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Paradossi

dello stato liberale

 

di Massimo Adinolfi

 

Il paradosso di Böckenförde recita: "Lo stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire". Un brutto affare, sembrerebbe. La rivista Reset vi ha dedicato buona parte dell'ultimo numero attualmente in edicola, chiamando intellettuali e filosofi di diversa estrazione a cimentarsi con il diktum di Böckenförde e i dilemmi di una società che si dice (ma chissà se si pensa) post-secolare.

Böckenförde ha presentato la sua tesi nel lontano 1967, quarant'anni fa; da allora, non ha mai smesso di generare discussioni. Secondo l'influente studioso tedesco, le premesse latitanti sono dell'ordine di un ethos condiviso, di un insieme di presupposti morali e religiosi di cui lo stato liberale avrebbe bisogno, ma che non può esso stesso fornire. Lo stato liberale ne ha bisogno perché nessuna comunità può sopravvivere senza un ethos comune, senza un minimo di omogeneità di idee e di credenze che affratellino i suoi cittadini; non può però garantirle, perché se volesse accollarsi l'onere di iniettare nel corpo sociale la sostanza morale di cui ha bisogno, violerebbe quel principio di laica neutralità nelle cose della morale e della fede a cui deve invece attenersi, in quanto liberale. Con bella enfasi, Böckenförde commentava perciò che questo, di stare in piedi su premesse mal certe e non garantite, "è il grande rischio che lo stato si è assunto per amore della libertà".

C'è chi però il rischio non vuole correrlo. Di fronte all'aporia messa in luce da Böckenförde c'è chi non si rassegna, e prova a scioglierla. Lo stesso Böckenförde sembra a volte inclinare verso un atteggiamento del genere. Di sicuro vi inclina Joseph Ratzinger, che non solo nei discorsi del pontificato ma già prima, e per esempio in un saggio dedicato alla imprescindibilità del cristianesimo nel mondo moderno, sembra pensare che tocchi proprio alla religione fornire quelle basi etiche di cui lo Stato liberale sarebbe sprovvisto.

E se invece non ne fosse affatto sprovvisto? Anche questo è un modo per risolvere l'aporia, ed è più o meno l'idea di Jürgen Habermas. Fermo restando che nessuno stato sorge ex nihilo, ma presuppone comunque una qualche forma di articolazione sociale pregiuridica e prepolitica, e quindi anche un certo tessuto morale e religioso, rimane comunque stabilito, nella concezione proceduralista di Habermas, che la democrazia liberale si fonda soltanto su se stessa, autoreferenzialmente. Si fonda cioè, più precisamente, su quella dimensione normativa che, lungi dal provenire dall'esterno o dall'alto, esplicita semplicemente le condizioni intrinseche del suo stesso esercizio.

Sia Ratzinger che Habermas, i principali protagonisti europei del dialogo fra filosofia e religione in questo primo scorcio di secolo, sembrano quindi dar credito all'idea che quella di Böckenförde sia davvero un'aporia, che in qualche modo debba andare risolta. Non si può lasciare che lo stato non abbia le sue salde basi, ed allora: o sarà il cristianesimo a fornirle, oppure lo stato liberale dovrà dimostrare di saperle garantire da sé.

E se così non fosse? Se il paradosso segnalato dall'illustre costituzionalista cattolico non fosse poi quel gran guaio a cui si dovrebbe riparare, la falla che si dovrebbe turare? Se poi non fosse un male, ma addirittura un bene, che lo stato liberale si accolli il rischio di Böckenförde, il rischio della libertà, e si avventuri nella storia senza premesse garantite?

Cosa vuol dire infatti: "premesse garantite"? Che profilo mostrerebbe uno stato che sapesse e potesse garantire le sue premesse? Di quale sapere e soprattutto di quale potere sarebbe allora titolare? Nel considerare che sia un bene "rischiare la libertà", Böckenförde sembra convinto che non sia viceversa un bene mettere nelle mani dello stato il potere di predisporre il suo stesso retroterra morale. Forse uno stato del genere sarebbe infatti più robusto e tetragono, ma proprio perciò anche più arcigno e opprimente. Tuttavia, il paradosso sussiste per il fatto che si considera comunque necessario che di un simile retroterra morale lo stato disponga. Ma perché? Cosa accadrebbe qualora questo retroterra venisse a mancare?

Lo si può forse vedere riflettendo su ciò, che sotto altre spoglie, e in termini culturali più larghi e meno pericolosamente stringenti di quelli che hanno animato la disputa sulla sovranità, rivive nel paradosso di Böckenförde un problema di legittimità: l'idea che la mera legalità democratica non basti, e debba perciò trovare fondamento in qualcosa che la preceda (e, immancabilmente, la trascenda). Formulando il suo dilemma in termini logici, Böckenförde lascia tuttavia intendere che questo deficit fondamentale sia un vero e proprio difetto di razionalità della compagine liberaldemocratica. Come se la domanda di fondamento, comunque declinata, fosse sempre razionale, e non dovesse a sua volta esibire i suoi propri titoli di legittimità - il che, almeno da Kant in poi, non è. E che non lo sia lo mostra anche solo il fatto che troviamo sensato domandare perché lo stato, in generale, debba essere fondato, e assolutamentei fondato, su premesse che lo garantiscano una volta per tutte e lo mettano per sempre al riparo dalle brutte sorprese della storia. Forse le procedure liberal-democratiche non procurano l'agognato fondamento, ma forse è anche meglio così. A volte, il peso delle fondamenta affonda. Forse l'assenza di fondamento è ricchezza, non penuria. Forse consente che nel retroterra pregiuridico e prepolitico di uno stato accadano molte più cose di quante una fondazione in punta di teoria potrebbe custodire o potrebbe disporre, e questo sembra essere un bene, non un male, perché procura alla dimensione giuridica e politica di quello stato un dinamismo prezioso e anzi necessario, una vitalità e un'apertura al nuovo che diversamente sarebbe impedita.

Ma, si dice, la richiesta di fondamento è, dopo tutto, non altro che la richiesta di rendere ragione. È una richiesta di senso. Vi saranno ragioni per preferire un ordinamento liberale dello stato, ma lo stato liberale non può farle proprie ed imporle. Se è davvero neutrale, non può nemmeno promuoverle; deve augurarsi che si impongano da sé. E questo è un limite e un'aporia. Ma anche in questo caso sembra che sia la forma astratta in cui si presenta la questione ad essere responsabile dell'aporia. Cosa vuol dire infatti che lo stato non può promuovere questo o quello? Forse che un regime liberal-democratico non può produrre e non produce effetti di sorta? Non forma l' homo democraticus? In realtà lo fa, che lo promuova o no; magari non egregiamente, ma lo fa. E così, quel che non si può imporre dal lato delle premesse, si può trovare invece dal lato delle conseguenze. Se poi queste conseguenze funzioneranno a ritroso come premesse legittimanti, ciò non descriverà alcun circolo vizioso dal punto di vista logico, ma solo un circolo virtuoso dal punto di vista storico.

Resta, infine e comunque, un dislivello fra la mera legalità e la legittimità di un ordinamento che in questo modo non viene colmato. Qui però c'è del lavoro per la filosofia. E ci sono anche le condizioni per un fecondo incontro con una religiosità libera da preoccupazioni troppo dogmatiche.

Il fatto è che la legalità è mera legalità ('mera': oppure grigia, oppure anodina, oppure qualunque altro aggettivo che la renda sufficientemente pallida e insignificante) non in sé, ma solo per una domanda di fondamento che la trascende. Ma il fondamento non manca prima che la domanda sul fondamento sorga. Il vuoto letteralmente non c'è, prima che venga accusato. Prima c'è la domanda, e solo sul bilico di questa domanda e a causa di essa, lo stato liberale finisce con il patire un deficit di valori e di ethos a cui non potrebbe porre rimedio senza contraddizione. Siccome però la domanda non cade dal cielo, compito della filosofia è farne ogni volta la genealogia, mostrare da dove viene e dove vuole andare a parare. E invece di provare a rispondervi per sciogliere paradossi ed aporie, dislocarla altrove, e metterla alla giusta distanza dalle cose della politica. La giusta distanza: la distanza dalla quale possono vivere liberamente e pacificamente anche le cose dello spirito.

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