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“Avevamo la luna”. Una riflessione sui rapporti tra il centrosinistra e la rete.

 

di Elio Matassi

 

“Ritorno alla realtà” è il titolo dell’editoriale di Massimo Franco sul “Corriere della sera” di domenica 28 aprile, per commentare la nascita del governo Letta. L’argomentazione è la seguente: “il governo Letta segna il primo tentativo esplicito di pacificazione dell’Italia”, come se fossimo appena usciti da una guerra civile. La distinzione-contrapposizione parlamentare tra centrodestra e centrosinistra viene di fatto estinta dinanzi alla condizione presuntivamente emergenziale in cui verserebbe la nostra democrazia. Il maggior partito del centrosinistra, il Partito Democratico, rischia seriamente la dissoluzione, o quantomeno, la scissione, diventando del tutto irrilevante per i futuri scenari della politica.

Ancora una pesante sconfitta per la prospettiva del centrosinistra, una sconfitta che ha radici lontane. Proprio nelle ultime settimane Michele Mezza, nel suo libro, Avevamo la luna. L’Italia del miracolo sfiorato vista cinquant’anni dopo, (Donzelli, Roma 2013), si interroga sulle ragioni di tale sconfitta con un’analisi retrospettiva che riguarda, in particolare, i primi anni Sessanta e quella fondamentale innovazione implicita nella esperienza di Adriano Olivetti.

Salvatore Settis, proprio nel domenicale del Sole 24ore del 28 aprile, “Democrazia molecolare”, presenta lo scritto di Adriano Olivetti, Il cammino della comunità, uscito la prima volta nel 1959 e ripubblicato da poco. In questo progetto, “la comunità sarà un valore o un nuovo strumento di autogoverno”, esso nascerà come consorzio di comuni. E le comunità federate, daranno luogo esse solo alle regioni e allo Stato”. Una forma di “comunitarismo radicale”, così lo definisce Stefano Rodotà, che mette al primo posto la giustizia e la politica e, solo in subordine, l’economia.

Il ritardo del centrosinistra e

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della sinistra dinanzi a questi problemi viene denunziato nel libro di Michele Mezza a partire dalla mancata messa a fuoco dell’innovazione insita nella rete. I due aspetti, culturalmente eversivi, riguardano, nel primo caso, la prevalenza delle produzioni industriali dei fattori immateriali rispetto a quelli materiali. Il secondo aspetto, ancora più liberatorio del primo, per una sinistra consapevole della rete, concerne il capovolgimento tra oggetto e soggetto nel fattore lavoro, così recita Michele Mezza: “Nella nuova geometria produttiva del social network, il produttore diventa un agente negoziale che contende, in condizioni pressoché paritarie, all’impresa, il primato e la titolarità del prodotto” (p. 127).

Questo rovesciamento di piani coinvolge una nuova interpretazione di ciò che è comune, dell’ in-comune su cui la tradizione filosofica da Immanuel Kant a Jean-Luc Nancy si è sempre interrogata, come suggerisce ancora una volta molto bene Michele Mezza: “La rete, il mulino digitale, seleziona il commoner che condivide con il capitale contenitore e contenuto nel processo produttivo” (pp. 127-128).

Si tratta di un’indicazione preziosa che deve essere attentamente contestualizzata per quanto concerne i ritardi della sinistra, in particolare italiana, ma che non potrà prescindere dal contributo di coloro, come Evgeny Morozov in L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet (Codice Edizioni, Torino 2011), che mettono in guardia contro i rischi insiti in una enfatizzazione eccessiva del ruolo democratico e democratizzante della rete.

Quella di Mezza è comunque una riflessione da cui non si potrà prescindere per ristrutturare un centrosinistra e una sinistra finalmente vincenti.

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