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Politica e Nichilismo

 

di Massimo Donà

 

 

Ateniese – E che ? Dovremmo forse pensare che la norma che regola i rapporti fra famiglia e famiglia in un villaggio e quella che regola i rapporti di ogni singolo uomo col suo simile sia la stessa ?

Clinia – Esattamente la stessa.

Ateniese – E ciascuno nei riguardi di se stesso va forse considerato come un nemico contro un nemico, o che altro ?

Clinia – Ospite ateniese, col tuo ridurre all’essenziale il discorso l’hai senz’altro reso più chiaro, cosicché anche tu potrai facilmente renderti conto che or ora si è parlato rettamente, quando si sosteneva che nella dimensione politica tutti sono nemici di tutti e in quella privata ciascuno è in conflitto con sé.

Platone, Leggi, 626 C/D

1)  Se è vero che il nichilismo ha a che fare con la convinzione relativa alla possibilità che l’ente (ossia: ‘il positivo’) non sia, è altrettanto vero che la medesima convinzione è resa possibile da un originario intendimento dell’ente come qualcosa il cui ‘essere’ è semplicemente “connesso” a ciò di cui viene sempre e comunque predicato. Diciamo “semplicemente connesso” perché il ‘qualcosa’ e il suo ‘essere’ non sono da noi concepiti come identici; bensì come poli di una alterità che, in quanto strutturantesi secondo la forma della “relazione”, fa sì che il ‘qualcosa’ – in forza della predicazione suddetta, ossia dello strutturarsi della relazione in questione – possa appunto esistere... possa cioè offrirsi come ciò che, in quanto manifesto, in quanto in qualche modo ‘determinantesi’ così come di fatto si costituisce nel dire che la ‘significa’, sia per ciò stesso anche determinantesi come un che di ‘positivo’ (o anche: come un ‘positivamente esistente’).

Insomma, l’ente con cui abbiamo quotidianamente a che fare è un ciò che è solo in quanto strutturantesi (nel linguaggio che ne esprime il senso proprio) come determinata relazione tra un qualcosa e l’essere. Perciò stesso, va anche rilevato a questo punto, il ‘qualcosa’ appare ai nostri occhi come ciò che, per essere ciò che di fatto già è (nel momento stesso in cui si costituisce come tale nella significazione che sta appunto cercando di esprimerne il ‘senso’), ha bisogno di correlarsi ad una ‘positività’ che in quanto tale, d’altronde, non lo dice secondo la sua propria determinatezza, ma, più semplicemente, gli consente di  costituirsi conformemente a tale determinatio, ossia così come di fatto esso si costituisce. Come se l’essere non gli convenisse nella forma di una ‘proprietà’ determinata, ma piuttosto quale - peraltro non meno importante - condizione di possibilità, ossia nella forma di “condizione determinante”.

 

 

 

    Insomma, per la forma mentis di cui tutti noi siamo incessante e ostinata espressione, l’ente può costituirsi come il ‘diveniente’ – nel senso ontologico del termine (ossia come ente che, pur essendo, può non esser stato e potrà non-essere) – solo perché l’essere non è detto, sic et simpliciter, dalla sua determinatezza, ma è in qualche modo ‘altro’ da essa (come rilevava già Platone nel “Sofista”), e, certamente, la fa essere secondo il modo suo proprio (nel senso che ‘la rende possibile’, la rende ‘manifesta’), ma può per questo stesso motivo anche lasciarla al proprio destino, e segnarne così l’insuperabile contingenza o provvisorietà... dicendone per ciò stesso l’irrisolvibile “potenzialità”. Se l’ente può ‘non essere’ (nella forma del non esser ancora e del non esser più), è evidente, il suo esser in atto non può mai valere come il suo definitivo non-poter-essere-altrimenti (magari sancendone il non poter neppure non-esser-più).

   Insomma, se l’ente è sempre anche ‘potenziale’, l’apertura al proprio ‘non’ non dice, per esso, il suo semplice poter essere altrimenti (in relazione alla determinatezza che in esso e per esso esiste), ma, sempre, anche il suo poter esser quell’altro da sé che è l’essere-altro rispetto al proprio ‘essere’. Certo, perché il ‘non-essere’ indica innanzitutto l’essere altro rispetto all’essere (e non semplicemente rispetto alla determinatezza in questione); ma – va anche rilevato -, in quanto la determinatezza sia anche un positivamente esistente (in forza di quella condizione determinante che è appunto ‘l’essere’, di fatto qui ed ora connesso alla determinatezza in questione), l’essere altro dalla determinatezza dice sempre anche l’esser altro rispetto al suo “esistere” (così come di fatto ‘esiste’).

 

 

 

 

2)  Come non riconoscere, infatti, che il suo semplice farsi diversamente determinato (senza che per ciò venga messa in questione la sua positività) implica sempre per l’ente il negare anche la propria semplice positività ? Se non altro in quanto la sua nuova determinatezza implica necessariamente che quella precedente non sia più.

     Certo, di quell’ente si dice che ‘continua ad esistere’, ma il soggetto di tale esistere nulla ha a che fare con la determinatezza precedente - ormai non più predicabile dell’ente in questione (in quanto diversamente determinato, per l’appunto) -, ma solamente con qualcosa che nessuna delle sue sempre diverse determinatezze può esaurire in se stessa. Si dirà, dunque, che tale soggetto ha a che fare con il semplice essere, quello che continua a consentirci di attestarne l’esistenza, per l’appunto.

      Certo, perché solo l’essere sembra continuare ad essere, nel mutare delle determinazioni che fanno dell’ente appunto un “diveniente”... nessuna delle sue determinazioni potendo davvero in qualche modo permanere. Ma, va anche rilevato: non è forse questo stesso permanere dell’essere (quello stesso per cui si può dire che questo o quell’ente – il medesimo che ‘diviene’ - permane, in qualche modo, come quello stesso di prima, quando sia comunque, più o meno radicalmente, mutato) a costituirsi come ciò che di volta in volta non è più connesso alle determinazioni ‘che erano’ ? E, se ciò fosse vero, non dovremmo anche riconoscere che, ogni volta, nel dileguarsi di questa o quella determinazione individuale, a dileguarsi (ossia, a non-esser-più) è per l’appunto quella identità trascendentale di tutte le determinazioni che, non essendo più, non può più fungere da ‘soggetto’ di nuove determinazioni predicative ?

      Ma, se neppure l’essere è mai quello ‘di prima’ – a rompersi, nel corso del divenire, sono infatti le relazioni tra l’essere e la determinatezza di volta in volta in questione (non a caso è di quest’ultima che, ogni volta, si deve dire che propriamente ‘non è’... ossia che può sempre anche non-essere) –, vedremo tra poco come si debba riconoscere che è solo nel non esser più del mondo in quanto tale che  si può fare in qualche modo esperienza del non esser più da parte della stessa ‘positività’ dell’ente, o meglio dell’essere della sua determinatezza ( di quell’essere che di volta in volta non è più quello che era, in quanto connesso alla determinazione che ora appunto non-è-più).

 

 

3)  Si tratta dunque di comprendere che denunciare la quintessenza nichilistica del pensiero che così concepisce le cose e la loro struttura originaria, significa rilevare come in questo medesimo orizzonte l’essere sia identificato al nulla non tanto per il fatto che di esso si ritenga evidente il suo poter sempre anche non essere, quanto per il fatto che, nel poter non essere da parte della determinatezza, quest’ultima venga intesa come ciò il cui non-essere (o meglio, il cui poter non-essere) implica il non essere (o, anche qui, il poter non-essere) del mondo in toto. Ma, ciò può essere detto anche per un altro motivo.

       Ci si chieda: come sarebbe possibile negare che è solo l’esserci di una certa determinazione a rendere possibile  tutto ciò che questa stessa determinazione per l’appunto non-è (ossia tutte le altre determinazioni, che nell’apparire da parte di ‘questa’, appaiono come sue costituenti originarie ed imprescindibili) ?  

      Solo se A (stia “A” per “una certa determinazione”) esiste, infatti, un universo di determinazioni (tutto ciò che qui ed ora ‘determina A’) va a costituire la specifica questità di A, ossia dice che nell’apparire di A ad apparire è sempre e comunque ‘un mondo’. L’essere così e così determinato da parte di A è d’altro canto il suo stesso costituirsi sempre e comunque come apparire di NON-A;

 

ossia come A-B-C-D ... all’infinito. La determinatezza di A è in questo senso l’apparire, in uno, di ciò da cui A è fatto così e così determinato. Perciò, solo se A è, il mondo è; ossia un universo di determinanti possono essere come ciò che fa di A un esistente, ossia un ente così e così significante (e quindi ‘determinato). Insomma, è lo stesso essere di A, ossia il suo positivo esistere, a dire, in quanto tale, l’esserci di altre infinite determinazioni (ognuna delle quali è fatta esistente dalla totalità di ciò che essa non è).

    Per questo, se A non è, nulla esiste come suo determinante, e quindi nulla “di permanente” può fare da sfondo al singolo mutare di una certa determinazione, e quindi dello stesso A, o anche, di ciò che nell’esistere di A viene di fatto ad esistere... vale a dire “il suo essere”. Dunque, neppure l’essere è, proprio perché nessuna permanenza determinata può essere esperita come mondo che accolga il divenire di questa o quella determinazione (come mondo che continui ad essere come era prima, quando “A era”).

 

 

4)  D’altro canto, è importante riconoscere che il ‘permanente’ deve sempre avere anche quella forma determinata che non dice mai il semplice ‘essere’, ma sempre e comunque il costituirsi di un mondo che in qualche modo venga vissuto come la scena immutabile al cui interno, solamente, possono darsi questo o quel divenire individuale (pur non essendo tale scena mai davvero immutabile, perché, nell’andare a verificare cosa in essa rimane sempre uguale, non troveremmo nessuna delle sue determinazioni come realmente lasciata intatta dal divenire di una qualsiasi altra... l’immutabilità essendo cioè sempre determinata solo come ‘totalità’ del mondo, ossia come ciò che mai ha questa o quella forma determinata, pur essendo sempre esperita come tale, nella sua perfetta determinatezza – ossia in quella aporetica determinatezza che dice appunto il suo farsi reale esperibilità del perfettamente incondizionato).

 

 

 5)  Riassumendo: il nichilismo esprime una convinzione – quella relativa alla possibilità del non essere dell’ente, in forza della quale è il mondo stesso, in quando tale, a costituirsi come vero soggetto di tale possibilità.  Come dire che per il nichilismo l’ente può non essere – ma sempre, ogni volta, come non essere della totalità dell’esistente. Per il nichilismo, dunque, il potersi determinare ‘diversamente’ – da come è di fatto determinato –, da parte dell’ente, è lo stesso poter non essere dell’essere... anzi è lo stesso non essere mai da parte dell’essere, stante l’incessante mutamento di ogni determinatezza.

    Insomma, se è vero che

a) lì dove A è, ad apparire è quel NON-A che ogni A comunque ‘è’ (essendo per ciò stesso anche B, D, ...) – stante che ogni negazione si dà solo nella misura in cui si costituisca realiter ciò di cui la negazione è negazione -; e (come abbiamo già visto) che

b) l’esserci di A dice che A è perfettamente indistinguibile da NON-A (se non altro in quanto l’apparire del qualcosa dice appunto l’apparire di tutto ciò che rende possibile il determinarsi come ‘A’ da parte di A), ossia che

c)  l’esserci di A implica che: “A = NON-A”,

 

 allora dobbiamo riconoscere che, ad essere, in questa prospettiva, sono sempre, nell’apparire di A, tanto A, quanto B, quanto C.....(in indefinitum), sempre,  in ogni forma manifestativa determinata.

       Certo, passando all’ipotesi opposta, resta da chiedersi: se A non è, cosa

 

accade ?

     Si diceva: se A non è, è il mondo stesso a non essere.  Se a non-essere è il determinato in questione, ciò significa che nessun determinante si costituisce (come ciò che, solamente, potrebbe rendere determinato il determinato), ossia che nulla esiste.

    Ma un A che non si determini, non è in alcun modo definibile nel rapporto che sempre e solamente può costituirlo. Ossia non è definibile nel rapporto con un NON-A valevole quale presenza dei diversi di cui sempre è fatto il mondo.

    Insomma, se A non si determina, esso non può dire l’apparire di NON-A, ossia di un mondo; e allora, solo in questo caso, davvero, “A - molto più semplicemente – non è NON-A”. Da ciò il principium firmissimum (equivalente, dunque - con buona pace di E. Severino -, all’absurdum costituito dall’acchinilimento universale !).

   “A non è NON-A”, insomma, solo lì dove A non si costituisce nella sua propria determinatezza – lì, e solo lì A si esaurisce nel proprio indeterminatissimo esser se stesso (A = A). Se A non è, nessun divenire può dunque apparire, ché in tal caso, davvero, A è sempre e solamente A.

     D’altro canto, se l’ipotesi secondo cui “A potrebbe anche non essere” non esprime neppure essa la concezione che vede il divenire dell’ente come forma originaria del manifesto, e se, certo, il divenire, per potersi costituire, richiede dunque che “A sia”, il divenire si A non dipende dal suo semplice poter non essere - stante che quest’ultimo non implica il fatto che esso possa divenire, ma piuttosto che il mondo possa davvero cessare di esistere. Insomma, nessun divenire (come divenire di questo o quell’ente) può costituirsi sullo sfondo di una scena davvero permanente.

     Dunque: se A è, e dunque può non essere (come ritiene appunto il nichilismo), il  “poter non essere” non dice il suo (di A) divenire, ma piuttosto il poter non essere più (definitivamente) da parte del mondo. Se invece A non è, nulla può accadere – ché, di fatto,  nulla è.

 

 

6)  E poi, l’ipotesi relativa al poter mutare da parte dell’ente, la convinzione relativa all’esistenza del divenire, o anche, la persuasione della sua evidenza, dicono sempre e comunque l’impossibile anche perché nulla può costituirsi davvero come mutevole sullo sfondo di un non mutevole – il cui permanere, solamente, potrebbe consentirci di riconoscere il mutamento di ciò di cui si vorrebbe appunto dire l’esser sempre diverso da sé. E d’altro canto, la possibilità dello sfondo immutabile implica che nello stesso ente, di cui si voglia dire l’esser-diveniente, riesca a costituirsi qualcosa di permanente, analogamente a quanto va detto appunto dello sfondo (rispetto a cui riconoscere l’esser diveniente del diveniente) – ossia, che in esso permanga ciò che ci consente di dire che ad esser divenuto ‘da questo, quello’ è sempre lo stesso ente, ossia qualcosa che è anche non mutevole.

 

 

 

 

7)  Cominciamo a trarre le prime conseguenze di questa serie di ragionamenti. Innanzitutto, ogni convinzione o decisione pratica ha a che fare – proprio per quanto detto sino a questo momento – con la persuasione relativa alla possibilità che l’essere, in quanto comunque distinto dalla determinatezza (di cui si dice l’essere), possa convenire a quest’ultima senza peraltro esservi ‘necessariamente’ e ‘ultimativamente’ connesso. Per agire, infatti, dobbiamo credere che ‘qualcosa’ – magari ciò su cui intendiamo in qualche modo intervenire – si disponga davvero alla possibilità che altre determinazioni prendano il suo posto, ossia alla possibilità di non essere più ciò che era da parte del qualcosa in questione, e quindi al suo poter non-esser-più, simpliciter. Il diventar altro implicando sempre il non esser più da parte di ciò che prima ‘era’ – e quindi il non esser più del mondo in quanto tale (A,B,C...). Perciò “agire” significa rapportarsi al mondo rivolgendosi alla possibilità del suo non esser davvero più, per sempre. Ogni forma del fare guarda quindi a quel non esser più da parte della determinazione di volta in volta in questione che è il non esser più del mondo. Di quel mondo che appariva appunto con la determinazione messa al bando dall’intervento pratico.

      Perciò io agisco solo nella misura in cui intendo rovesciare il mondo – ché la nuova determinazione da me prodotta sarà per l’appunto identica al manifestarsi di un mondo totalmente ‘altro’ rispetto a quello che prima era il mio mondo.

     Ma anche qui – come percepire l’esser totalmente diverso da parte del mondo sopraggiungente, se nulla può rimanere identico a quanto prima si diceva esistere come parte del mondo ? Se nulla permane – ché il mondo venutosi a costituire è tutt’altro –, da dove la possibilità di riconoscere comunque, in tale assoluta novitas, l’apparire  di un-mondo ?

    L’esser comunque ancora, nonostante tutto, “un mondo”, da parte del ‘nuovo’, dovrebbe infatti consentire di rilevare perlomeno il permanere dell’esser mondo, in tale trasformazione radicale della mondità.  Ma nessuna permanenza può essere rilevata, se, nel non essere più da parte di una certa determinazione, a non esser più è addirittura il mondo che essa rendeva manifesto.

    Perciò, agire significa davvero votarsi all’impossibile – ossia alla possibilità che qualcosa permanga dopo l’atto di trasformazione da me compiuto. Io penso di poter strappare questa o quella determinazione dalla sua propria mondità, ed istituire nuove relazioni fenomeniche, ma non mi rendo conto che ad esser da me strappata sarebbe sempre e comunque la mondità in quanto tale (strappata appunto dal suo semplice ‘esistere’).

 

 

8)  In questo senso diventa quanto mai interessante, ora, comprendere le reali condizioni di possibilità di quella forma specifica dell’agire che è appunto l’agire ‘politico’. E non tanto per una sorta di generica curiositas intellectualis, quanto per il fatto che è proprio in questa forma specifica del fare che può apparire la reale “necessità” di un agire rivolto all’impossibile.

     Ma, procediamo con ordine. Innanzitutto, si consideri il fatto che ogni forma dell’agire, anche solo per potersi costituire in quanto tale, presuppone che l’oggetto dell’azione venga inteso come originariamente svincolato dall’ordo universalis - non basta insomma rilevare (così facevano invece Giordano Bruno e il grande pensiero rinascimentale) come ogni intenzione pratica debba fare i conti con un ordine necessario all’interno del quale ci si può inserire solo a condizione di saperne assecondare le leggi e i dettati ontologico-strutturali (come dire che “non tutto può essere fatto, ma solo ciò che la verità del kosmos realmente consente”.... da cui la necessità di una conoscenza del micro e del macrocosmo, tale da rendere il nostro agire qualificabile come ‘azione magica’, rinviante cioè ad una conoscenza epistemica delle ‘relazioni’ universali, comunque fondate su quel modello analogico messo così ben a fuoco dalle analisi foucoultiane di “Le parole e le cose”)

     Perché si possa agire è necessario che il mondo ci si riveli come originariamente costituito da enti le cui relazioni siano irrisolubilmente ‘contingenti’.

 

Io devo credere, cioè, che, modificando la collocazione di A, e dunque il suo rapporto con B, C, D...., ottengo una nuova disposizione che non intacca affatto qualcosa come un “ordine irremovibile” – d’altro canto, se l’ordine fosse davvero irremovibile, A non potrebbe apparirci come “modificabile” - stante l’impossibilità di modificare A senza modificare la totalità delle relazioni che lo costituivano come così e così determinato. L’ordine deve apparirci come originariamente contingente. E ciò significa che devono apparirci contingenti, per ciò stesso, tutte le singole relazioni che ora rendono possibile la specifica configurazione di A. O anche: che esse (la totalità delle relazioni in questione) devono apparirci come ciò che sarebbe potuto essere altrimenti. Ossia, come ciò che sarebbe potuto non essere.

     Il mondo in toto deve apparirci come ciò che “sarebbe potuto non essere”; e dunque esso ci consente di agire per il semplice fatto che ci appare - in quanto oggetto dell’intenzionalità pratica - nella prospettiva del suo assoluto non essere (ché è appunto proprio questo mondo - quello che, pur essendo potuto essere, comunque non-è - che noi tutti, ogni volta che ci disponiamo ad agire, riteniamo sia possibile condurre all’essere). L’agire non è rivolto, parlando in senso proprio, al mondo ‘che-è’; ma, piuttosto, al mondo che non è, e che purtuttavia potrebbe appunto essere. Ogni agire presuppone la convinzione di poter creare ex nihilo - ossia la convinzione di essere divini. L’agire pratico, insomma, ossia l’agire inteso come agire ‘poietico’ o ‘tecnico’ - per usare una terminologia rigorosamente aristotelica -, comporta la convinzione di poter ri-creare ogni volta, il mondo intero a partire dal suo nulla.

     E l’agire ‘politico’ o ‘pratico’ (sempre per stare alla terminologia aristotelica) ? Quali i suoi presupposti ?

    A differenza dell’agire volto alla produzione di oggetti e di mondi ogni volta irrelazionati ai precedenti (da cui il suo non inscriversi nell’orizzonte definito dalla persuasione secondo cui ‘il divenire esisterebbe’... anzi sarebbe il massimamente evidente, ossia qualcosa di “senz’altro possibile” - se c’è, deve ‘poter essere’), l’agire più propriamente politico non vuole tanto far essere il non-essente, quanto ricondurre l’essente alla sua originaria ‘impossibilità’.

     Questo, ciò che ora ci proponiamo di mostrare.

 

 

 

9)  Se è vero che la polis nasce in Grecia come determinazione sociale e comunitaria fondata sul sacro radicamento in una terra comunque abitata dalle forme della divinità, è anche vero - e tutti lo sappiamo ormai - che con la modernità è apparso con lucida chiarezza come l’ordinamento sociale in quanto tale sia sempre e comunque un ‘artificio’ - fondato sì su una necessità, ma tale da costituirsi ormai come semplice necessità della ‘convivenza’. Ossia su una necessità che equivale ormai alla più pura fattualità - essendo essa riconducibile al puro factum del nostro preferire l’esistere piuttosto che il non esistere.

     Stiano anche così le cose..., si seguano comunque le seguenti considerazioni.

     Cos’è il Sacro, se non il nome che gli umani hanno sempre dato (sia pur in forme ogni volta diverse) al ‘factum’ originariamente costituente la nostra esistenza in termini appunto di ek-sistenza, ossia di esistenza mai voluta o scelta, e dunque necessariamente riconducibile al mistero di tutti i misteri, ossia alla nostra originaria “presupposizionalità” ? Ossia al nostro essere costituiti in forza di un Altro che non ci sta di contro, ma che sentiamo ricostituirsi ogni volta che riteniamo di poterci assumere la responsabilità delle nostre azioni, e fatalmente

 

ci ritroviamo invece a dover riconoscere di non poter ricondurre “solamente-a-noi” la loro specifica ‘decisione’. Schopenhauer (ma non solo lui) ha mostrato molto bene come nessuno possa non volere ciò che vuole (e conseguentemente ‘non decidere ciò che di volta in volta decide’ - se la decisione è comunque lo specifico determinarsi della volontà più potente).

     Insomma, ogni scelta, ogni decisione, anche quella in cui a concretarsi è la nostra stessa esistenza, sono espressione di una originaria lacerazione - quella tra me e l’Altro da me (quell’Altro da me che sono innanzitutto io stesso nei confronti di me stesso). Anche la scelta di continuare ad esistere, dunque.

     Anche la fattualità che starebbe all’origine della forma politica costituitasi nella modernità è dunque espressione del nostro quintessenziale aver a che fare con Il Sacro - ossia con la  sacra radice di ogni esistenza.

     Ma, cosa può dirci, ancora, l’inestirpabilità di tale radicamento ?

     Una cosa, sicuramente: che ogni forma di co-esistenza, nel suo stesso costitutivo ‘estendere’ orizzontalmente la forma presupposizionistica propria di ogni ek-sistenza  - ossia nel fare del rapporto con l’Altro un rapporto ‘con-altri’ -, rende esperibile e ‘reale’, per dir così, ciò che altrimenti non potrebbe che essere ‘patito’ nel retloflettersi di una insopprimibile ‘nostalgia’ (rivolta verso una Potenza originaria ed irrimediabilmente perduta).  

      Ossia, lo rende ‘progettualmente determinabile’, dicendolo appunto in quella forma ‘oggettivata’ che è comunque ‘vera’ se non altro in quanto l’altro dice qui la vera contraddizione originaria (quella che nessun nichilismo ha mai saputo pensare, e che, proprio in quanto non adeguatamente pensata, ha fatto della stessa esperienza del divenire una semplice ed astratta impossibilità): l’esser da parte di ogni determinazione (ossia di ogni A) perfettamente identica al proprio negativum (NON-A), e quindi anche da parte di ciò che patiamo, il suo esser sempre e concretamente anche agito da noi. L’altro empiricamente determinato è infatti ciò su cui io, nel momento stesso in cui lo patisco, sempre anche “agisco”.

    In questo  senso l’azione politica assume tutta la sua verità in quanto manifestantesi come possibilità, per tutti noi, di fare dell’impossibile (ossia del ‘divenire’) la condizione del non esser mai ciò che si è - quello stesso in cui ogni realtà si dice per quel che essa può veramente dire di se stessa.

 

 

10)  Il fatto è che l’agire politico non può fare a meno di costituirsi come un agire in forza del quale gli uomini intendono normare i rapporti di forza di ognuno nei confronti di ogni altro, e dunque stabilire un ordine gerarchico di là dal quale si sarebbe continuamente esposti al pericolo del non esser più. Insomma, se si dà agire-politico, ciò accade perché il mondo non sia incessantemente esposto all’esperienza dell’inizio... anche perché l’inizio così ricostituentesi non potrebbe garantire (per quanto già detto) neppure il suo configurarsi come inizio del mondo (dovendo, il nuovo ‘mondo’ così prospettantesi, perlomeno continuare a configurarsi come un ‘mondo’... ma, a ciò conseguirebbe il costituirsi di una permanenza che la possibilità del non esser più rende risolutamente improbabile, o meglio ‘impossibile’).

     L’agire politico, dunque, come condizione di possibilità di un nomos capace di garantire - nei limiti del possibile - quella permanenza che, non potendo fare da sfondo al divenire (quello stesso da cui essa sarebbe appunto resa impossibile), va intesa appunto come il permanere di un rapporto con gli “altri” grazie al quale il divenire stesso possa andare a configurarsi non tanto come ragione dell’esser sempre nuovo da parte di ciò che è, quanto come forma determinata

 

ed adeguata del mostrarsi da parte di ciò che già ‘non era’ (quando era), o di ciò che già era (quando non era).

     Cosa significa infatti dare forma ‘regolata’, secondo ordini gerarchici di questo o quel tipo, all’esistente, se non fare in modo che ogni elemento del complesso sociale possa esperire l’altro non come semplice condizione ‘determinante’ la propria identità (che sarebbe già qualcosa, pur non essendo sufficiente a far comprendere che l’altro non è solo ciò di cui ognuno ‘ha bisogno’, appunto quale sua ‘condizione di possibilità’, ma soprattutto ciò che ognuno è già in se stesso, in quanto ek-sistente sempre nell’originario configurarsi dell’alterità rispetto a sé... ossia rispetto a ciò che di se stesso ognuno può appunto rendere ‘ragione’), quanto piuttosto come orizzonte costitutivo della propria più intima egoità ?

     Perché, solo nel ‘rispetto’ della regola sociale (che, certamente, può sempre venire anche infranta - e vedremo tra poco le conseguenze di tale ‘possibilità’), ad ognuno è consentito fare di ogni propria azione qualcosa che è sempre anche ‘degli altri’. Solo nella ‘regola’, o meglio nella conformità alla sua disposizione, ciò che io faccio assume, di fronte allo sguardo dell’altro, un senso davvero comune. E’ nella regola, infatti, che il fare di ognuno, lungi dal risolversi nell’assolutamente nuovo (ossia in ciò che renderebbe il senso del mio fare sempre inevitabilmente ‘catastrofico’, per l’altro, ma anche per me stesso... e proprio per ciò intollerabile, ossia “impolitico”), si predispone alla forma che solo un tertium (il nomos, per l’appunto) può realmente ‘rappresentare’, in quanto specchio di quella negazione in cui ognuno sempre (che lo sappia o meno) si costituisce per quel che è.

     D’altro canto, la stessa possibilità cui sempre la regola anche si dispone - ossia la sua ‘negazione’ - è la riprova del fatto che dal nomos non è davvero possibile in alcun modo uscire, perlomeno là dove si sappia viverlo ‘secondo verità’.

    Infatti, che questa o quella regola possano esser negate (come di fatto è sempre accaduto nella storia), dice innanzitutto che nessun ‘comune’ può essere inteso come determinatamente “assoluto”. Il nomos, in quanto elemento unificante le differenze, dice infatti quell’identità (quella ‘vera’, quella che mai può tornare a farsi uno tra i differenti) la cui peraltro inevitabile ‘determinazione’ deve sempre essere vissuta come negabile, perché già in se stessa negantesi. Se essa dice l’identità dei diversi, il suo non poter fare a meno di determinarsi va inteso come ciò che ad essa stessa è necessario solo nella misura in cui le consente di essere concepita come ‘negazione di ogni determinazione’. Infatti, là dove essa negasse solo le determinazioni da essa identificate, impedirebbe l’esperibilità del “vero” proprio di ogni esistente, perché lascerebbe ognuno di fronte alla negazione astratta di se stesso... quella destinata a manifestarsi sempre e comunque come pre-potenza dell’altro, quale unica esperibile, perché determinata, oggettivazione del mio esse-negato. Se invece essa nega anche la propria perfetta ‘indeterminatezza’, solo allora, ossia nel suo farsi originariamente determinata (come questa o quella forma specifica e storicamente determinata del nomos) - ma determinata in modo tale da presentarsi sempre e comunque come ‘violabile’, ossia come ciò il cui poter-essere-altrimenti esprime, nel suo stesso concretizzarsi, il reale già esser altra da ciò che è (ossia il suo esser sempre perfettamente affermata proprio lì dove il poter-esser-altrimenti si determina nello specifico esser-altro fattualmente concretizzatosi in questa o quella epoca appunto come altra ‘forma politica’) -, essa fa dell’altro da me il polo di un rapporto ‘triangolare’ rinviante in indefinitum ad un ‘terzo’ mai ‘definitivo’, proprio perché sempre ‘vero’... ossia perché mai costituentesi come semplicemente

 

identico a sé, ma sempre e solamente come identico ai differenti da esso stesso identificati.

    Da ciò la possibilità di fare del divenire - ossia, nello specifico, dell’esser sempre diverse da parte delle forme politiche realizzantisi nel corso della storia - la prova più evidente del fatto che nessun nomos riesce mai a dire “il nomos”, proprio perché sempre il medesimo si ri-dice, e dunque differenzia sé da ogni sua determinata ek-sistenza, e così facendo si dice ‘perfettamente’ ogni volta come veramente identico a sé. Essendo il veramente ‘identico’ a sé sempre e solamente ciò che riesce a mostrare di non essere ciò che è; o, che è lo stesso, di essere sempre e solamente ciò che esso stesso mai di fatto è.  

    

 

11)  Davvero, dunque, la necessità del ‘politico’ è la stessa necessità, per l’identico, di essere nomos perfettamente ‘violabile’ e ri-determinabile dell’umana ‘convivenza’’. E, solo da questo punto di vista, del tutto inutili, o comunque radicalmente ‘deboli’, possono apparire quei tentativi di far dipendere la krisis del ‘politico’ dall’avvento del ‘nichilismo’, ossia di quell’epoca che avrebbe sancito la definitiva impossibilità di ogni fondamento, di ogni ‘punto fermo’, di ogni valore stabile.

    In verità nessun punto fermo, nessun valore stabile, è mai apparso nella storia, se non quello, unico, costituito dalla vera “identità” - che non è ‘un’ punto, ‘un’ valore, ma il sempre perfettamente ri-dicentesi in ogni valore, in ogni nomos.

    Se nichilismo allude dunque a qualcosa come una krisis, allude a ciò che ha le sue ragioni (e solamente può averle) in ciò di cui ogni esistenza è fedelissima testimonianza - e che non è un evento storico, bensì l’evento che in ogni storia sempre si ripete; e che, solo, fa dell’originaria ni-entità di ogni ente non tanto la sempre riproponentesi possibilità della ‘fine di tutto’, quanto la sempre riconfermantesi verità secondo cui ogni dispiegamento ‘cronologico’ è reale solo nella misura in cui si afferma per negarsi - ossia si nega nel perpetuo suo stesso affermarsi. E dunque allude a qualcosa che  ha nel ‘politico’ la realizzazione più perfetta della propria verità; quella stessa che nessun’altra forma del fare (né quello tecnico, né quello artistico...) riesce né può manifestare con altrettanta ‘chiarezza’. Ché, ognuna di queste altre forme fabbrili, al contrario, la manifesta sì - nulla potendo non manifestarla -, ma nella forma di una, certo non meno ‘interessante’ (di cui ci piacerebbe proprio per ciò poter far vedere le conseguenze... ma non è questo il luogo), eppur strutturalmente irrisolvibile ambiguità.

 

 

 

 

12)

(IN DIALOGO CON R. ESPOSITO)

 

     Certo, una tale determinazione del “politico” sembra rinviare a ciò che già Roberto Esposito tematizzava dando volto alla importante figura dell’impolitico. Anche nel suo bellissimo volume “Le categorie dell’impolitico” (il Mulino), infatti, si alludeva all’impossibilità, per l’impolitico, di ‘criticare’ il presente in nome di un diverso ideale, valore o tempo storico, magari originario ed incontaminato (come era sempre accaduto a tutte le filosofie europee della crisi) - destinato comunque a rovesciarsi, sic et simpliciter, nella forma di un poi inteso come futuro necessario, da proiettarsi appunto quale agognata condizione di un possibile riscatto per l’umanità intera.

    

Anche nell’orizzonte dell’impolitico si sostiene dunque (perlomeno nelle parole di Esposito, che in questo senso intende portare alla massima coerenza alcune tracce già presenti in un certo numero di pensatori da lui analizzati con estrema lucidità), l’essere già scissa da sé, da parte dell’origine in quanto tale. Allo stesso modo, anche noi ci siamo appunto riferiti a quel rapporto con il Sacro (eterno presupposto di ogni cominciamento determinato - origine assoluta di tutto), di cui ogni relazione politica sarebbe perfetta “rappresentazione”.

    Ma, l’impolitico, inteso come “impossibilità del politico”, si esprime, sempre (secondo l’ottica fatta propria da Esposito), anche come consapevolezza del fatto che, se non esiste soggetto di antipotere, è anche vero, comunque, che il soggetto è già costitutivamente potere; e dunque ad esso non si può in alcun modo delegare una qualche forma di determinazione positiva dell’impolitico... magari quale forma di determinazione perfettamente risolutiva delle aporie del “politico”.

     Perciò, d’altro canto, il lucidissimo ragionamento di Esposito conduce all’individuazione dell’unica forma possibile di esperienza della verità dell’impolitico: ossia quella disegnata già da Bataille, appunto, quale idea di una comunità in cui ci si “metterebbe in rapporto differenziandosi” (vera forma della con-divisione);... differenziandoci innanzitutto da noi stessi, ossia rendendo impossibile il “riconoscimento” tout court, e possibile, invece, del tutto paradossalmente, l’impossibilità-della-condivisione.

     Esposito individuava cioè, già in questa esperienza dell’impossibile, le parole della vera negazione - quella perfettamente atunegantesi, quella costituentesi cioè non solo come esperienza dell’impossibile, per l’appunto, ma, in primis, come impossibilità, per essa, di esperirsi in quanto tale... da ciò il suo finire per essere continuamente affermata da un “politico” che mai potrà scrollarsela di dosso (in quanto costituente la sua più propria verità).

      In tale orizzonte, solamente, i soggetti si saprebbero come effettivamente ‘finiti’, mortali, e perciò sempre ed inevitabilmente con-divisi gli uni dagli (e ‘negli’) altri.

     Così Esposito indicava appunto la quintessenza del “politico” - mostrandone per ciò stesso l’originario Ab-grund.

      Ma, stante il ragionamento svolto nelle pagine precedenti di questo nostro lavoro, una domanda può, o meglio, “deve” essere posta alla incisiva disamina di “Le categorie dell’impolitico”. Ossia, non è forse con quest’ultima definitivamente e veridicamente  istituita l’insuperabilità del “politico” ?

      E, soprattutto: nell’ipotesi di una risposta positiva alla nostra domanda, da dove la necessità di continuare ad insistere sulla “inessenzialità” del soggetto, quale forza intimamente connessa alle positive possibilità dell’agire, per ricondurre il medesimo ad una diversa declinazione. Riconcudendolo, così, ad un ‘patimento’ che dovrebbe, per il semplice suo ‘mettere in rapporto differenziando’, rompere la soggettività ?

      Perché, e da dove questa smania di rompere il soggetto (vero e proprio diabolus della filosofia post-metafisica), per proporre poi (come fa Bataille - a nostro parere eccessivamente valorizato dalle analisi di Esposito), quale conditio di tale operazione disgregante, una categoria quale quella della “messa in relazione per differenziazione” ?

     Quasi mai, neppure da Hegel, l’identità è stata intesa come qualcosa di ‘alternativo’ alla differenza; e neppure di semplicemente opposto a quest’ultima. Insomma, che ci si possa porre in relazione ‘differenziandosi’ è quanto già l’idealismo hegeliano mostrava molto bene, finendo comunque per fare dell’identità un ‘presupposto’ mai determinabile, se non nel palesarsi di un differire infini

 

tamente ricostituentesi (rinviamo, per un approfondimento di tale questione, al nostro precedente “Sull’assoluto”).

     Anche per Hegel, insomma, ben prima che per Bataille, il nostro vero ed unico relazionarci accade lì dove effettivamente ci distinguiamo e ci neghiamo reciprocamente - ma, proprio lì, e solo lì, agisce l’identità. Quell’identità che peraltro - e questo sembra davvero sfuggire a Bataille - ogni adeguato intendimento del ‘relazionarsi’ deve implicare.

     Perlomeno nella ‘relazione’ siamo identici ! Ossia lì dove ci neghiamo l’un l’altro, e per ciò ci determiniamo, e siamo i soggetti che siamo. Dove si costituisce, infatti, il soggetto, se non in quel relazionarsi che lo fa essere sempre e strutturalmente ‘ambiguo’, doppio, soggetto-e-oggetto “in uno” (ché, lì dove sono soggetto, io sono ciò che sono solo per un objectum che mi costituisce come tale, e che, in questo stesso suo determinarsi, mi fa ‘oggetto-per-lui’) ?

     D’altra parte, per sapermi ‘diverso’ dal mio altro, devo pur ‘comprendere’ tale alterità-differenziante come “mio significato”, come ciò che mi riguarda nell’intimo, come ciò che ri-conosco  (da ciò l’essenzialità della categoria del “riconoscimento”, al contrario di quanto suggerito da Bataille), ossia che conosco di nuovo come ciò che già mi costituisce in me stesso, e che, nell’altro determinato, vedo semplicemente riflesso. Nell’altro, per potermivisi differenziare, devo vedere me stesso - in ciò l’identità sempre ricostituentesi, e che sempre si dice “perfettamente” in ogni vera esperienza dell’alterità. E che ogni forma politica “rappresenta” - non rappresentandone l’impossibilità, ma piuttosto la radicale necessità, appunto attraverso l’istituzione di un nomos (il tertium datur) in cui ogni soggetto possa vedere la propria essenza originariamente comunitaria. Nell’unica forma in cui quest’ultima è possibile, e dunque reale: quella di una ‘legge’ che sempre pro-voca alla sua violazione, proprio nell’atto stesso del manifestarsi da parte della sua originaria ed inestirpabile sacralità.

     D’altro canto, come mostrare la propria identità, se non offrendosi ad un sacrificio da attuarsi nella violazione concreta e sacrilega della propria determinatezza storica (solo nella storia, Dio avrebbe potuto morire, e dunque, solo nella storia avrebbe potuto mostrare di non essere affatto ‘storico’). Come dire che, a morire, nella “croce” - vorremmo azzardare -, non è stato né l’uomo né Dio - ma la loro identità, o meglio, la determinazione di quest’ultima, ossia la determinazione del tertium fattosi Cristo. Solo così quest’ultimo sarebbe potuto risorgere, proprio come il nomos che sempre di nuovo, ogni volta che la storia sembra condurlo all’abisso (quante finis historiae sono state sinora preconizzate ?), risorge e si ricostituisce, esso sì, come il vero impossibile-esistente.

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