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Il Manifesto della cultura, il governo Monti e il PD 

di Elio Matassi

Sta ormai venendo meno la fede cieca nel mito di un progresso incessante, che rimuove completamente quello che rappresenta la grandiosa immagine dell’Angelo di Klee nella nona tesi sul concetto di storia di Walter Benjamin. Questo angelo che, come annota qualcuno molto sottilmente, “sigla il nostro secolo con un segno indelebile”, presume, sempre secondo Benjamin, “il viso rivolto al passato. Là dove a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta”. 

Possiamo ancora in maniera plausibile chiamarci ‘progressisti’ dopo quest’immagine suggestiva di Walter Benjamin? Possiamo credere ciecamente in un paradigma di tempo lineare-progressivo, che dal passato procede in avanti verso il domani, in una concatenazione sequenziale degli eventi puramente ottimistica, presumendo sempre e comunque che il futuro debba essere migliore del presente? Non è forse venuto il momento storico di rinunciare a tale semplificatoria pregiudiziale con tutto ciò che essa ovviamente comporta? 

Il recente manifesto per la cultura, quello per la musica, concernente la “musica per tutti” presume una rivoluzione culturale su tutto il sistema formativo primario e secondario, ancora permeato dalla pregiudiziale neoidealistica, fortemente osteggiata dalle élites intellettuali, ma largamente presente e stratificata nella forma mentisdella stragrande maggioranza di coloro che sono preposti alla formazione. Un’azione che il Partito Democratico ha già iniziato ad elaborare ed a cui non è stata prestata sufficiente attenzione. La Commissione ministeriale Musica, in base a cui la musica, finalmente e per la prima volta, diventa coprotagonista della formazione giovanile dall’età di quattro fino a quella di sedici anni, con dignità eguale alle altre materie tradizionali (italiano, matematica, latino) è la premessa di questa rivoluzione culturale. La musica intesa non come un insieme di principi astratti, ma come pratica musicale, come possesso ed uso di uno o più ‘strumenti’ musicali.

Ovviamente si tratta di una scelta che rompe esplicitamente con una vetusta e pervicace tradizione filosofica, vincolata alla pregiudiziale del disprezzo intellettuale per la pratica strumentale (come non ricordare il sussiego nutrito da Socrate per il flautista?), un disprezzo che si fonda esclusivamente sulla presunta superiorità intellettuale del logos razionalistico su cui deve essere parametrata e registrata ogni altra forma di sapere ed in primo luogo quella musicale. 

Come mousikòs, il filosofo è colui che intreccia le relazioni, che sta nella koinonìa delle forme. In ciò sta la sua invisibilità, la sua inappariscenza. La sua posizione è, infatti, in un non-luogo, nel punto di conversione fra le figure e lo sfondo, fra l’essere e il non-essere, nell’indecidibile tra l’assoluto e il relativo, di qualcosa di molto simile al punto cieco della visione. La musica in quanto tale non possiede un codice specifico, proprio, potrà desumerlo solo dalla filosofia o, ancora meglio, da un certo modo d’intendere ruolo e finalità della filosofia. Può una simile modalità del filosofare essere messa in discussione? La risposta non può che essere affermativa. Si possono attingere spunti preziosi dalla filosofia del Novecento, penso in particolare alla filosofia di E. Bloch ed, in particolare, al capitolo 51 del Principio speranza, in cui viene decostruito il mito di Ovidio del dio Pan e della ninfa Siringa, da cui la genesi stessa della musica. Il dio Pan corteggia la ninfa, la rincorre e sembra perderla per sempre. La ninfa lascia nell’abbandono, dietro di sé alcune canne molto esili, il dio Pan non fa che raccoglierle, plasmarle fino a farle diventare un flauto, lo strumento musicale più originario, mette sulle labbra il flauto da cui esce un suono dolcissimo, l’unica maniera per riguadagnare un rapporto che si riteneva lacerato per sempre con la ninfa scomparsa. Fuor di metafora e, mutuando dal mito, uno schema teoretico: il destino del dio Pan è analogo a quello dell’uomo, un essere per natura indigente, carente; ma l’uomo ha la possibilità di riscattare questa sua vocazione ‘perdente’ con le sue stesse mani, perché con le sue stesse mani costruisce lo strumento, gli strumenti musicali attraverso cui capovolgere la prospettiva di partenza. La musica non è un dono venuto dall’alto, ma è strumento dell’identità umana, l’uomo l’ha costruita da se stesso per se stesso. Mai la pratica musicale ha ottenuto un così elevato riconoscimento filosofico. Come suggerisce lo stesso Bloch, “nell’espressione musicale proprio l’ordine intende una casa, anzi un cristallo, ma di futura libertà, un stella, ma come nuova terra”.

Il problema da porsi è ora quello di comprendere come questa ‘svolta’ nei parametri formativi possa incidere sulla ricusazione di un vacuo progressismo. La pratica musicale incide in maniera decisiva: l’individuo che fa musica con gli strumenti, l’individuo che ascolta non sono dimensioni monadiche, richiamando necessariamente un valore d’insieme, intrinsecamente comunitario. L’individuo della musica è un individuo-comunità, solidale e compartecipe. Il legame che s’istituisce nella e con la musica è un legame sociale, una intersoggettività che copre interamente l’area di quell’inter (fra) con contenuti non solipsistici, creando un reticolo relazionale molto profondo. 

In tal modo può essere infranto il progressismo vacuo e di maniera; l’esercizio della pratica musicale e dell’ascolto comportano necessariamente un ritorno alle nostre grandi tradizioni, al comune sentire nazionale. Solo su questa base si può auspicare il progresso. 

Una rivoluzione formativa come sintesi di tradizione e progresso e non come astratto pronunciamento di un progresso concepito come fine a se stesso.

Su questi temi Gabriel Albiac, filosofo e romanziere spagnolo, ha scritto in Diccionario de adioses pagine inquietanti e lucidissime. 

Si tratta di un progetto culturale e formativo, ormai ampiamente condiviso nel dibattito pubblico contemporaneo (si veda in proposito il ruolo svolto dall’inserto culturale del ‘Sole 24 ore’) e che il governo Monti non riesce ancora a fare proprio. 

Dovrà essere questo il compito precipuo del Partito Democratico, assumere la cultura e le nostre più grandi tradizioni come premessa di un nuovo sviluppo (anche economico), per uscire dall’empasse in cui il paese si trova attualmente. 

Senza questa svolta che mette al centro una vera e propria rivoluzione formativa diventerà veramente difficile far ripartire il paese per concepire una nuova fase di sviluppo.

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