da questo punto di vista, la necessità di sostituire alla tradizionale accezione della guerra come evento straordinario e transitorio una concezione in cui la guerra coincide con uno stato durevole, destinato non a sconfiggere un determinato nemico, ma a impedire che possano essere lesi o limitati i diritti considerati acquisiti e intangibili di coloro che vivono nel mondo occidentale. Di qui, in perfetta coerenza, la mobilitazione di locuzioni e metafore accomunate dall’eliminazione di ogni specifico riferimento temporale. Di qui l’evocazione di una prospettiva che abbraccia la vita di un’intera generazione, e in cui l’obiettivo indicato non consiste in una singola “vittoria” militare, ma nel perseguimento di una giustizia infinita o di una libertà duratura. 

 

8. Alla luce del percorso fin qui compiuto, si può dunque motivatamente affermare che la vera scommessa a cui Obama è chiamato può allora essere individuata nella capacità che gli Stati Uniti dovranno dimostrare di assolvere al compito di “tenere in forma” le macroscopiche contraddizioni del pianeta, rinunciando allo strumento della “guerra infinita”. Una sfida estremamente impegnativa, dal momento che, pur trattandosi di una scorciatoia, pagata con un tributo altissimo in termini di vite umane, e più ancora di perpetuazione di iniquità e storture, la linea perseguita dall’Amministrazione Bush ha raggiunto l’obbiettivo di ribadire l’egemonia statunitense nel mondo, senza mettere in discussione il livello di vita del cittadino americano. Certamente, il fatto che la crisi economica abbia così brutalmente obbligato a rivedere quel tenore di vita, che si era dichiarato di principio “non negoziabile”, potrà aprire la strada ad una revisione profonda della politica estera fin qui perseguita. Su questo piano, la nuova Amministrazione americana è chiamata ad una verifica decisiva. Tenere insieme, anziché contrapporre, sicurezza e ideali. Sviluppare la cooperazione internazionale, invece che la diffusione della guerra preventiva. “Tendere la mano” (come ha testualmente affermato Obama) ai popoli del mondo, anziché soffocarne le sacrosante esigenze di sopravvivenza e di sviluppo economico. Se le parole pronunciate nel discorso di insediamento, e nei molti discorsi della lunga campagna elettorale, troveranno una conferma nei fatti, potremo ritenere che sia stata definitivamente chiusa una fase storica drammatica, durante la quale la guerra è stata il soggetto, e non semplicemente un possibile strumento, nelle relazioni fra i popoli della terra.

 

 

 

 

 

 

 

Nota. Per un approfondimento di alcuni passaggi, solo abbozzati nel presente saggio, mi permetto di rinviare ad alcuni miei lavori: Pensare la guerra. L’Europa e il destino della politica, Dedalo, Bari 1999; Polemos. Filosofia come guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2000; Introduzione in R. CAILLOIS, La vertigine della guerra, tr. it. Citta Aperta Edizioni, Troina (Enna.) 2002, pp. 7-53; Perché la guerra, “Filosofia politica”, 2002, n. 3, pp. 423-434; Terrorismo e guerra infinita, Città Aperta, Troina (Enna) 2007.

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