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Per un’etica e una politica laica dell’alterità:

multiculturalismo e “riconoscimento”

 

di Gaspare Mura

 

 

Significati del “multiculturalismo”

La presenza crescente nelle nostre società europee dell’emigrante, dello straniero, dell’“altro” per lingua, cultura, religione, ha imposto una crescente attenzione al fenomeno del “multiculturalismo”, dal punto di vista politico e sociale, ma anche etico e religioso. Innanzi tutto, cosa significa “integrazione” dello straniero: imposizione di una cultura a lui estranea come condizione per partecipare alla nostra convivenza sociale, oppure “riconoscimento” della sua cultura, senza condizioni che non siano il rispetto minimo della convivenza civile? E poi, in quali modalità e in base a quali principi si dovrebbe oggi impostare un’etica e una “politica del riconoscimento”? E infine: in una società in cui finora il cristianesimo ha esercitato un influsso non solo religioso, ma sociale e culturale, in che modo deve essere improntato il rapporto con l’ “altro”, che in molti casi ha il volto non solo di “un’altra religiosità” ma quello di una “alterità laica”,  senza venir meno ai propri valori etico-religiosi, ma anche convivendo con la diversità e riconoscendo il valore dell’ “altro” proprio come “altro”?

Cerchiamo di chiarire prima di tutto i vari significati del termine “multiculturalismo”.  Dal punto di vista storico,  occorre precisare innanzi tutto che ogni cultura storica è per origine e natura “multiculturale”. La cultura- ogni cultura- è di per sé un fenomeno fluido e non stabile, soggetto a sviluppi, mutazioni, interferenze plurime, sia dal punto di vista linguistico che concettuale e valoriale, così che ogni forma di immobilismo di una cultura segnerebbe niente altro che l’esaurimento del suo compito storico. La cultura greca, come le altre culture del Mediterraneo, e in particolare quella romana, ha visto sedimentarsi al proprio interno una serie di influssi diversi, dall’Egitto alla Mesopotamia;   lo stesso Cristianesimo, quale si è affermato nel contesto della cultura ellenistica, ha portato in essa tutti i germi positivi delle culture semitiche orientali. Per non parlare del “multiculturalismo” realizzato dalla grande filosofia araba medievale nel XII secolo, che vide il periodo del massimo splendore  culturale, filosofico e religioso dell’Islam, elaborando una così raffinata riflessione sui rapporti tra ragione e fede da affascinare il pensiero cristiano, che l’ha pienamente assimilata nell’opera di S. Tommaso. E’ dalle traduzioni in arabo delle opere di Platone, Aristotele e i neoplatonici, avvenute inizialmente in Siria, che la cristianità viene a conoscenza della filosofia greca e in particolare delle opere di Aristotele, interpretate e assimilate con i principi del Corano da tutte le scuole di filosofia araba, in Oriente (Bagdad), in Africa (Kairuan) e nella Spagna araba . Si è trattato, in questi casi, di un “multiculturalismo” creativo, capace di assimilare il meglio delle diverse culture e di produrre una grande crescita culturale dell’umanità.

Ma “multiculturalismo” significa in secondo luogo il fatto che, in uno stesso territorio possono coabitare insieme gruppi diversi per etnia,  lingua, cultura, religione. E’ questo il caso delle zone di confine, come l’arco alpino italiano, ove coabitano insieme popolazioni di lingua tedesca, italiana, slovena, ladina, provenzale, occitana. Ma anche gruppi appartenenti a religioni diverse, come gli ebrei, i cattolici e gli ortodossi a Venezia e Trieste. Questa seconda forma di “multiculturalismo” mostra con evidenza che il termine stesso di “multiculturalismo” non subisce nessuna costrizione territoriale o di nazione, per il fatto che gruppi appartenenti ad una stessa etnia, lingua e religione possono vivere in territori diversi. Ciò significa che il “multiculturalismo” è un fenomeno culturale capace di sfuggire anche alla politica degli stati di appartenenza, ai quali pone per questo problemi nuovi e non risolvibili entro le categorie tradizionali della “sovranità”. E questo perché, mentre i confini territoriali, stabiliti dagli stati, sono rigidi, i confini culturali sono fluidi ed impermeabili e non possono essere costretti entro barriere rigide.

Ma un terzo significato di “multiculturalismo”, quello al quale prevalentemente si fa riferimento,  deriva dal fatto che oggi, entro uno stesso territorio, convivono popolazioni che hanno valori etici , principi culturali e credo religiosi molto diversi, che fanno fatica ad armonizzarsi. Accanto a chi concepisce la famiglia in senso tradizionale vanno emergendo concezioni diverse del legame familiare, che si ispirano a diversi orizzonti valoriali  (divorzio, aborto, procreazione assistita, pacs), nonostante che la religione, di fatto, continui a segnare i momenti principali della vita personale e civile del paese (festività ecc.). Senza parlare del fatto che la sempre più intensa frequenza di cittadini di fede islamica nei paesi europei introduca nel dibattito sulla famiglia, non a motivo di ideologie politiche ma di diverse fedi religiose, la questione della poligamia, la questione femminile e quella del tipo di educazione scolastica dei figli. Per questo l’origine storica del “multiculturalismo” contemporaneo viene fatta risalire agli anni ‘70, quando queste problematiche hanno assunto rilevanza politica e sociale.

Il termine “multiculturalismo” è stato infatti ufficialmente adottato per la prima volta dal Canada nel 1971, e precisamente dal premier liberale Pierre Trudeau, che voleva indicare con esso il riconoscimento della pari dignità di tutti i cittadini, indipendentemente dalle origini etniche, linguistiche, culturali o religiose. Il “multiculturalismo”, in questo senso recente, nasce quindi in contrapposizione al modello statunitense detto del melting pot, che indica piuttosto una politica di forte assimilazione al modello americano di tutti gli immigrati, e quindi di assorbimento delle loro differenze culturali, valoriali, religiose. Nonostante il fatto che, dal punto di vista culturale, fin dagli anni venti negli Stati Uniti sia sorta a livello accademico la teoria del cosiddetto “pluralismo culturale”, la politica americana si è mossa sulla strada del  melting pot, obbligando di conseguenza tutti i cittadini ad aderire fedelmente all’ american way of life, indipendentemente dalle loro culture di appartenenza . Tale forzatura culturale, pur dando stabilità sul piano politico, ha finito col creare quella che è stata definita una “insalatiera culturale”, ovvero una situazione di omologazione in cui tutte le culture, le etnie, le religioni sono tollerate, ma viene loro impedito di esprimere la propria identità a livello sociale e politico. E’ qui che ha la sua prima origine la questione del “riconoscimento” culturale e politico, da intendersi come facente parte della progettualità politica delle moderne democrazie occidentali, e che è stata accentuata dalla progressiva crisi del modello americano, fin dagli anni sessanta. I movimenti studenteschi del ’68, i movimenti femministi e per i diritti civili, la stessa guerra del Vietnam hanno finito per mettere in crisi- come testimonia la stessa filmografia americana- il “credo americano” e, con esso, la convinzione che la cultura occidentale in genere sia la “migliore” ed abbia quindi il diritto di considerarsi egemone. A partire dagli anni settanta il modello del melting pot viene così sostituito dal modello del “multiculturalismo”, che assume aspetti diversi a seconda dei paesi , e che nella sua espressione più radicale afferma la decisa esaltazione delle “differenze etniche”  e, con esse, delle “differenze” culturali, linguistiche, religiose.

Dopo il Canada, il modello “multiculturale” è stato adottato dalla maggior parte degli Stati dell’Unione Europea, a iniziare dalla Gran Bretagna . Ma esso cela al suo interno le stesse problematiche che ha incontrato negli Stati Uniti. In effetti il multiculturalismo mette in crisi non solo l’idea di una cultura egemone alla quale le altre debbono assimilarsi socialmente, ma mette soprattutto in crisi l’idea che, dal punto di vista dei contenuti e dei valori, possa esistere una cultura “superiore”, come finora ha concepito se stessa quella occidentale, e che viceversa occorre riconoscere pari dignità civile giuridica, politica e valoriale a tutte le differenti culture. Al primato dell’ “omologazione” viene sostituto il primato della “differenza”. Ma in tal modo il “multiculturalismo” mostra di essere niente altro che l’ espressione ultima proprio della cultura occidentale,  nel momento in cui essa diviene capace di mettere in discussione se stessa e il proprio primato. Da “cultura egemone” a “cultura debole”, secondo l’assunto ben noto del “pensiero debole” .

Si comprende allora come dietro la questione del “multiculturalismo” si celino una serie di problematiche che coinvolgono non solo la politica, ma il senso stesso e la funzione della cultura,  che proprio nel suo ultimo approdo occidentale, rinuncia a farsi portatrice di valori universali, per ripiegare semplicemente nell’affermazione della “differenza” come garanzia di un pluralismo che non è solo culturale, ma etico, politico, religioso . A ciò si aggiunga il fatto che non sembra corretto affermare che il “multiculturalismo” sia dovuto unicamente all’ intensa immigrazione nei paesi occidentali da parte di persone provenienti dai paesi in via di sviluppo. In effetti,  è soprattutto  lo squilibrio dell’odierna situazione economico-politica globale, la quale ha diviso economicamente e politicamente il mondo in due blocchi, uno solo dei quali esercita il potere,  a creare  problemi di tipo non solo etico ma politico ed economico e infine culturale, che accentuano la questione del multiculturalismo in dimensione etnica. Gli immigrati nei paesi occidentali infatti provengono in gran parte dalle aree periferiche del mondo, che non hanno a livello globale nessun potere contrattuale, e che a fatica intraprendono un cammino di miglioramento economico e sociale. E ciò con la speranza di una emancipazione da conseguire,- e questo è importante sottolineare- , perseguendo il modello delle culture che esprimono le società altamente sviluppate, e dalle quali si sentono emarginati. Sotto questo aspetto, anzi, lo “scontro” tra culture diverse avviene già nei paesi di provenienza degli immigrati, nei quali è proprio la presenza operante del modello occidentale a provocare i flussi migratori. In altri termini, non sono gli immigrati nelle nostre società a creare il fenomeno del multiculturalismo che peraltro, come si è visto, è sempre esistito, perché fa parte della natura di ogni autentica cultura ed ha anzi  saputo esprimere nella storia della civiltà momenti altamente creativi. E’ piuttosto la cultura occidentale, nel suo ultimo approdo, e anche per la presenza degli immigrati, a creare la questione del “multiculturalismo” nel suo volto plurimo e intrecciato di componenti diverse, alla cui base sta di fatto il conflitto tra “identità” e “globalizzazione”. Per questo la presenza degli immigrati pone primariamente, non solo alla cultura occidentale, ma alla sua etica ed alla sua politica, la questione dell’emancipazione e dello sviluppo dei membri meno fortunati della società, i quali aspirano legittimamente, e proprio in nome dei principi costitutivi delle democrazie occidentali, a godere degli stessi diritti degli altri cittadini, e ad accedere a quei beni che sono necessari alla crescita della persona umana e che per questo non possono essere appannaggio solo di pochi.  Gli immigrati sono portatori, più che della loro stessa cultura di appartenenza, di un progetto di emancipazione modellato sui valori della cultura ospitante, nei confronti dei quali interferiscono in modi diversi a seconda della loro formazione culturale, professionale, etica di provenienza, e a seconda del tipo di ospitalità che la società accogliente è in grado loro di offrire. Le democrazie occidentali sono chiamate, dalla presenza degli immigrati, ad elaborare una matura politica della “partecipazione” e del “riconoscimento”, se non vogliono rischiare di fare esplodere al loro interno conflitti che non sono in prima istanza di ordine culturale ma di carattere sociale. Occorre cioè che le democrazie siano capaci di concepire un nuovo modello di cittadinanza, riconoscendo le diversità culturali e allo stesso tempo garantendone la piena partecipazione alla vita civile, superando le attuali discriminazioni che vedono negli immigrati solamente delle “forze lavoro” utili al sistema.

Al “multiculturalismo” come affermazione della “differenza”, -differenza culturale, etica, valoriale, religiosa- ultimo approdo della cultura occidentale, si affianca così la questione dell’ emancipazione sociale ed economica, anch’ essa in ultima analisi indotta dallo sviluppo dei paesi occidentali, ma che, nel contesto di una cultura occidentale fortemente in crisi nei confronti della propria identità e dei propri valori, finisce per connotare l’odierno “multiculturalismo” di una serie di significati intersecatisi e non sempre decifrabili. “Femminismo, multiculturalismo, nazionalismo e lotta contro il colonialismo eurocentrico  sono fenomeni apparentati benché distinti. L'elemento unificante consiste nel fatto che –nell’ opporsi a repressione, emarginazione e disconoscimento  sia donne e minoranze etnicoculturali sia nazioni e culture lottano per ottenere il riconoscimento delle loro identità collettive”. E questa lotta, continua Habermas, avviene sempre all’interno di un processo di emancipazione: “ I movimenti di emancipazione operanti nelle società multiculturali non costituiscono un fenomeno unitario. Essi affrontano sfide di tipo diverso a seconda che minoranze interne diventino consapevoli della propria identità oppure che nuove minoranze sorgano attraverso l’immigrazione”. La quale è vista comunque da Habermas, come in genere dal pensiero liberale, come una nuova forma del processo di emancipazione di minoranze all’interno della società globale, per il quale gioca un ruolo determinante il  processo etico e giuridico di “riconoscimento”. Resta comunque acquisito il fatto che è urgente che le democrazie occidentali vengano rivitalizzate creando nuove opportunità, nuove reti sociali e  culturali, chiamando in tal modo gli stessi  immigrati ad una democrazia attiva, ed alla condivisione di un adeguato progetto sociale di emancipazione e di sviluppo.  E se finora sono state soprattutto le associazioni di volontariato o le congregazioni religiose (Scalabriniani) a farsi carico dei problemi sollevati dalla presenza degli immigrati, è venuto ora il momento che la politica comprenda che la questione “immigrazione” è fondamentale per la stessa sopravvivenza della  democrazia, chiamata ad operare per elaborare una adeguata politica del “riconoscimento”.

 

Identità e globalizzazione: la dialettica del “riconoscimento”

Abbiamo detto che  la questione “multiculturalismo” è frutto della stessa cultura occidentale in quanto si mostra capace di  mettersi in discussione, ripensando in rapporto agli “altri”, alle “differenze” culturali,  quegli stessi valori in cui è costituita. A ciò va aggiunta un’ulteriore precisazione. E cioè che la questione del “multiculturalismo”,  dal punto di vista giuridico e politico, è sorta in un particolare ambito della cultura occidentale, ovvero nella sua tradizione liberale, che da sempre si è occupata della salvaguardia, insieme delle libertà individuali, anche delle differenze, individuali e culturali. E’ negli anni ottanta infatti che la cultura liberale, che fin dall’Illuminismo ha fondato i diritti universali dell’uomo sulla enunciazione dei diritti dell’individuo, ha avuto il coraggio di rimettersi in crisi, ripensando a fondo la questione della fondazione dei diritti individuali in relazione alle nuove realtà sociali e culturali emergenti, ed ha impostato una drammatica tensione tra “globalizzazione” e “identità”.  E questo fino alle posizioni più estreme, come quella del pensatore di destra Alain De Benoist, il quale si spinge alla negazione stessa dei diritti universali, in nome dell’accettazione incondizionata di tutte le differenze etniche, linguistiche, culturali. In direzione opposta, gli intellettuali di formazione post-marxista , da sempre avversi al liberalismo politico, hanno portato avanti una concezione del “multiculturalismo”, soprattutto negli ambienti americani, che metteva in evidenza i legami indissolubili dell’individuo con la comunità sociale, la quale ultima, in definitiva, sarebbe la  vera fonte dei diritti individuali. Il successo dell’opera di MacIntyre, così bene accolta anche dagli ambienti culturali cattolici italiani, è a questo proposito molto significativo. Perché questa concezione del “multiculturalismo”, che potremmo qualificare come “comunitarista”, cerca di superare sia il relativismo del pluriculturalismo radicale, sia anche la stessa teoria della giustizia fondata su una concezione dell’individuo inteso come separato dal gruppo sociale di appartenenza, quale è quella che si può ancora riscontrare nel maggior teorico americano della filosofia del diritto, ovvero John Rawls. Gli attuali modelli di “multiculturalismo” pertanto, pur essendo sostanzialmente interessati alla questione del riconoscimento culturale ed etnico dei diversi gruppi che compongono la società, si muovono quindi tra ipotesi più “liberali”, volte alla fondazione di diritti universali sul riconoscimento di diritti individuali, ad ipotesi viceversa più “comunitariste”, per le quali invece gli stessi diritti individuali sono espressione della natura “intersoggettiva” dell’individuo, la quale è il vero luogo di fondazione dei diritti. La questione del “multiculturalismo” si è spostata così progressivamente dal piano teorico a quello più strettamente etico e politico, trasformandosi nella questione più cogente del “riconoscimento”  dei diritti delle minoranze e delle identità culturali ed etniche all’interno di società sempre più multietniche e multiculturali. Sono così sorte una serie di riflessioni sulla questione di come una moderna società democratica dovrebbe gestire il multiculturalismo e riconoscere le differenze etniche, culturali, religiose, le quali, sebbene sorgano sull’evoluzione del pensiero liberale, e pur sostenendo presupposti etico-giuridici diversi, meritano di essere prese in considerazione, perché coinvolgono  le principali tematiche che riguardano il pensiero morale, giuridico e politico contemporaneo.

Ma cosa significa “riconoscimento” ?

Viene comunemente affermato che la tematica del “riconoscimento” ha storicamente un’origine che può farsi risalire al pensiero di Hegel, il quale, nella Fenomenologia dello spirito , ponendosi contro la concezione kantiana della coscienza, considerata solipsistica,  mostra come sia importante per l’uomo che vive in società il “riconoscimento” da parte degli altri, riconoscimento senza il quale la propria soggettività non può svilupparsi . Anzi, afferma Hegel, qualora una soggettività, nel confronto con le altre, non ottiene un adeguato “riconoscimento”, finisce per sviluppare in sé una coscienza di “servo”, che lascia al vincitore il campo libero per affermarsi come “padrone”. E’ la celebre dialettica servo-padrone, sviluppata da Hegel in particolare nell’ambito della filosofia della religione, ma che verrà poi collocata da Marx non più all’interno dei rapporti tra soggettività, ma dei reali conflitti sociali, offrendo la base teorica al riscatto del “servo” nella forma della rivoluzione. Paul Ricoeur, nel suo ultimo libro dal titolo significativo: Percorsi del riconoscimento, si sofferma a lungo sulla nozione di Anerkennung  , costante in Hegel dal periodo jenense della Fenomenologia dello spirito  a quello berlinese dei Lineamenti di filosofia del diritto : “La cosa che, più di ogni altra, si preserva in questa storia della lotta per il riconoscimento, è la correlazione originaria tra la relazione con se stessi e la relazione con l’altro, correlazione che infonde alla Anerkennung hegeliana il profilo concettuale della propria riconoscibilità”. Tuttavia, rifacendosi agli studi di Taminiaux e soprattutto di Honneth, Ricoeur ritiene che l’esclusiva declinazione socio-economica marxiana della dialettica del “riconoscimento” sia riduttiva, perché non ne coglie tutta la valenza etica, giuridica , politica ma anche psicologica, presente in Hegel. Ciò che è essenziale nella “lotta per il riconoscimento”, scrive Ricoeur “è la correlazione originaria tra la relazione con sé stessi e la relazione con l’altro”. Si può dire che tutta la questione del “riconoscimento”, oggi così attuale ed urgente,  trovi la sua matrice remota, bene individuata da Ricoeur, nella critica che Hegel rivolge alla nozione “astratta” di libertà dell’individuo propria dell’Illuminismo e dello stesso Kant, sebbene poi parta dalle stesse matrici liberali del pensiero kantiano. Per Kant e per l’Illuminismo la libertà individuale è un diritto primario, perché essendo l’uomo un essere razionale,  è in quanto tale indipendente dal contesto in cui esercita la sua libertà, e pertanto  non è condizionato nemmeno dalla cultura dominante, verso la quale può viceversa sempre esercitare  la sua indipendenza e la sua libertà, che è di natura trascendentale.  Ora, Hegel considera astratta la nozione di libertà dell’individuo formulata  dall’Illuminismo kantiano, perché sostenitrice di una sussistenza a priori della libertà dell’individuo, senza tener conto che essa non sarà mai reale senza il pieno  “riconoscimento” da parte dell’ “altro”, ovvero del contesto sociale di appartenenza. “Perciò il riconoscimento dell’individuo in quanto vivente- tale è il riconoscimento della persona- è il riconoscimento dell’altro come ‘concetto assoluto’, ‘ essere libero’, ‘possibilità di essere il contrario di se stesso in relazione a una determinatezza’, ma è un riconoscimento ancora formale al quale manca il momento della differenza. Questo momento viene introdotto dal rapporto di signoria e servitù; quest’ultima è maggiore potenza di riconoscimento in quanto reale, mentre la prima non è altro che ideale e formale”.  Anche per Ricoeur è valida la critica hegeliana alla nozione astratta di “libertà”  dell’individuo, la quale non tenga conto che nella realtà, ovvero effettualmente, il “riconoscimento” è autentico solo se è effettivo, ovvero se è capace di superare la dialettica servo-padrone propria della metafora hegeliana; anche se poi, per Ricoeur, tale dialettica non può essere intesa solo in senso marxiano, ma in senso pieno, ovvero come dialettica di un pieno e integrale riconoscimento, etico, psicologico, giuridico, politico e, soprattutto, culturale. Le questioni del “multiculturalismo” e del “riconoscimento” sono dunque sotto molti aspetti inscindibili. E il pensiero hegeliano  fa da sottofondo alle pur diversificate concezioni odierne del “riconoscimento” – quali quelle , tra tutte rilevanti,  di Taylor, di Habermas e di Ricoeur- perché esso permette da una parte di superare la concezione solipsistica e illuminista dell’individuo, ma anche di oltrepassare la nozione tradizionale di persona, radicata nella affermazione metafisica della natura, di stampo aristotelico, nella direzione di un primato del rapporto con l’alterità , inteso come  fondativo delle identità non solo individuali e psicologiche ma anche etiche , sociali e culturali.

E’ qui che si innesta anche la problematica “etica” del riconoscimento, alla quale fa in particolare riferimento Ricoeur. Perché se il “riconoscimento” da parte dell’altro è fondativo di una società “riconoscente”, nella quale non solo è possibile sviluppare un’identità personale matura psicologicamente e socialmente,  il “riconoscimento” diviene insostituibile anche per fondare una vita morale “buona”, innestata su una buona relazione sociale di reciprocità. L’etica dell’alterità si basa pertanto su una forte concezione dell’intersoggettività, per la quale ogni persona deve essere riconosciuta insieme come singola, unica, irripetibile, ma anche portatrice di una sua struttura intersoggettiva trascendentale, da cui può trarre i valori morali di una “vita buona” dai buoni rapporti intersoggettivi che essa sa stabilire.  L’etica del riconoscimento si basa proprio sul bisogno che all’interno di un contesto sociale ha ogni soggettività di essere “riconosciuta” per poter vivere bene, a motivo della sua struttura intersoggettiva, per sostenere che la relazione di conflitto conduce  non solo alla morte dell’altra soggettività, ma anche alla propria morte. La relazione di riconoscimento reciproco tra le soggettività che compongono un contesto sociale è dunque fondativa sia della personalità dell’altro, e dei suoi diritti, come pure della propria soggettività e dei propri diritti. Per potersi pienamente sviluppare e vivere bene, e vedere riconosciuti i propri diritti, ogni soggettività dovrebbe essere inserita in un contesto sociale in cui vige l’etica del riconoscimento, ovvero l’etica della disponibilità all’altro, in cui più soggettività, diverse culturalmente, possono esprimere ciò che maggiormente hanno in comune, ovvero il bisogno dell’altro per il proprio stesso riconoscimento.

 

Il “riconoscimento” in Habermas, Rawls e Taylor

La dimensione intersoggettiva della personalità individuale costituisce dunque l’apporto che l’odierna etica del riconoscimento offre alla concezione illuministica dei diritti individuali, facendo derivare tali diritti da un trascendentale che non appartiene all’individuo isolato dalla comunità, e nemmeno dalla comunità astrattamente intesa, ma dall’individuo in quanto membro solidale di una comunità in cui vige l’etica del riconoscimento reciproco.  

Habermas  è in modo particolare l’autore che maggiormente sottolinea, attraverso un lungo percorso che passa attraverso la teoria dell’agire comunicativo, il fatto che i singoli soggetti di una comunità possono realizzare la propria specifica potenzialità e libertà morale, solo in un contesto di “riconoscimento” sociale. Essere “riconosciuti” o meno dalla propria comunità di appartenenza, significa potersi realizzare o meno come persone. E questo vale per Habermas non solo sul piano strettamente giuridico, ma anche culturale e morale, nel senso che si può eliminare l’altro non solamente in modo fisico, ma anche etico, non riconoscendo l’altro come valore autonomo in qualsiasi contesto comunitario. L’ “etica dell’agire comunicativo”, formulata da Habermas, vuole precisamente tracciare il percorso di un riconoscimento dell’altro, sul piano culturale, etico, sociale, capace di correggere una serie di errori dell’odierna azione politica che, nell’odierno contesto della globalizzazione, misconoscono l’”alterità”. L’autonomia e l’identità personale, nel contesto della “ermeneutica comunicativa” di Habermas, non sono  quindi considerate a priori, come appartenenti alla natura metafisica della persona,  secondo la metafisica classica, o alla struttura trascendentale della coscienza, secondo la posizione kantiana; ma viceversa esse sono in modo primario il risultato di un processo di riconoscimento sociale, in cui la categoria della intersoggettività ha il primato su quella della persona individuale. Di conseguenza  per Habermas l’intersoggettività odierna deve poter contemplare, come interlocutori di un dialogo fondato sull’etica della comunicazione e del “riconoscimento”, non solo i vecchi soggetti, ma anche le nuove soggettività, quali le nuove culture presenti a motivo dell’immigrazione, le nuove categorie sociali (giovani, donne ecc.), e quindi anche la presenza importante delle comunità religiose e, come vedremo più avanti,  delle stesse Chiese.

Non è facile riassumere la posizione filosofica di Habermas, che dopo essere stato suggestionato dalla critica alla civiltà occidentale di Heidegger e di Adorno,  e dopo un travagliato ma fruttuoso inserimento nella cosiddetta Scuola di Francoforte, dove sostituisce Horkheimer nel 1965 e pubblica il suo primo importante lavoro: Conoscenza ed interesse, si avvicina sempre di più alle tematiche dell’etica, del diritto e della politica, ma soprattutto alla filosofia ermeneutica del linguaggio, nella quale introduce le istanze di un sapere comunicativo capace di fondare la convivenza sociale. Il linguaggio per Habermas non è solo un insieme di segni, ma, come mostra l’altra sua opera importante, Teoria dell’agire comunicativo,  è il fondamento della comunicazione, anche in senso sociale e politico, perché ha il suo fondamento in “tre pretese di validità” , che sono la “verità”, la “veridicità” e la “giustezza”. Il linguaggio della comunicazione presuppone dunque un’etica della comunicazione, nella quale gli interlocutori del dialogo si impegnano reciprocamente a rispettare le pretese di validità  portate da ciascuno degli interlocutori nel discorso. Habermas, assumendo anche alcuni concetti dall’ermeneutica dialogica di Gadamer, la quale preferiva parlare di “fusione di orizzonti”, ritiene che in questa teoria della comunicazione si possa fondare anche una “teoria dell’intesa” sociale, che impegna tutti gli interlocutori alla verità, alla veridicità ed alla giustizia. L’intesa diventa allora intesa “normativa”, capace di fecondare tutti i seguenti accordi anche in campo sociale e politico, e può reggersi solo se non viene messa in discussione la base stessa su cui si fonda la comunicazione, ovvero il “riconoscimento” della pretesa di validità del discorso dei vari interlocutori del dialogo. Habermas stesso definisce la propria posizione come quella di un “liberalismo politico, che io difendo nella particolare versione del repubblicanesimo kantiano , si autocomprende come una legittimazione non religiosa e postmetafisica dei fondamenti normativi di uno Stato democratico costituzionale”.

Ma ciò che in definitiva Habermas critica nella nostra società moderna globalizzata è il fatto che la logica che muove la nostra comunicazione, la quale avviene ormai tra soggetti plurali anche dal punto di vista etico, giuridico, culturale, religioso, non è quella di un’ “etica dell’intesa”, quale quella da lui proposta, ma piuttosto quello di una “ragione strumentale” , la quale, come avevano già affermato  Adorno e Horkheimer, finisce per considerare gli altri solo come strumenti e non come “fini”, capovolgendo in tal modo il principio dell’etica kantiana su cui pretendono ispirarsi le società liberali: “considera l’altro sempre come fine e non come mezzo”. La logica monetaria e quella burocratica, che  informano le più avanzate democrazie occidentali, creano quella che Habermas chiama la “colonizzazione del mondo vitale”, ovvero la sostituzione ai valori etici che dovrebbero poter informare i rapporti sociali e comunicativi tra le persone, con valori  strumentali, quali sono appunto quelli del mercato e della burocrazia. L’ “altro”, in tal modo, non è più riconosciuto nella sua identità come interlocutore di un dialogo fondato sull’intesa. L’etica dell’intesa, cui Habermas fa riferimento, presuppone invece da una parte la capacità di abbandonare il proprio punto di vista per accogliere quello dell’altro, e dall’altra di superare il proprio interesse per ricercare insieme agli altri i criteri fondativi delle norme che regolano la vita comune in una democrazia.

Da questo primato dell’intersoggettività, Habermas fa derivare una serie di conseguenze  etiche, giuridiche e politiche innovative.  Va precisato qui come Habermas, al pari di altri autori che pongono gli stessi problemi, e con i quali discute- e in modo particolare John Rawls e Charles Taylor- non rinnega i principi del liberalismo  che sono stati alla base delle odierne democrazie occidentali, ma piuttosto intende riformularli per renderli più conformi ai principi di una democrazia ispirata all’etica della comunicazione. Così ad esempio Habermas riconosce il valore della teoria della “ragione pubblica”, formulata dal “liberalismo politico” di John Rawls, secondo la quale in una democrazia matura debbono essere presi in considerazione tutti punti di vista, e quindi anche le diverse dottrine morali, le diverse visioni culturali e religiose, a patto tuttavia che esse si mostrino “ragionevoli”, ovvero siano capaci di far valere ragioni pubbliche, ovvero che siano capaci  di essere riconosciute dal contesto pubblico di riferimento. Secondo la “teoria della giustizia” di Rawls , che ha al suo centro la volontà di conciliare i diritti individuali, sui quali si fonda il liberalismo nord-americano, con le esigenze della partecipazione,   dell’uguaglianza e della solidarietà, una moderna società democratica e liberale può riconoscersi come tale solo perseguendo ciò che è oggettivamente giusto e bene. Per fare questo, in un contesto pluralistico, deve ritenere che anche i cittadini di uno stato che sono portatori di culture, etnie, religioni diverse, oppure, a livello internazionale  gli stati che sono non-liberali, possono essere utili alla crescita democratica  a patto però che dimostrino lealtà verso il bene comune, ovvero verso la res pubblica. In base a questa “teoria della giustizia” pubblica, pertanto, verrebbero accettati come “decenti” solo quei cittadini, o quegli stati, che pur non possedendo una concezione liberale o non praticando la democrazia e l’etica del “riconoscimento”, tuttavia sanno inserirsi “ragionevolmente” nel dibattito pubblico. E’ chiaro che Rawls, per affermare una teoria della giustizia che sia “ragionevole” per tutti, deve fare riferimento, anche se solo implicitamente, ad una ragione universale capace di individuare quei “diritti universali” che valgono per tutti, e non solo per alcuni.

 Ora, è proprio questo riferimento ad una ragione universale che Habermas contesta. Perché  ciò che Habermas critica nella teoria della giustizia di Rawls non è la concezione liberale, che egli stesso persegue, ma piuttosto il fatto che i diritti e la giustizia vengano stabiliti a priori, e non siano viceversa il risultato di un confronto pubblico nel quale i singoli partecipanti non hanno bisogno di essere “riconosciuti”, perché il “riconoscimento” è la condizione trascendentale della loro partecipazione: “Piuttosto, l’ ordinamento giuridico universalistico e la morale sociale egalitaria devono unirsi così profondamente all’ etica della comunità da risultare reciprocamente coerenti. Per questo ‘incastro’ (Einbettung) John Rawls ha scelto l’ immagine del ‘modello’: questo ‘modello’ della giustizia mondana, sebbene costruito tramite principi neutrali rispetto alle visioni del mondo, deve risultare adatto ad ogni contesto di giustificazione ortodosso che volta per volta si presenti”. Ebbene, osserva Habermas, una teoria della giustizia siffatta finirebbe per far valere, all’interno delle odierne democrazie, una concezione neutrale dei diritti, annullando di fatto lo specifico apporto delle diverse visioni del mondo, comprese quelle religiose: “La neutralità del potere statale per ciò che concerne la visione del mondo, garanzia di eguali libertà etiche per ogni cittadino, è inconciliabile con la generalizzazione politica di una visione del mondo secolaristica”.

E’ proprio questa apertura alle varie visioni del mondo, culture ma anche religioni, che ha attratto l’attenzione della cultura cattolica sulla concezione di democrazia liberale e postsecolaristica di Habermas, la quale permetterebbe di nuovo alle fedi religiose di avere il diritto di partecipare in quanto tali,  proprio in quanto fedi religiose e con un linguaggio religioso, al dibattito pubblico, che non potrebbe pertanto escluderle per principio e nemmeno pretendere di omologarle all’interno di una visione di regole o “modelli” uguali per tutti. “I cittadini secolarizzati non possono, finché compaiono nel loro ruolo di cittadini dello Stato, disconoscere un potenziale di verità in linea di principio alle concezioni del mondo religiose, né contestare ai propri concittadini credenti il diritto di contribuire alle discussioni pubbliche in lingua religiosa” .

Di conseguenza, rilievi analoghi a quelli fatti al liberalismo di Rawls vengono fatti da Habermas anche nei confronti dell’autore che più di altri sembrerebbe essere preoccupato non solo di valorizzare la dimensione intersoggettiva e dialogica dell’individuo, ma anche di affermare la necessità del “riconoscimento” delle minoranze all’interno degli stati liberali, ovvero Charles Taylor, esponente di spicco del cosiddetto “comunitarismo” americano .  Charles Taylor è uno degli autori che più di altri sembra aver colto non solo le difficoltà ma anche le possibilità di crescita e di sviluppo che possono rappresentare per una moderna democrazia le nuove minoranze sociali e gli stessi flussi migratori. Taylor infatti riconosce che il valore “libertà” , ovvero ciò che contraddistingue i sistemi democratici ed è anzi l’anima stessa della democrazia,  proprio nello spirito democratico e nella tensione di progresso della democrazia, non possa essere concepito in senso individualistico ed egoistico, e soprattutto non possa essere inteso come opposto per principio alla “comunità”, né affermato senza alcun riferimento ai valori etici. Taylor ha definito la propria prospettiva etico politica come quella di un “individualismo olistico”, espressione che richiama da vicino quella di “personalismo comunitario” elaborata negli anni ‘50 da Emmanuel Mounier e da Jacques Maritain, ma che Taylor intende collocare nel contesto ben più complesso e contraddittorio delle odierne democrazie e dei loro modelli di sviluppo che, se non orientati eticamente, rischiano di condurre ad un “disagio della modernità”, in cui tutti gli autentici valori della modernità finiscono per corrompersi e decadere in controvalori. Se il “personalismo comunitario” di Mounier e  di Maritain intendeva rispondere alle sfide sia dell’individualismo borghese che a quelle del collettivismo marxista, sistemi incapaci di valorizzare tutte le dimensioni della “persona” (Mounier) e di realizzare un “umanesimo integrale” (Maritain), per Taylor, che scrive dopo il crollo dei sistemi politici del collettivismo marxista, e in un contesto politico in cui le stesse democrazie tendono a disancorarsi dai valori etici, è necessario ripensare in termini rinnovati il rapporto tra individuo e comunità, tra libertà e valori condivisi, e ciò primariamente su base etica. Le odierne democrazie, scrive Taylor,  sottoposte alle sfide interne del multiculturalismo valoriale ed a quelle dei nuovi flussi migratori, i quali apportano insieme nuove culture, nuove religioni, nuovi valori che attendono di essere “riconosciuti”, hanno l’urgente necessità di ridefinire i parametri valoriali nei quali tutti gli individui possano insieme sentirsi liberi e solidali per il bene comune.

Occorre subito precisare che per Taylor questa dimensione dell’essere uomini liberi e solidali è una dimensione fondamentalmente morale, la quale non può essere realizzata dall’individuo singolarmente preso- e questa è la sua nota critica e insieme innovativa del liberalismo tradizionale- ma viceversa si raggiunge solo in maniera dialogica ed intersoggettiva. “Noi diventiamo agenti umani pienamente sviluppati, capaci di comprendere noi stessi e quindi definire la nostra identità, attraverso l’acquisizione di un ricco linguaggio espressivo umano (…) veniamo introdotti in questi linguaggi attraverso l’interazione con altre persone che per noi sono importanti….In questo senso la genesi della mente umana non è monologica, non è qualcosa che ciascuno realizza per conto suo, ma è dialogica”. In altri termini, anche per Taylor il riconoscimento da parte degli altri componenti di una qualsiasi comunità, è determinante per la formazione della nostra identità personale, ma anche per le identità collettive che partecipano alla cosa pubblica. D’altro canto, però, il semplice riconoscimento delle “differenze” nel contesto comunitario e sociale, senza tener conto di tutti i processi di tipo etico e culturale che conducono alla costruzione delle identità personali, finisce per dissolvere il fondamento stesso della vita comune, e si risolve anch’esso in forme deviate di “riconoscimento”. La mancanza di un corretto rapporto tra “differenze” e “riconoscimento”, a motivo dell’ assenza di riferimenti etici, diviene espressione di quel  “disagio della modernità”, che Taylor individua in tre fattori: l’individualismo, la ragione strumentale e la politica del mondo industriale. Questi fattori sono causa, per Taylor, dei tre disagi della modernità: la mancanza del senso della vita a causa della  diminuzione dell’orizzonte morale, l’eclissi dei fini a causa della ragione strumentale, e la perdita della libertà dovuta alla perdita dell’identità personale, la quale non può realizzarsi se non  viene riconosciuta la dimensione morale dell’uomo, anche nel suo aspetto ontologico. Con ciò Taylor non vuole negare i valori propri della modernità, ma solo mettere in guardia nei confronti di una loro possibile distorsione, che può avvenire se la dialettica tra affermazione delle identità e “riconoscimento” non è impostata su basi etiche, ma solamente sociologiche o politiche. Il “riconoscimento” dell’altro in un determinato contesto sociale  è sempre esistito, come nelle società gerarchiche del passato, in cui l’identità personale dipendeva dal riconoscimento del ruolo sociale, come nel caso uomo-donna,  ma esso ha assunto nuovi connotati nella modernità, in cui il “riconoscimento” viene coniugato insieme “all’ideale dell’autenticità”. Questo ideale esige che io venga riconosciuto non solo in base al mio ruolo sociale, come in passato, ma “mi chiede di scoprire il mio proprio, originale modo di essere, che per definizione non può essere socialmente derivato, ma deve esser generato dall’ interno... Il mio scoprire la mia identità non significa che io la elaboro in un completo isolamento, ma che la negozio attraverso il dialogo  in parte aperto, in parte interiorizzato  con gli altri. A ciò si deve se lo sviluppo di un ideale dell’ identità generata dall’ interno attribuisce una nuova, cruciale importanza al riconoscimento. La mia identità personale dipende in maniera essenziale dai miei rapporti dialogici con gli altri” . Questo fattore, per Taylor, impone di rivedere a fondo i principi che regolano l’etica comunitaria, perché il riconoscimento non è più solo di ordine sociologico, come in passato, ma prevalentemente etico, perché  “la cosa da notare a proposito dell’ identità derivata dall’ interno, personale e originale, è che non gode più di questo riconoscimento a priori. Deve conquistarselo attraverso lo scambio, e il tentativo può fallire. Quel ch’è nato con l’ età moderna non è il bisogno di riconoscimento, ma le condizioni nelle quali questo può non verificarsi”. La diagnosi di Taylor sembra suggerire qui la responsabilità etica che, a livello personale e comunitario, grava su quanti rendono difficile o impediscono il “riconoscimento” dell’altro:”Non sorprende che nella cultura dell’autenticità i rapporti interpersonali siano visti come i luoghi chiave dell’autoscoperta e dell’autoconferma. I rapporti d’amore non debbono la loro importanza soltanto all’insistenza, generale nella cultura moderna, sulle gratificazioni della vita ordinaria. Essi sono altresì essenziali perché sono i crogiuoli dell’identità generata dall’interno” . L’etica individuale, in altri termini, conosce intimamente la necessità di completarsi in un’etica del “riconoscimento”, anche se poi può trasgredirne l’applicazione in rapporti comunitari in cui l’affermazione del sé si realizza a scapito del dovuto “riconoscimento” dell’altro, della sua identità personale e autentica. Peraltro, scrive Taylor, anche le odierne democrazie sono giunte alla convinzione che il rifiuto del riconoscimento “può danneggiare coloro che se lo vedono negare” ,  e che “la negazione del riconoscimento possa essere una forma di oppressione sottende non solo il femminismo contemporaneo, ma anche i rapporti razziali e le discussioni sul multiculturalismo”. In base a questa nuova problematica del “riconoscimento” legato alla questione dell’ “autenticità”, l’odierna cultura, scrive Taylor,  ha elaborato in modo nuovo da una parte il concetto di equità, che ora “include, come comprendiamo con sempre maggiore chiarezza, il riconoscimento universale della differenza, ovunque essa sia rilevante riguardo all’ identità, e quindi sul terreno così del genere come della razza, così della cultura come dell’ orientamento sessuale”; e dall’altra, nella sfera personale, ha maggiormente messo in luce come “il rapporto d'amore ha un'importanza fondamentale nella formazione dell'identità” .

E ciò nonostante Taylor non si mostra convinto del fatto che un “riconoscimento” delle identità  senza “riconoscimento” delle differenze, come sembra oggi affermarsi, sia la soluzione che garantisca un vero “riconoscimento. Per questo si chiede:  “che cosa fonda l'eguaglianza di valore?... La mera differenza non può di per sé essere il fondamento dell’ eguale valore. Se gli uomini e le donne sono eguali, non è perché sono differenti, ma perché al di sopra della differenza stanno alcune proprietà, comuni o complementari, che hanno un valore. Gli uni e le altre sono esseri capaci di ragione, o d’amore, o di memoria, o di riconoscimento dialogico. Per poter convergere in un mutuo riconoscimento della differenza  ossia dell’egual valore di identità diverse  occorre che condividiamo qualcosa di più della credenza in questo principio. Dobbiamo condividere altresì certi standard di valore, alla cui stregua le identità in questione risultino eguali. Deve esserci una qualche intesa sul merito dei valori, o altrimenti il principio formale dell’ eguaglianza sarà vacuo e inconsistente. Possiamo prestare un omaggio verbale al riconoscimento eguale, ma non condivideremo realmente un concetto di eguaglianza finché non avremo in comune qualcosa di più. Il riconoscimento della differenza, come l’ autoscelta, esige un orizzonte di significati, e in questo caso un orizzonte condiviso”  . Possiamo dire che in queste affermazioni venga sintetizzata tutta la posizione di Taylor sulla questione del “riconoscimento”: l’identità personale non si può realizzare compiutamente senza il “riconoscimento” da parte di altri; ma un “riconoscimento” delle differenze senza riferimento ad un ordine di valori condivisi, e che possano essere valori per tutti, finisce per svuotare di significato il riconoscimento stesso.

Analoghe osservazioni Taylor conduce circa un altro importante valore della modernità: la libertà. Ora, l’affermazione delle libertà individuali è certamente una conquista della modernità; e tuttavia, osserva Taylor, se essa viene coniugata unitamente all’ideale dell’autenticità, finisce per divenire semplicemente “autodeterminazione”. “La libertà che si autodetermina è in parte la soluzione che la cultura dell’autenticità produce spontaneamente quando tutte le altre scompaiono alla vista; ma è al tempo stesso la sua maledizione, perché accentua ulteriormente l’ antropocentrismo. Il suo frutto è l’instaurazione di un circolo vizioso, che ci conduce a un punto in cui l’unico grande valore che ci resta è la scelta stessa” . Taylor ritiene pertanto che l’identità personale non possa costituirsi in modo autentico  e libero senza il riferimento ad un ordine di valori morali, mediati dalla tradizione di appartenenza, i quali non sono interscambiabili a motivo di scelte soggettive, e proprio in quanto tali fondano il processo del “riconoscimento” intersoggettivo, sia sul piano personale che sociale. Sebbene anche Taylor non faccia riferimento ad un’etica fondata sulla natura, egli si oppone fortemente ad un relativismo etico che, per salvaguardare le “differenze”, rinuncia anche ai valori. E pur affermando in modo forte la necessità del “riconoscimento” delle differenze: “Come tutti devono avere diritti civili uguali e diritti di voto uguali indipendentemente dalla razza o dalla cultura, così per tutti si dovrebbe presumere che la loro cultura tradizionale abbia valore” ,  tuttavia sostiene che il perseguire, da parte delle società liberali, una pura politica delle  “pari dignità” delle culture, conduca fatalmente ad un altro tipo di “disagio della modernità”, costituito dalla “cecità alle differenze”. Rifacendosi anch’egli alla teoria della “fusione di orizzonti”, formulata da Gadamer , Taylor scrive: “ Un vero giudizio di valore presuppone…la fusione degli orizzonti normativi; presuppone che lo studio dell’altro ci abbia trasformato al punto che non giudichiamo più solo coi nostri criteri originali” . Ma scrive anche: “Il liberalismo dell’ eguale dignità non può non postulare che esistano dei principi universali e ciechi alle differenze. Possiamo non essere ancora riusciti a definirli, ma il progetto della loro definizione rimane vivo ed essenziale. E possiamo proporre e mettere a confronto varie teorie…ma tutte avranno in comune un’assunzione: una di loro è giusta” .

E’ chiaro il rifiuto di Taylor non solo del relativismo culturale, ma anche del relativismo etico, del relativismo dei valori, e del relativismo cognitivo. Ora ci si può chiedere perché, nonostante tanti interessi in comune e tanta vicinanza di punti di vista, Habermas sia spinto a criticare l’impostazione data da Taylor all’etica del “riconoscimento”.  Possiamo individuarli in questo passo, tratto dal testo di un dibattito pubblico con Taylor:  “Liberalismo  è per Taylor quella teoria secondo cui a tutti i consociati vengono garantite, sotto forma di diritti fondamentali, eguali libertà soggettive: in caso di conflitto i tribunali decidono quali diritti spettano a chi. Ma così il principio dell’ eguale rispetto si esprimerebbe soltanto in quell’autonomia giuridica di cui l’ individuo si serve per realizzare un proprio progetto di vita. Questa lettura del sistema dei diritti rimane paternalistica in quanto dimezza il concetto di autonomia. Essa trascura il fatto che i destinatari del diritto possono acquistare autonomia (in senso kantiano) solo nella misura in cui possono intendersi anche come gli autori delle leggi cui si assoggettano in quanto privati. Il liberalismo  misconosce la cooriginarietà di autonomia privata e autonomia pubblica. Non si tratta qui di una integrazione meramente estrinseca dell’ autonomia privata, bensì di una connessione interna e concettualmente necessaria. In fin dei conti, i soggetti giuridici privati non potrebbero neppure godere di pari libertà individuali se prima non stabilissero chiaramente esercitando insieme la loro autonomia civica  quali siano i loro interessi e criteri legittimi, nonché gli aspetti rilevanti con cui trattare in maniera eguale l’ eguale e in maniera diseguale il diseguale”. Non esiste per Habermas un orizzonte di valori etici universali cui fare riferimento, perché anche quei valori – secondo la propria concezione del “liberalismo” e la personale interpretazione di Kant- devono essere il frutto di un’intesa intersoggettiva, in un pubblico dibattito in cui unica regola è l’ “etica dell’intesa”.

Pluralismo, postsecolarismo e religione

Due tematiche presenti nella riflessione di Habermas hanno attirato in particolar modo l’attenzione della cultura cattolica, a differenza di Taylor . Sia Habermas  che Taylor infatti si sono occupati della “crisi della modernità”, le cui istanze immanentiste nel campo della cultura, della società e dell’etica avevano prodotto il “secolarismo”, ovvero l’esclusione dalla vita sociale e culturale degli stati moderni della presenza religiosa. Ora Habermas ritiene piuttosto che siamo entrati in un’epoca di “postsecolarismo”, in cui non solo assistiamo alla presenza rilevante delle religioni, ma in cui la stessa cultura laica e moderna debba prendere in seria considerazione l’apporto che le religioni offrono allo sviluppo della vita civile. “Come ha scritto Francesco Saverio Trincia, ‘postsecolare’ è una filosofia che ‘si mostra capace di riattivare il percorso inverso che muove dal sapere mondano, e dal saeculum in genere, per giungere a riprendere contatto con l’ universo ‘altro’ della fede religiosa. Tale percorso è ‘inverso rispetto al processo ‘discendente’ in cui consiste la vicenda della secolarizzazione, nel corso della quale, con le parole di Habermas ‘le forme di pensiero e di vita religiose vengono sostituite da equivalenti razionali, comunque superiori’” . Postsecolarismo, per Habermas, significa di conseguenza  che nella società della comunicazione globale i due linguaggi che si sono finora contrapposti e combattuti nell’epoca moderna della scolarizzazione, ovvero il linguaggio laico e il linguaggio religioso, devono tornare a comprendersi, non per il predominio dell’uno o dell’altro, ma per giungere ad una intesa capace di fecondare entrambi con un reciproco apporto positivo. Ciò significa uscire dalla modernità e rompere il legame indissolubile che essa aveva istituito con la secolarizzazione; ma significa soprattutto dare voce pubblica alle religioni, e consentire che esse intervengano nel pubblico dibattito riconoscendo ed accettando il loro linguaggio secolare anche su tematiche secolari.

Questo secondo aspetto del pensiero di Habermas  è stato indubbiamente stimolante per il pensiero cattolico, perché esso giustifica, anche in base ai principi laici delle odierne democrazie, il diritto delle religioni a partecipare in quanto tali alla vita pubblica ed anzi ad essere riconosciute nella loro identità e veder riconosciuti i loro contributi. E non è un caso che dal confronto su queste tematiche sia nato lo stimolante volume  Ragione e fede in dialogo, che raccoglie i contributi di Jürgen Habermas e di Joseph Ratzinger. “Nella consapevolezza pubblica di una società postsecolare si riflette piuttosto una visione normativa che ha conseguenze per i rapporti politici tra cittadini non credenti e credenti. Nella società postsecolare si impone il riconoscimento del fatto che la ‘modernizzazione della consapevolezza pubblica’ coinvolge e rende riflessive mentalità, religiose e laiche, asincrone. Entrambe le parti possono dunque prendere sul serio i reciproci contributi su temi controversi nell'opinione pubblica politica anche per motivi cognitivi, se intendono insieme la secolarizzazione della società come un processo di apprendimento complementare” . Non solo, ma c’è addirittura un punto in cui, secondo Habermas, le religioni, e in particolare il cristianesimo, risultano preziose e indispensabili alla società postsecolare affinché essa non ricada in una aberrante modernizzazione, in cui dominano i mercati,  esaurisca il senso della solidarietà, esalti il privato sul pubblico,  trasformi i cittadini in monadi isolate,  affievolisca la speranza nella comunità internazionale,  assista impotente alla depoliticizzazione dei cittadini nel contesto di un’ economia e di una politica globalizzate; ed  è il fatto che l’afflato messianico e la forte istanza etica del cristianesimo devono  costituire, nell’ambito delle società postsecolari, non solo termini di un dialogo fondato sul “riconoscimento”, ma una vera “sfida cognitiva”, capace di mettere in discussione i limiti della stessa ragione postsecolare: “Per questo vorrei far entrare nella discussione il fenomeno della persistenza della religione in un ambiente sempre più secolare, assumendolo, però, non in qualità di semplice dato di fatto sociale. La filosofia deve prendere sul serio questo fenomeno, per così dire, dall’ interno, assumendolo come una sfida cognitiva”. Habermas ritiene pertanto importante che la religione, e le Chiese, rappresentino un elemento indispensabile nel contesto delle odierne democrazie postsecolari, perché correttivo di tutti quegli errori e deviazioni che una ragione autoproclamatasi autonoma, ha perpetrato nella modernità.

Ora, è proprio questa “sfida cognitiva” che è stata raccolta da Joseph Ratzinger nel suo dialogo con Habermas. Se Habermas ha onestamente riconosciuto le patologie di una ragione proclamatasi autonoma nella modernità, Ratzinger riconosce non solo che  le religioni possono esercitare un influsso benefico nella società, ma che possono presentare anche fenomeni patologici, come il fondamentalismo foriero di terrorismo. Per questo suggerisce che si apra un leale confronto pubblico tra ragione postsecolaristica e fede cristiana, capace di fecondare entrambe nella verità e per un umanesimo autentico: “Di conseguenza parlerei della necessità di un rapporto correlativo tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca chiarificazione e devono far uso l’ una dell’ altra e riconoscersi reciprocamente” . Poiché tale confronto avviene tra fede cristiana e razionalità laica, entrambe prodotti dell’occidente, ciò significa forse escludere le altre culture? “Ciò non significa però che sia lecito accantonare le altre culture come un’ entità in qualche modo trascurabile. Ciò sarebbe una hybris occidentale, che pagheremmo cara e in parte già paghiamo. E’ importante per entrambe le grandi componenti della cultura occidentale acconsentire ad un ascolto, ad un rapporto di scambio anche con queste culture. E’ importante accoglierle nel tentativo di una correlazione polifonica, in cui esse si aprano spontaneamente alla complementarità essenziale di ragione e fede, cosicché possa crescere un processo universale di chiarificazione, in cui infine le norme e i valori essenziali in qualche modo conosciuti o intuiti da tutti gli esseri umani possano acquistare nuovo potere di illuminare, cosicché ciò che tiene unito il mondo possa nuovamente conseguire un potere efficace nell’ umanità”  . Ratzinger si sofferma dunque, nel suo dialogo con Habermas, sulla chiarificazione di quella “sfida cognitiva” che può riformulare nel linguaggio odierno il classico tema del rapporto tra ragione e fede, e può far crescere entrambe per una reciproca purificazione e chiarificazione, che ha poi valore non solo cognitivo, ma etico e sociale. Inoltre, ritiene che questa nuova alleanza tra ragione e fede sia capace di fare uscire sia la ragione occidentale che lo stesso cristianesimo dalle secche di un approdo secolaristico senza futuro. Ma Ratzinger in questo testo non si sofferma sui principi fondativi dell’ “etica dell’intesa” formulati da Habermas, i quali non presuppongono verità e nemmeno diritti universali preordinati, né intendono fare riferimento a valori che possono essere condivisi, facendo unicamente affidamento al principio dell’intersoggettività, capace di per sé di legittimare verità e valori. Ratzinger tuttavia individua implicitamente  il rischio della posizione di Habermas, come quello di legittimare, in nome dell’intesa e dell’etica del riconoscimento, le procedure di una maggioranza, indipendentemente dal riferimento a quei valori che Taylor metteva in campo, o alla giustizia “ragionevole” di Rawls.  Il pensiero di Ratzinger, anche in questo testo, è ben chiaro: “Il principio di maggioranza lascia pertanto sempre aperta la questione dei fondamenti etici della legge: la questione se non esista qualcosa che non può mai diventare legittimo, qualcosa dunque che di per sé rimane sempre un’ ingiustizia, oppure al contrario anche qualcosa che per sua natura è legge immutabile, a prescindere da ogni decisione della maggioranza, e che da essa deve essere rispettata” .

 

La logica del dono: Ricoeur

Nel suo ultimo libro  Percorsi del riconoscimento, Ricoeur offre una riflessione sull’etica del “riconoscimento” nella quale è forse possibile far convergere la ragione laica e quella religiosa, offrendo al pensiero cattolico un contributo prezioso.  Sintetizzando numerose tematiche che hanno tracciato il suo “long détour” ermeneutico, Ricoeur si sofferma in primo luogo sull’importanza del linguaggio, perché ogni cultura è mediata dal linguaggio e perché , di conseguenza, è nel linguaggio che avviene la prima “hospitalité langagière” nei confronti della lingua dell’altro, dell’estraneo, che deve essere insieme riconosciuto nella sua alterità linguistica e semantica, ma anche accolto nella propria dimora linguistica, resistendo tuttavia “ alla pulsione che spinge ad appropriasi dell’altro, dello straniero, dell’estraneo, tra-ducendolo nelle proprie categorie di pensiero”.  Con grande finezza Ricoeur scioglie semanticamente  i diversi significati racchiusi nel termine francese “reconnaissance”: "1) Cogliere (un oggetto) con la mente, con il pensiero, collegando tra loro immagini, percezioni che lo riguardano; distinguere, identificare, conoscere tramite la memoria, il giudizio o l’ azione; 2) Accettare, ritenere come vero (o ritenere come tale); 3) Testimoniare con la gratitudine di essere debitori nei confronti di qualcuno” . L’analisi semantica svela la dimensione etica racchiusa nel termine “riconoscimento”, dimensione etica che precede quella eidetica e quella politica, e dovrebbe costituire il vero senso - laico e cristiano- del “riconoscimento”. Qui Ricoeur si fa vicino al pensiero di Emmanuel Lévinas, che approfondiva la tematica del “volto” nel senso etico del “riconoscimento”: “Il ‘tu non ucciderai’ è la prima parola del volto. Ora, questo è un ordine. Nell’apparizione del volto c’è un comandamento, come se mi parlasse un maestro. Tuttavia, al tempo stesso, il volto d’altri è spoglio; è il povero per il quale io posso tutto e al quale debbo tutto. E io, chiunque sia, ma in quanto prima persona, sono colui che ha delle risorse per rispondere all’appello”   . La nudità del volto dell'altro è infatti biblicamente, per Lévinas, quella dell'estraneo e dello straniero, del povero, dell'orfano, della vedova. Ed è questa “nudità” che prima di tutto bisogna saper “riconoscere”, se vogliamo dare dignità etica e responsabile alle nostre azioni.  “La responsabilità è ciò che mi incombe in modo esclusivo e che, umanamente, io non posso rifiutare. ...Sono io nella misura in cui sono responsabile..Io posso sostituirmi a tutti, ma nessuno può sostituirsi a me...E’ in questo senso preciso che Dostoevskij dice: ‘Noi siamo tutti responsabili di tutto e di tutti, davanti a tutti ed io più di tutti gli atri”. Ritengo personalmente che queste parole di Lévinas debbano essere prese molto sul serio, anche dai cristiani. Sono parole ispirate alla Legge, letta alla luce della “fede dei Profeti”, e per questo parole universali dell’etica, alle quali il messaggio evangelico dell’amore dà compimento ma non abolisce. Da esse è possibile trarre un fondamentale insegnamento etico, con il quale tutti siamo chiamati a confrontarci. L’etica del “riconoscimento” impone infatti anche il “dovere” di riconoscere  l’ “altro”, il “volto” che ci passa accanto- dello straniero, dell’orfano e della vedova; ma anche dell’amico, del compagno di lavoro, del fratello e persino, evangelicamente, del nemico, - perché il “non riconoscimento”, il non riconoscere all’altro la possibilità di esprimere la sua identità e la sua autenticità, significa ucciderlo. “Chiunque avrà detto a suo fratello raca …”(Mt., 5,22), si potrebbe interpretare nel nostro contesto: chiunque non lo abbia “riconosciuto”.

Per questo sapientemente Ricoeur collega al “riconoscimento” anche la “riconoscenza”,  che nasce quando riconosciamo che l’altro è un dono per noi. In Amore e giustizia Ricoeur approfondisce questo difficile rapporto dell’etica, fondata sul “riconoscimento” dell’altro, e quindi sull’amore, con la giustizia, fondata sulla pura logica distributiva degli oneri e dei compiti, e quindi sul reciproco disinteresse che impedisce il “riconoscimento”, e giunge a scrivere che "l'incorporazione tenace, via via, di un grado supplementare di compassione e di generosità in tutti i nostri codici - dal codice penale alle norme di giustizia sociale - costituisce un compito perfettamente ragionevole, benché difficile e interminabile" . Questa incorporazione dell’etica del “riconoscimento” nelle norme della giustizia sociale rappresenta per Ricoeur l’ideale regolativo di una società democratica nuova, capace di far crescere la solidarietà e la fraternità come fattori di antidoto  alle “mancanze di riconoscimento” che, sul piano interpersonale e degli stessi stati,  sono all’origine delle tensioni, delle lotte e dei conflitti .

Non a caso quindi , in Percorsi del riconoscimento, Ricoeur ritiene che per uscire dalla logica della violenza, del dominio dell’uomo sull’uomo, dei conflitti armati tra gli stati, sia necessario soprattutto uscire dalla concezione moderna della politica, fondata sulla visione di Hobbes, secondo cui solo il “contratto” tra le parti impedirebbe l’‘“homo homini lupus”.  Ricoeur oppone coraggiosamente, alla logica hobbesiana, la logica del “dono”, fondata sull’etica del “riconoscimento”. La logica del dono non è solo quella contrattualistica dello scambio e della reciprocità, ma è piuttosto quella della gratuità e della generosità, è, come egli si esprime,  la logica della “festività dell’esistenza”. L’etica del “riconoscimento” impone allora che si prendano a modello dei rapporti tra persone e tra nazioni, non gli stati di guerra ma gli stati di pace. “La tesi che vorrei argomentare … si riassume nel modo seguente: l'alternativa all'idea di lotta nel processo del mutuo riconoscimento va ricercata nelle esperienze pacificate del mutuo riconoscimento, le quali si basano su mediazioni simboliche che si sottraggono tanto all'ordine giuridico quanto all'ordine degli scambi commerciali; il carattere eccezionale di queste esperienze, lungi dallo squalificarle, ne sottolinea la gravità e per ciò stesso ne assicura la forza di irradiazione e di irrigazione nel cuore stesso delle transazioni contrassegnate dal sigillo della lotta” . Ricoeur non teme allora di introdurre in un discorso etico-politico, il termine agape: “l'agape compie un passo in direzione della giustizia assumendo la forma verbale del comandamento "tu amerai" che Rosenzweig, nella Stella della redenzione, contrappone alla legge e alla sua costrizione morale. Il comandamento che precede ogni legge è la parola che l'amante rivolge all'amata: amami! E’ l'amore stesso che si raccomanda tramite la tenerezza della sua obiurgazione; oserei parlare qui di un uso poetico dell'imperativo, prossimo all'inno e alla benedizione” . Perché è solo l’agape che segna, come ha scritto in un bel volume Enzo Bianchi, la “differenza cristiana”.

E’ un cammino lungo quello che ci propone  Ricoeur, perché è un cammino che senza soluzioni di continuità attraversa l’etica, la politica, la giustizia, il futuro stesso di pace; e tutto nell’orizzonte dell’agape.  “È ora possibile tornare alla questione … concernente il rapporto tra la tematica della lotta per il riconoscimento e la tematica degli stati di pace. Ci eravamo chiesti quando un individuo possa ritenersi riconosciuto, e se la domanda di riconoscimento non corra il rischio di essere interminabile” ;  si, risponde Ricoeur, “la lotta per il riconoscimento resta forse interminabile”; e tuttavia dobbiamo convincerci che “ le esperienze di riconoscimento reale nello scambio dei doni, principalmente nella loro fase festiva, conferiscono per lo meno alla lotta per il riconoscimento l'assicurazione che la motivazione per cui essa si distingue dalla sete di potere, e che la pone al riparo dal fascino della violenza, non era né illusoria né vana” .

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