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Il contributo ebraico-islamico

all’identità culturale dell’Europa*

di Almut Sh. Bruckstein

 

 

I.

Vorrei sfruttare questa occasione per riflettere oggi insieme a voi e ai miei colleghi Nilüfer Göle, Tariq Ali e Andreas Zielcke, sul concetto di “Europa” da un’angolazione assai particolare. Su di un’Europa che include nelle sue definizioni di sé, e a caratteri cubitali, anche tradizioni di cultura cosmopolita ebraica e islamica, offrendo loro uno spazio pubblico in piena apertura e con grande ricchezza di stratificazioni. Le tradizioni di cultura enciclopedica ebraica e islamica hanno elaborato per secoli, in un serrato confronto con fonti ellenistiche, bizantine, persiane e altre ancora, un efficace programma d’azione cosmopolita in scienza e arte, filosofia e poesia. A partire dal X secolo queste tradizioni, soprattutto nell’area mediterranea di lingua araba – a Cordova in al-Andalus, ma anche a Fez, al Cairo e a Bagdad – conobbero una stagione di rigoglioso sviluppo che durò fino al XIII secolo, promuovendo l’affermarsi di posizioni illuministiche e di mediazione tra fede e ragione. La nascita dell’università nella Parigi europea del XIII secolo risente in modo diretto di tale stagione. Giustamente l’Europa odierna tiene molto alle proprie tradizioni di cultura enciclopedica. E giustamente l’Europa celebra le proprie tradizioni illuministiche francesi e tedesche del XVII e XVIII secolo. Con tutto ciò, tuttavia, i concetti di cultura enciclopedica, di universalità e di humanitas si devono essenzialmente, sino al Rinascimento europeo, all’ispirazione e all’apertura cosmopolita di gangli vitali quali, ad esempio, l’Alessandria d’Egitto ellenistica, i centri persiani di cultura preislamica, come Gondeshapur o Isfahan, l’interculturale Bagdad abasside dei secoli X-XII, la Cordova araba ebraico-islamica precedente alla Reconquista o, ancora, la Istanbul cosmopolita del XVI secolo. Luoghi di contatto fecondo tra le fonti letterarie e le tradizioni più diverse, tali centri estendevano il loro orizzonte culturale, tramite ramificate vie commerciali, sino alla Cina e all’India. Nonostante tutte le guerre e ben al di là dei confini della propria lingua e appartenenza etnica o religiosa. Questi luoghi di contatto fecondo hanno improntato di sé l’Europa in modo duraturo. Sembra quasi che qui sia stata rivendicata una cultura cosmopolita che ha ancora il suo futuro davanti a sé. Sulla scena della cultura umana l’Europa entra tardi. E tuttavia l’enorme influenza politico-culturale e ricchezza cosmopolita delle tradizioni carismatiche ebraico-ellenistica, bizantina, persiana, islamica, arabo-giudaica e ottomana sono scomparse quasi del tutto dalla memoria collettiva europea. Oggi, nell’Europa cristiana, quasi nessuno sa dell’esistenza di un cosmopolitismo ebraico e islamico classico. Si è verificata un’appropriazione violenta, anziché osmotica, espropriante, anziché riconoscente, che ha consegnato i grandi progetti politico-culturali delle fonti extra-cristiane quasi completamente all’oblio. Nelle università parigine del XIII secolo la citazione di fonti illuminate islamiche viene vietata sotto pena di morte. Il logos trinitario, e cioè il Cristo, deve recare in sé l’intera ragione dell’umanità e quasi non lascia in vita una ragione extra-cristiana. Il Rinascimento europeo, per la prima volta superiore all’Oriente in tecnica e scienza della natura, mette in cortocircuito il proprio ideale culturale con fonti bibliche, ellenistiche e scolastiche. Nelle menti dell’Europa ormai cristiana si afferma un diritto di supremazia sull’idea della humanitas – un processo coloniale che sostiene ancora in larga misura la coscienza dell’Europa liberale moderna. Dimentico di sé, relativamente alle fonti islamiche dell’Europa, il XIX secolo proietta all’esterno, sull’Oriente, la sua storia rimossa della propria civiltà araba di un tempo: l’Oriente diviene la superficie di proiezione extraeuropea dell’esoticamente estraneo, di sensualità e seduzione, ma anche di ciò che è crudele e primitivo. In modo analogo anche la tradizione ebraica si trova a essere superata dall’interno: l’Umanesimo biblico, la Riforma e la scienza biblica protestante del XIX secolo inchiodano una volta per tutte l’“ebraismo” all’“Antico Testamento”, con la conseguente scomparsa delle tradizioni rabbiniche che oppongono resistenza a un’operazione del genere, risultando inaddomesticabili. Gli universalisti persiani, arabo-giudaici e islamici, di certo non solo mediatori e traduttori di cultura ellenistica, ma autori in proprio di filosofia e poesia, si trovano ad essere in gran misura estromessi dalla genesi dell’Europa. Dopo la distruzione dell’islamica al-Andalus nel 1492 e la successiva “pulizia etnica” della penisola iberica da islamici ed ebrei, alla nuova Europa riesce di creare un’identità europea “pura”. Questo con le parole del mio collega Tariq Ali. Gli ideali classici di un sapere universale e di metodi che oltrepassino i confini di scienza e arte sono stati completamente assorbiti, dai tempi dell’Illuminismo europeo, nella costruzione narrativa delle radici “giudaico-greco-cristiane” dell’Europa. Noi qui vogliamo darci pensiero invece proprio del destino, della storia, così come delle ragioni del doloroso, duplice e triplice, scomparire e ammutolire delle tradizioni culturali universali ebraica e islamica, persiana, araba e ottomana. Il processo in questione è reciproco e si rispecchia in inquietanti sviluppi interni all’islam e all’ebraismo: oggi il mainstream ebraico e islamico aliena da sé e rinnega, per ragioni completamente diverse, proprio quelle stesse tradizioni universalistiche che l’Europa dai tempi dell’Illuminismo issa sui propri vessilli. Sia nel mondo ebraico sia in quello islamico non mancano donne e uomini che hanno il coraggio di pensare controcorrente, valorizzando le grandi tradizioni della propria cultura contro le ideologie nazionali e religiose dominanti. Ciò che noi vorremmo fare qui oggi è riflettere insieme e pubblicamente sull’eminente significato politico che potrebbe avere una rinascita di queste specifiche tradizioni culturali, per ricomporre l’odierna lacerazione geopolitica tra Est e Ovest. Una liaison tra tradizioni intellettuali ebraiche e islamiche che avesse pubblica visibilità porterebbe quantomeno, nello specifico, a scardinare l’attuale guerra. La speranza è che l’Europa possa offrirsi come luogo aperto e autocritico per una liaison cosmopolita da cui è stata essa stessa un tempo forgiata. Già solo che per le restrizioni dei visti d’ingresso, tanto all’Est quanto all’Ovest, una tale liaison pubblica tra ebrei e islamici è oggi concepibile soltanto in pochi luoghi della terra. In diverse parti dello stesso mondo occidentale è difficilmente immaginabile una discussione aperta tra intellettuali ebrei e, ad esempio, iraniani, siriani, palestinesi o pakistani. Il primo workshop internazionale del grande progetto islamico-ebraico sorto presso il Wissenschaftskolleg di Berlino lo abbiamo organizzato a Istanbul. Istanbul, Berlino, Amsterdam, Parigi, Budapest: tutte città nel cuore dell’antica cultura europea, luoghi aperti da cui un giorno – contro ogni storiografia dell’orgogliosa rivendicazione collettiva per sé – potrà partire l’invito a un nuovo oltrepassamento cosmopolitico dei confini. Europa, sulla scena politica mondiale, come alternativa consapevole ai principi dell’identità territoriale, nazionale o etnica.

 

II.

Al più tardi dall’assassinio di Itzhak Rabin, alcuni di noi, docenti israeliani presso l’Università Ebraica di Gerusalemme o presso altre università in Israele, compresero che in Israele un pensiero controcorrente rispetto all’ideologia nazionale dello Stato, se promosso nel segno dell’ebraismo, non ha efficacia. È possibile proporre una efficace storia alternativa rispetto al grande racconto sionista servendosi della scolastica cristiana, della filosofia araba, della storia dell’arte europea o anche della letteratura tedesca – ed è quanto i ‘nuovi storici’ fanno in Israele da circa vent’anni. Questo non è possibile però con la filosofia ebraica. La filosofia ebraica – in realtà la più universale tra quelle scienze ebraiche che ritenevano di aver trovato in Maimonide, Kant, Marx e Freud dei classici garanti per la loro idea antinazionale di umanità – ammutolisce schiacciata da una ragion di Stato che trasforma tutti costoro in anticipatori in senso nazionale dell’indipendenza israeliana. In uno Stato ebraico le tradizioni cosmopolite cadono necessariamente preda dell’elemento nazionale. La splendida frase di Saadya Gaon, per cui nostra patria sarebbe la Torah – eyn ummatenu ela betoratenu – o la dichiarazione di Walter Benjamin, che riteneva sua patria la propria biblioteca, vengono così sostituite dall’affermazione locale di un focolare domestico fatto di popolo e di terra. La stessa letteratura ebraica si trasforma così necessariamente in una sorta di “territorio occupato”. Non è più possibile scioglierla dall’ideologia nazionale. All’interno del mondo ebraico, da mezzo secolo in qua, la fedeltà allo Stato è assurta a virtù ebraica suprema. Come un tempo lo erano la questione della humanitas o della giustizia universale o del socialismo o della pace – così oggi la professione di fede nello Stato ebraico è l’unico denominatore comune ufficiale di identità ebraiche altrimenti del tutto divergenti. Il fascismo europeo ha posto fine due volte al carattere sovversivo di “arte e scienza ebraiche”. Una prima volta attraverso il genocidio degli ebrei europei da parte dei nazisti. Ma poi anche, per quanto ciò possa suonare paradossale, attraverso la liaison, intrisa di colpa, tra storia post-bellica euro-tedesca e storia nazional-coloniale di Israele in Medio Oriente. In altre parole: l’ideale ebraico di una cultura cosmopolita non è sopravvissuto alla shoah in un duplice senso, né all’interno né all’esterno del neo-fondato Stato d’Israele. Tutt’al più in quanto cultura del ricordo, anzi come documentazione storica in opere come quelle di un Aby Warburg o di un Ernst Cassirer o di un Franz Rosenzweig – tutti cosmopoliti che, se si prende sul serio il loro antinazionalismo, sono diventati dei meri memento di una diaspora ebraica ormai politicamente obsoleta. E, come essi, noi, venuti dopo, un pugno di intellettuali cui stanno a cuore le tradizioni di una cultura ebraica aperta, sentiamo la tradizione ebraica come tradita e venduta in nome della mera ragion di Stato. Dal punto di vista puramente politico si è finalmente levata, tanto in Israele quanto nella diaspora, una voce ebraica apertamente critica che protesta anche in nome di valori ebraici contro la violenza militare; penso ad esempio a “Jewish Voice for Peace” negli Stati Uniti, all’organizzazione internazionale europea “European Jews for a Just Peace” o al “Campo della pace ebraico” recentemente costituitosi in Italia, ma anche a “Independent Jewish Voices”, che in Gran Bretagna ha appena rilasciato la propria prima dichiarazione alla stampa. Il vitale metodo cosmopolita di un’avanguardia intellettuale e artistica ebraica capace di scavalcare i confini e di agire in senso non nazionale non è però sopravvissuto, come fenomeno collettivo, alla shoah.

    Io stessa, immigrata in Israele dagli Stati Uniti nel corso degli anni Ottanta e poi docente di filosofia ebraica all’Università Ebraica di Gerusalemme negli anni Novanta, mi sono resa conto soltanto dopo l’assassinio di Rabin nel 1995 quanto essenziale sia – anche per Israele stesso – che il mondo ebraico si volga nuovamente alle proprie tradizioni culturali classiche. Tra Gerusalemme e Berlino, nel 2001 ho fondato a Berlino una piccola “officina” ebraico-islamica di “filosofia e arte”: ha'atelier - werkstatt für philosophie und kunst, che attraverso le arti figurative e le letterature tradizionali tenta di promuovere nuovamente la formazione di un’avanguardia culturale basata sulle fonti ebraiche e islamiche, e di introdurla nella dimensione pubblica. In collaborazione con il Wissenschaftskolleg di Berlino, inoltre, lo scrittore iraniano Navid Kermani e io abbiamo invitato diversi coraggiosi e indipendenti pensatori controcorrente, provenienti dall’intero mondo ebraico e islamico, a partecipare ad un forum di analisi critica di fonti comuni. L’ispirazione per un tale progetto ci è venuta soprattutto dalla recente storia intellettuale europea. Con il loro caleidoscopio di problematiche enciclopediche, gli intellettuali ebrei del XIX secolo introdussero nel mondo dello spirito un ideale culturale di humanitas unico nel suo genere. Orientamenti analoghi si affermarono presso gli intellettuali islamici liberali del Cairo e di Istanbul. Questi intellettuali ebrei e islamici hanno tra l’altro sollecitato il sorgere di un esteso programma di integrazione delle fonti ebraiche e islamiche nel contesto generale delle scienze e delle arti europee. Nel far questo, la al-Andalus islamica, con il suo amalgama di culture e la sua liaison arabo-ebraica, divenne per loro il criterio di misura per un’utopia dell’Europa liberale. Dall’Europa questi intellettuali speravano, come noi oggi, un’apertura cosmopolita e la convinta asserzione della sua varietà culturale. Nonostante il catastrofico fallimento della diaspora, determinato direttamente e indirettamente dalla shoah, l’intellettualità critica ebraica non intende più rinunciare alle speranze legate a questo programma d’azione cosmopolitico. L’idea di ridurre la cultura ebraica a una fedeltà ebraica nei confronti dello Stato era stata rifiutata dai sostenitori dell’antico ideale ebraico di cultura universale per ragioni di principio. Troppo grande era la loro paura che andasse perduta quella creatività culturale che fin dalle origini era stata propria della cultura ebraica in quanto cultura della diaspora. Essi continuano ad avere ragione: gli elementi in comune ebraici e islamici, ebraici e arabi, scompaiono in mezzo alla guerra israelo-arabo-palestinese. Sia Israele sia i paesi islamici hanno bisogno di una rinascita delle proprie grandi tradizioni di cultura cosmopolita. Le resistenze che si oppongono a una tale rinascita all’interno dell’islam, resistenze a proposito delle quali ho imparato molto da Nilüfer Göle, sono certamente connesse in modo assai stretto con la già menzionata storia di espropriazione della civiltà e dell’illuminismo islamici da parte dell’Europa. E tuttavia: tra gli intellettuali islamici oggi si registra nuovamente, in singoli casi, una tendenza all’universalizzazione delle proprie fonti che sfida a un nuovo confronto positivo con i metodi scientifici liberali dell’ebraismo tedesco otto- e novecentesco. Un’avanguardia islamica ed ebraica concepirà sempre il proprio cosmopolitismo come fedeltà alle proprie fonti letterarie. Essa considererà se stessa – alla stregua delle sue fonti – come a casa propria ovunque e in nessun luogo e opererà così per una infiltrazione costruttiva contro la guerra. Lo Stato ebraico, nonostante tutti i ‘nuovi storici’ e ‘post-sionisti’ israeliani, non è oggi il luogo adatto per un tale campo di sperimentazione aperta. Andrebbe fondata invece un’officina-Europa con l’obiettivo di far rinascere le tradizioni di cultura cosmopolita ebraiche e islamiche. Un’offficina-Europa come punto di partenza per un nuovo e più ampio canone culturale europeo. Ibn Rush accanto a Tommaso d’Aquino, hadith accanto a midrashim, miniature persiane in mezzo a un seminario sulla teoria platonica delle immagini. Come un Aby Warburg, che all’interno di un atlante di immagini e letteratura stabilì collegamenti trasversali e punti di contatto tra artefatti del tutto diversi di epoche e regioni differenti, sulla base della pura evidenza di quanto appare come analogo. Abbiamo bisogno di una cultura politica tessile: cuciture anziché linee di confine, spole dell’avanti e indietro anziché direttrici del dialogo. Io sono convinta che oggi nei grandi centri culturali europei, siano essi Istanbul, Berlino, Parigi o Budapest, sussista un’opportunità per una tale avanguardia. C’è qualcosa di salutare nello scompigliare i confini – ade lo yada – fino a non saper più, per un  momento, dove siano Est e Ovest, Oriente e Occidente, sinistra e destra, maschile e femminile. “Al di à del bene e del male” non è affatto un culmine del nichilismo, ma è, secondo quanto dicono i mistici, il mistero della riconciliazione.

 

 *Si pubblica qui, per gentile concessione dell’autrice, l’intervento pronunciato da Almut Sh. Bruckstein al Residenz Theater di Monaco di Baviera l’11 febbraio 2007 nel quadro delle Allianz Lectures. All’incontro su “Christlich-abendländisches Europa? – Der jüdisch-islamische Beitrag” hanno partecipato, oltre all’autrice, la sociologa turca Nilüfer Göle e lo scrittore anglo-pakistano Tariq Ali. Moderatore era Andreas Zielcke, della “Süddeutsche Zeitung”.

 

 

[traduzione dal tedesco di Pierfrancesco Fiorato]

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