top of page

Schibboleth.

Per una rifondazione del concetto di laicità

 

di Elio Matassi

 

L’espressione ‘Schibboleth, in cui si riconoscono un gruppo di intellettuali che guarda con grande attenzione (ed anche con un po’ di apprensione)la nascita del Partito Democratico, è sicuramente molto di più di una semplice suggestione letterario-filosofica. L’origine-costellazione semantico-concettuale si può ritrovare nella silloge dedicata da Jacques Derrida al grande poeta di lingua tedesca Paul Celan, Schibboleth-pour Paul Celan, in cui viene ad indicare in primo luogo il valore della con-divisione, un valore che esprime contestualmente “la differenza, la linea di demarcazione o lo spartiacque, la scissione, la cesura, quanto, d’altra parte, la partecipazione…”. Si tratta di un paradigma prezioso per il legame indissolubile istituito tra differenza, linea di demarcazione e partecipazione/con-divisione e può essere utilizzato utilmente per una riformulazione del concetto di laicità che sia in grado, senza avventurarsi in semplificatori ed impraticabili eclettismi, di rinnovare categorie e linguaggio del nascente Partito Democratico.

Rinnovamento che non potrà prescindere da questa struttura aperta di con-divisione e partecipazione; lo spazio politico riempito da tale con-divisione non dovrà mai essere alternativo alla realizzazione dell’individuo quanto piuttosto il luogo del confronto e del riconoscimento reciproco. Formulo alcuni esempi che possono chiarire concretamente il significato di tale, rinnovata condivisione della laicità, in primo luogo quello del crocefisso nei luoghi e nelle istituzioni pubbliche, tornato d’attualità nel dibattito contemporaneo. Può accettare un ‘laico’ questo simbolo, rientra nei canoni della sua identità? Io risponderei in maniera affermativa; quel simbolo è ormai coerente con una concezione estesa del concetto di laicità, rappresentando la testimonianza tangibile di un’identità comune, condivisa e non solo o, almeno, non più solamente da una parte della cittadinanza. A tal proposito ricordo le riflessioni del grande scrittore Elias Canetti, di fede ebraica, dinanzi al polittico della Crocefissione sull’altare di Isenheim ad opera di Matthias Grünewald: “Troppo spesso, forse, il compito più insostituibile dell’arte è stato dimenticato non è la catarsi né la consolazione, né il talento di disporre ogni elemento in funzione di un lieto fine. Perché il lieto fine non ci sarà… Che cosa possono le illusioni consolatorie davanti a questa verità. Essa è sempre uguale a se stessa e deve rimanere dinanzi ai nostri occhi. Tutti gli orrori che incombono sull’umanità sono anticipati in questo dipinto. Il dito di Giovanni mostruosamente lo dice: così è adesso, e così sarà ancora”. Stando di fronte a tale rappresentazione, che chiama direttamente in causa la sofferenza della Crocefissione, ad un certo punto Canetti scorge un volgarissimo ed imperturbabile ‘copista’ che si sta accingendo a ‘copiare’ Grünewald, come se ciò fosse possibile. Dietro l’atteggiamento del copista vi è una forma mentis che Canetti vuole colpire: l’arte è colpevole di tradire, edulcorandola, la realtà che riproduce-ripete; essa non rispetta, disperdendo la carica d’intensità, il pathos, il vero e proprio dramma che l’esperienza, al momento del suo accadere, secerne. Quella sofferenza, quel dramma fanno ormai parte della nostra identità con-divisa, rientrando a pieno titolo in quella che Norberto Bobbio ha definito in maniera letterariamente raffinata “la differenza del laico”. Il fastidio di Elias Canetti per la sdrammatizzazione implicita nell’atto del copista deve essere assunto come riconoscimento di un simbolo che non è più ‘di parte’ ma che accomuna il genere umano nel suo insieme.

Il mistero della Crocefissione, il suo dolore non sono molto diversi da quello che ancora Norberto Bobbio ha chiamato “senso del mistero” e che qualcun altro (di estrazione cattolica), per esempio, Luigi Lombardi Vallari in un bel saggio, Filosofia e spiritualità dello Stato laico, ha preferito definire “apofatismo”, in quanto approdo con Kant al koan, all’indicibile-inspiegabile-irrapresentabile. Un’identità con-divisa, in una nozione allargata di laicità, di cui non può far parte, invece, il progetto di una ‘religione civile’, che aspira ad utilizzare il cristianesimo per dare compattezza alla società. Ho molto apprezzato, per il suo equilibrio, la proposta contenuta nel Manifesto per un partito democratico. Un contributo teoretico, dei colleghi torinesi Ugo Perone, Luca Bagetto, Enrico Guglielminetti, Annamaria Pastore, Luciana Regina. Una proposta che si tiene a debita distanza sia dal progetto di una religione civile sia, d’altra parte, e con eguale nettezza, da quello di relegare il fatto religioso, data la sua valenza sociale, alla sola sfera privata. Nel primo caso ci troviamo dinanzi alla ripresa di quella che Gustavo Zagrebelsky definisce correttamente la dottrina del cardinale Roberto Bellarmino, in vigore dalla Controriforma in poi, ossia la dottrina della potestas indirecta in temporalibus. Una dottrina che, come giustamente si prospetta nel Manifesto, prima ricordato, il Partito Democratico deve respingere in toto: “Il progetto di una religione civile favorisce un cristianesimo accomodante, che si identifica nella difesa di un sistema invece di sollecitare i credenti al discernimento evangelico. La religione civile subordina la forza profetica del Vangelo all’uso strumentale di una fede condivisa…”. Dall’altra parte deve essere altrettanto profonda la ricusazione della marginalizzazione del fatto religioso alla sola sfera privata. Ancora nei termini stessi del Manifesto torinese: “La privatizzazione della fede, comprensibile come argine ad un totalitarismo invasivo, diviene invece in una società libera una regressione culturale, inconsapevolmente subalterna al principio della santificazione del privato. E ciò non confligge con il riconoscimento che la politica è spazio laico di neutralità, in cui i credenti non possono pretendere che le proprie convinzioni debbano diventare legge per tutti”. Principio che dovrà valorizzare il dialogo pubblico quale luogo elettivo per il confronto ed il riconoscimento dei valori.

   Ovviamente per una revisione-approfondimento del concetto di laicità non possono essere ignorati i problemi emersi nell’ultima parte del secolo XX, la sfida della globalizzazione e delle società multiculturali. Sono in proposito interessanti le risposte fornite in primo luogo da Habermas. Per il filosofo tedesco la società contemporanea è una società “postsecolare”, ossia una società che “deve prevedere il persistere di comunità religiose entro un orizzonte sempre più secolarizzato”. Una società compiutamente secolarizzata nella quale, tuttavia sia venuta meno la collisione fra una forma mentis laico-militante (laicista) e la forma mentis religiosa. L’auspicio conclusivo di Habermas, che si può largamente condividere è, dunque, quello della formazione di una “sfera pubblica polifonica” (l’aggettivazione musicale risulta in proposito molto pregnante), in cui le ragioni religiose e quelle secolari possano coesistere ascoltandosi reciprocamente. Una sfera pubblica, concepita come inclusiva e non esclusiva, che ponga fine all’ingiustizia di richiedere dallo Stato liberaldemocratico ai suoi cittadini credenti una suddivisione d’identità (in una parte pubblica ed in una privata). Un’interpretazione critica del paradigma francese di laicità, di cui rappresenta una versione alternativa importante, quando recita che “la generalizzazione politica di una concezione del mondo di tipo secolare non è compatibile con la neutralità ideologica del potere statale, che garantisce eguali libertà etiche per tutti i cittadini”. Ho scelto intenzionalmente Habermas e la sua proposta di una rifondata ed allargata nozione di laicità in quanto credo fermamente nella funzione di una rinnovata ‘teoria critica’ che sappia leggere nel profondo e filtrare criticamente l’idea di ibridazione che ha governato il destino della modernità occidentale. Un confronto pervasivo, retto dalla legge dell’ibridazione, perché non ha mai potuto cancellare del tutto il proprio ‘altro’. Una teoria critica che sappia coniugare alla democrazia che unifica attraverso l’inclusione - l’irrinunciabile universalità dei diritto-un’eguale sensibilità per le situazioni sociali ed oggi anche antropologico-culturali. Forse il destino dell’Occidente, diviso tra declino ed utopia e segnato dalle sue “convivenze difficili”, come recita il titolo di un bel libro di un allievo di Remo Bodei, Rino Genovese, sta proprio nella possibilità di colmare tale scarto, una possibilità ed una scommessa che il Partito Democratico deve essere in grado di interpretare fino in fondo.    

bottom of page