Crisi dell’istruzione, democrazia, ideologia
di Elio Matassi
Nella contemporaneità, sul piano internazionale ma con virulenza ancora maggiore su quello nazionale, si assiste ad una crisi strisciante, di proporzioni e portata globali, dell’istruzione e del sistema formativo. Basti riflettere a quanto sta avvenendo nel nostro contesto specifico sia per quanto concerne la scuola pubblica sia per il sistema universitario nel suo complesso, investito del compito attuativo della recente riforma universitaria. Una riforma, concepita in modo particolare, per una devastazione sistematica degli studi umanistici, una delle più grandi tradizioni del nostro paese. Lo spostamento delle facoltà ai dipartimenti, di per sé corretta, dati i numeri prefissati, sta comportando come automatismo la scomparsa di dipartimenti e tradizioni di studi e di pensiero determinanti, rappresentato in larga misura dai dipartimenti di filosofia e da quelli del mondo antico.
Contro questo attacco, contro questa cecità priva di qualsiasi forma di lungimiranza, si stanno sollevando le proteste del mondo intellettuale più avvertito, caso esemplare è quello di Martha C. Nussbaum e del suo recente pamphleth, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, in cui si argomenta il rilievo e la centralità delle discipline umanistiche nella presente e futura società della conoscenza. Una società sempre più caratterizzata dalla complessità e, dunque, sul piano delle risposte, da una flessibilità sempre più mirata, che può essere garantita solo da una certa tipologia di studi.
Non è certo il caso di riproporre la ormai logora querelle sapere umanistico / sapere scientifico, ma diventa sempre più urgente la necessità di formare degli ‘specialisti – generalisti’ e non semplicemente degli ‘specialisti’ che nulla possono contro le sfide sempre più differenziate del mondo contemporaneo.
Diventa veramente assurdo che ad assumere questo trend, fortemente limitativo nei riguardi della tradizione classica, siano l’Europa e, più in particolare, l’Italia. Si può, invece, osservare che argomentazioni e ragioni della classicità, difese in maniera appassionata da Martha Nussbaum, stiano a fondamento dei sistemi educativi di altre parti del mondo, fuori da ciò che viene inteso comunemente come Occidente.
Tullio De Mauro, in proposito, ha osservato che le nazioni più dinamiche del mondo, Giappone, Cina, Israele esaltano nei loro rispettivi sistemi educativi proprio le lingue antiche che rappresentano le loro radici classiche. Tanto più sorprendente risulta la perdita di identità (a partire in primo luogo dalle proprie radici linguistiche) dell’Europa e, in modo particolare, dell’Italia. Una crisi che può essere considerata parallela e speculare a quella del nostro sistema democratico.
Inizio ad interrogare proprio questo aspetto, la crisi verticale dell’idea di democrazia nel nostro contesto nazionale e per farlo con la dovuta compiutezza utilizzo una formula di Daniel Bensaid, “secolarizzare la democrazia”, che significa laicizzare l’impianto democratico sottoponendolo ad una decostruzione che lo liberi da tutte le ambiguità e da tutti i possibili fraintendimenti.
Nella filosofia politica contemporanea viene sottolineato da più parti che oggi l’aggettivo – sostantivo ‘democratico’ è ormai svuotato di un significato autentico. Si può citare il caso di Wendy Brown che in Oggi siamo tutti democratici afferma: “Per quanto oggi goda di una popolarità globale senza precedenti nella storia, la democrazia non è mai stata così concettualmente evanescente e vuota nella sostanza”.
Un lavoro di decostruzione sistematica della democrazia è stato compiuto da uno dei nostri intellettuali più noti a livello internazionale, Giorgio Agamben, che nel suo recente Il regno e la gloria ha cercato di mostrare come “il vero problema, l’arcano centrale della politica non è la sovranità, ma il governo, non è Dio, ma l’angelo, non è il re ma il ministro, non è la legge ma la polizia – ovvero più precisamente, la macchina governamentale che essi formano e mantengono in movimento. Il sistema politico dell’occidente risulta dall’articolazione di due elementi eterogenei, che si legittimano e danno consistenza a vicenda: una razionalità politico – giuridica ed una razionalità governamentale, una ‘forma di costituzione’ e una ‘forma di governo’”. Fino a che non sarà compiutamente sciolta quella che Giorgio Agamben definisce una “anfibolia”, non si riuscirà ad uscire dall’empasse democratico, a quella che costituisce la segreta ideologia della democrazia, fino a che non sarà chiarito il nesso, interno alla democrazia, che congiunge strettamente la democrazia come forma di costituzione e la democrazia come tecnica di governo, ogni altra discussione non potrà neppure essere avviata. Si tratta di riflettere con radicalità su quella che Giorgio Agamben definisce la “nota preliminare ad ogni discussione sul concetto di democrazia”.
Ulteriori riserve sull’ideale democratico sono state sollevate a partire dal celebre testo Sulla democrazia in America di Alexis de Tocqueville: “Ho una predilezione intellettuale per le istituzioni democratiche, ma per istinto sono aristocratico, cioè disprezzo e temo la folla. Amo profondamente la libertà, il rispetto dei diritti”.
Nella contemporaneità anche Pierre Rosanvallon ha diagnosticato un malessere democratico che si manifesterebbe attraverso la “desacralizzazione della funzione elettiva”, “la perdita di centralità del potere amministrativo” e la “svalutazione della figura del funzionario”.
Al trionfo della democrazia corrisponderebbe specularmente il preludio alla sua perdita: “le frontiere tra le forme di sviluppo positivo dell’ideale democratico e le condizioni della sua perversione”. Le derive minacciose dell’antipolitica e della depoliticizzazione potranno essere scongiurate solo “se si affermerà la dimensione propriamente politica della democrazia”.
Bisogna precisare in primo luogo quale sia questa dimensione propriamente politica della democrazia, precisazione che presume un ulteriore distinzione che concerne il politico, che non può essere riducibile all’organizzazione dei poteri o alla capacità di designare il ‘nemico’, e, ancor meno, ad un semplice sistema di obbedienza e di comando. L’equivoco da cui è necessario liberarsi concerne la confusione tra la dimensione politica e quella statuale. Il vizio d’origine del potere statuale sta, infatti, ne presumere che possa coincidere immediatamente con la società, rappresentandola. Si tratta di un rovesciamento degli effettivi termini in questione: non è il potere a determinare le forme sociali ed i valori culturali, ma, viceversa sarà proprio la codificazione dei valori culturali e delle forme sociali a determinare i sistemi di potere. Questo vizio conduce direttamente alla tirannide ed è uno schema mutuabile dall’assolutismo romano.
In Europa la politica è apparsa in Grecia contemporaneamente alla democrazia, o meglio ancora è apparsa in quanto democrazia. Non si tratta di una circostanza casuale. Se si postula che la partecipazione alla vita pubblica è il mezzo migliore per l’uomo di realizzare se stesso e di esercitare la sua libertà, come auspica una tradizione di pensiero che annovera tra i suoi punti di riferimento Aristotele e Hannah Arendt, allora sarà necessario riconoscere che la democrazia non è il meno cattivo dei sistemi politici, ma è proprio il migliore ed anche forse l’unico che possa essere considerato autenticamente politico, risultando anche il solo il cui principio poggia sulla partecipazione del maggior numero di persone agli affari pubblici. In ultima analisi, la democrazia prima di essere rappresentativa, è partecipativa.
A minacciare oggi l’ideale democratico è l’ideologia economica, il trionfo delle elites oligarchico – finanziarie, il supercapitalismo, come viene ampiamente dimostrato dall’attuale situazione internazionale e nazionale.