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Un antico racconto rabbinico

di Carmelo Meazza

Si continua  giustamente a parlare di Islam e di Cristianesimo. Ci si chiede se il Dio di Abramo sia lo stesso Dio per gli Ebrei per i Mussulmani  e per i Cristiani. Si pubblicano testimonianze di occidentali convertiti all’Islam che raccontano  di un Dio di Abramo onnipotente a cui si deve obbedienza la cui parola sarebbe stata scritta da sempre e per sempre. Non sono pochi i cristiani che riconoscono nel dio di Maometto molti lineamenti comuni con il proprio Dio e non sono pochi i laici a un passo dal laicismo  a ritenere  che  l’esercizio laico della ragione moderna sia stata possibile solo quando l’esperienza di questo Dio comune ai grandi monoteismi si è finalmente esaurita  nella storia dell’Occidente. Alla domanda se un cristiano con la memoria della tradizione giudaica si senta più vicino al laico non credente, diciamo pure a un laico  prudentemente ateo, piuttosto che a un islamico certissimo nell’obbedienza del suo Dio, entrambi, questi cristiani e questi laici risponderebbero senza tentennamenti: basta il nome di Dio  a dividere con una spada le fedi dalla ragione, a riunire nello steso insieme le religioni monoteiste, a consentire a un laico prossimo all’ateismo di sentirsi altrettanto lontano e distante da tutte loro.

Ebbene c’è un antichissismo racconto  talmudico che consente di dire una cosa diversa. Che promuove una linea di divisione diversa tra le fedi, tra la fede e la ragione, tra un certo ateismo e l’esperienza di Dio. Merita di essere conosciuto  anche tra i non specialisti di cose ebraiche e cristiane. E anche gli intellettuali dell’Islam impegnati sulla teologia della Parola di un Dio-padre troverebbe del buon materiale su cui meditare quando propongono l’Obbedienza come l’unica via d’acceso alla volontà del Padre onnipotente. In questo antico racconto  è in scena il rapporto tra Dio, la sua eterna parola, i testi sacri  in cui si rivela, gli uomini.  Il laico troverà in questa antica memoria giudaica come la fede in un Dio possa trovarsi a un passo da ciò in cui non crede e da ciò in cui crede di credere.

Si legga lentamente e con calma. Si parla di un forno e un gruppo di scribi si chiede se esso sia stato costruito secondo la Torah. Persino il Seminario di Orvieto che non ha parlato di forni, o ne ha parlato in altro modo, può trarre qualche giovamento da questa lettura.

 

“Quel giorno rabbi Eliezer produsse tutti gli argomenti a contrario possibili e immaginabili; ma nessuno li accettò. Allora egli disse: se la halakhah (ovvero la decisione corretta) è con me (ovvero corrisponde alla mia opinione), sarà questo carrubo a testimoniarlo. Subito il carrubo indietreggiò di cento cubiti; qualcuno anzi sostiene: di quattrocento cubiti. Ma i saggi replicarono: un carrubo non può fornire alcuna prova. Allora egli replicò: se la halakhah è come dico io, sarà questo ruscello a provarlo. E le acque del ruscello si misero subito a risalire il suo corso. Ed essi di rimando: un ruscello non può fornire alcuna prova. Ed egli ancora: se la halakhah è come dico io saranno le pareti della scuola a provarlo. Allora le pareti della scuola si inclinarono minacciando di crollare. Ma ecco che intervenne rabbi Joshua e le rimproverò gridando: di che cosa vi immischiate voi, mentre i saggi disputano intorno alla halakhah? E le pareti, allora, non crollarono, in considerazione del prestigio di rabbi Joshua, ma nemmeno si raddrizzarono, in considerazione del prestigio di rabbi Eliezer; ma ancora oggi stanno lì, inclinate! E rabbi Eliezer riprese: se la halakhah è come dico io, che la prova venga dal cielo. Ed ecco che una voce risuonò dal cielo, e disse: cosa avete contro rabbi Eliezer? La halakhah è sempre d’accordo con lui. Ma rabbi Joshua si alzò e disse: Essa non è nel cielo.

Che cosa significa: essa non è nel cielo? E rabbi Jirmejah replicò: la Torah è stata data già sul Sinai ( e perciò non si trova più nel cielo). Noi non dobbiamo più seguire alcuna voce celeste, perché già sul monte Sinai Tu hai scritto nella Torah: a maggioranza si deve decidere. Rabbi Nathan incontrò il profesta Elia e gli chiese che cosa avesse fatto in quel momento il Santo, sia benedetto il suo nome. Ed Elia rispose: Egli sorrise compiaciuto e disse: i miei figli mi hanno battuto! I miei figli mi hanno battuto!”

Quanta sapienza teologica e pratica nelle memorie di questo racconto!  Il commentario una delle grandi passioni del giudaismo potrebbe esercitarsi all’infinito!

Levinas filosofo lituano di origine ebraica direbbe che  questo racconto talmudico rivela il contributo che  un certo ebraismo porta in dote all’Occidente sul tema della laicità della ragione.

Il Dio di cui si parla in questa memoria talmudica non solo si ritira dietro la sua parola. Ma svuota il cielo della sua stessa presenza dopo la consegna  della legge sul Sinai. Pertanto coloro che continuano a guardare nella volontà del cielo la parola del padre non la trovano o trovano una parola e una volontà che non sono quelle del Dio di cui qui si parla. In questa sapienza rabbinica si fa esperienza di una parola che si consegna a tal punto nelle mani degli uomini da perdere la stessa memoria del Padre. Da poter disobbedire alla stessa volontà del Padre.  

Questa parola, addirittura la Torah, è  così strettamente  consegnata nelle mani degli uomini che su di essa si decide a maggioranza.  Dice proprio così quest’antichissima memoria giudaica: a maggioranza. Dopo avere a lungo discusso, nella fatica e nel travaglio di un dialogo infinito. Non si spiega la straordinaria predisposizione dell’ebraismo  al commentario della Torah se non fosse prevalsa nel corso delle generazioni l’idea che la Torah, quindi la parola di questo dio, resta chiusa e incompiuta se non si rivela nel corso del commento. Se il commentario quindi la discussione tra uomini non diventa l’unico spazio e l’unico tempo della sua rivelazione, l’unica forma legittima in cui la verità può essere sviluppata.

Perché questo accada occorre immaginarsi un Dio che in qualche modo si ritira. Si ritira dalla sua stessa divinità; o dalla divinità della sua parola. Si ritiri fino al punto da lasciare gli uomini nel dubbio che egli ci sia o non ci sia.

E’ difficile negare che questo popolo che si è edificato a immagine e somiglianza di questo Dio, in qualche modo limitato nella sua onnipotenza, non abbia concorso alla costruzione dell’antropologia dell’Occidente e che la radice della laicità non gli debba qualche cosa.  

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