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Libero mercato, crisi finanziaria, etica, democrazia

di Elio Matassi

Sempre più, nella contemporaneità ci si interroga sulla democrazia liberale e in generale sulla natura stessa della democrazia; basti ricordare, per quanto concerne il nostro panorama nazionale, gli interventi di Massimo L. Salvadori che inquadra il problema nella formula Democrazie senza democraziae Michele Ciliberto nella sua Democrazia dispotica. Nel primo caso ci si interroga sul “rapporto che corre tra la democrazia come ideale e le sue forme di attuazione, di illustrare le ragioni per cui l’ideale è entrato in rotta di collisione con la realtà”. Slavadori coglie molto bene il processo di progressivo svuotamento cui è stato sottoposto il paradigma democratico nell’era dell’economia globalizzata dove a dominare senza alcun controllo sono le nuove élites economico –tecnocratiche che si sovrappongono alle democrazie parlamentari. 

Il caso di Michele Ciliberto è altrettanto interessante e esemplare; l’estenuarsi della democrazia rappresentativa ha come sui naturale pendant ’affermarsi di democrazie dispotiche, autoritarie, che presumono di essere al di sopra/al di fuori di qualsiasi controllo come di fatto avviene in maniera sempre più radicale per l’attuale blocco neopopulista che costituisce la maggioranza parlamentare nel nostro Paese.

Queste degenerazioni sono accidentali, congiunturali si esprimono piuttosto una crisi dell’ideale democratico? E questa crisi quali origini presume?

In alcune linee di tendenza la filosofia politica contemporanea ha cercato di rispondere mettendo in discussione in particolare il proprio status, il proprio modo di essere; penso soprattutto ad alcuni esponenti francesi  quali Miguel Abensour con il suo Hannah Arendt contro la filosofia politica?, proposto di recente all’attenzione della nostra lingua ma anche ad altri interventi, molto incisivi, quali De la compacité. Architecture et régimes totalitairese Pour une philosophie critique. Entro quest’ottica peculiare l’espressione stessa di ‘filosofia politica’ è ossimorica, in quanto filosofia e politica appartengono a prospettive alternative.

La suggestione fondante di una tale linea di ricerca è di Hannah Arendt, del suo sostanziale antiplatonismo; come suggerisce lo stesso Abensour: “la filosofia politica avrebbe innanzitutto il torto di essere il frutto dello spirito corporativo dei filosofi. Oggetto della ricerca non sarebbe più la questione della città, della città buona, ma il rapporto del filosofo alla città. Alla domanda sul regime politico migliore si sostituirebbe la ricerca del regime capace di proteggere il filosofo dalle passioni della moltitudine”.

L’autentico punto di svolta sta in una penetrazione ermeneutica alternativa prospettata dalla stessa Arendt del celebre mito platonico della caverna. La ‘caverna’ diventa la grande icona-metafora dell’intrinseca a-politicità dell’essere umano, una condizione in cui sono assenti parole e azioni, che potrebbero solo essere gestite ‘dall’alto’: “…Nella rappresentazione che propone della condizione umana, Platone ignora tutto ciò che è atto a favorire la nascita della politica, ignora le condizioni di possibilità della politica, la parola e l’azione. Dunque Platone edifica il suo progetto di filosofia politica… a partire da una condizione umana apolitica, o anche impolitica. Il filosofo, dopo aver contemplato le idee e la verità suprema o l’idea del bene, ridiscende nella caverna, per codificare il comportamento dei suoi abitanti, per sottometterne la condotta a un insieme di norme che viene a imprimersi dall’esterno”.

Il mito della caverna e dei prigionieri si sostenta su un’interpretazione negativa dell’agire politico; per questo Arendt trae ispirazione da un testo, apparentemente distante dalla politica, come la Critica della facoltà del giudiziodi Immanuel Kant, nella concezione, argomentata a partire dal paragrafo 21, del ‘senso comune’ come “condizione di possibilità” della “comunicabilità universale”, ossia sul riconoscimento della singolarità, di ogni singolarità nella sua differenza specifica.

Con questo inquadramento critico del pensiero politico arendtiano, Abensour si ricongiunge con le origini del giacobinismo rivoluzionario francese di Saint-Just, cui viene dedicato un saggio politico rilevante quale introduzione alle opere complete.

Analoga alle argomentazioni critiche di partenza, almeno per quanto concerne la diagnosi generale, è la prospettiva di Jaques Rancière, esposta ne Il disaccordo.

Rancière come Abensour si ispira ad Arendt per metter in discussione sin dalle fondamenta l’idea stessa di ‘filosofia politica’, di una filosofia politica che si limiti, anestetizzandolo speculativamente, ad esorcizzare il conflitto. Anche Rancière si fa promotore di una ‘filosofia politica critica’ che riesca reintrodurre la dimensione politica nello spazio pubblico a partire dal riconoscimento compiuto del conflitto e non sulla sua marginalizzazione. 

Si tratta, in ultima analisi, di prospettive teoriche che nascono sulla base di un riesame della democrazia rappresentativa, che riduce progressivamente gli spazi del dissenso e del conflitto. 

Le ‘democrazie senza democrazia’, le ‘democrazie dispotiche’ sono quelle forme di democrazia liberale-rappresentativa che segnalano la deriva involutiva dell’ideale democratico.

Per dare una risposta ‘forte’ alle perplessità sollevate dalla politologia e dalla filosofia politica critica contemporanea, è necessario partire dall’equazione libero mercato=democrazia liberale rappresentativa. Un’equazione che sta a monte del libro del politologo di origine nipponica Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, le cui premesse è utile riportare per intero: “Le lontane origini del presente volume vanno ricercate in un mio articolo intitolato, Siamo forse alla fine della storia?, scritto per la rivista ‘The National Interest’ nell’estate del 1989. Io stesso sostenevo come in questi ultimi anni fosse emerso in un gran numero di Paesi un notevole consenso verso la legittimità della democrazia liberale come sistema di governo, vincente nei confronti di ideologie rivali quali la monarchia ereditaria, il fascismo ed ultimamente anche il comunismo. Non solo, ma aggiungevo che la democrazia liberale avrebbe potuto costituire addirittura ‘il punto d’arrivo dell’evoluzione ideologica dell’umanità’, e ‘la definitiva forma di governo tra gli uomini’, presentandosi come ‘la fine della storia’. Mentre infatti le precedenti forme di governo erano state caratterizzate da vari difetti e irrazionalità che avevano finito per provocare il crollo, la democrazia liberale pareva immune da contraddizioni interne tanto profonde. Con questo non intendevo dire però che in democrazie stabili come sono attualmente quelle degli Stati Uniti, dalla Francia o dalla Svizzera non vi fossero ingiustizie o gravi problemi sociali, ma solo che questi problemi riguardavano l’incompleta attuazione dei due principi della libertà e dell’eguaglianza sui quali si fonda al democrazia moderna, piuttosto che non difetti degli stessi principi. E mentre oggi è possibile che alcuni paesi non riescano a instaurare una democrazia liberale stabili e che altri finiscano per regredire a forme primitive di governo quali la teocrazia, la dittatura militare, non pare invece possibile apportare miglioramenti all’idea della democrazia liberale”.

L’attuale crisi finanziaria distrugge alle radici  una tale visione; una crisi generata dalla finanziarizzazione estrema del capitalismo che entra in rotta di collisione con i presupposti stessi della democrazia rappresentativa. Sul piano economico come su quello politico (tra i due piani vi è un automatismo), l’attuale crisi finanziaria capovolge il problema nei termini in cui l’aveva prospettato Fukuyama: non solo si è lacerata in via definitiva l’equazione democrazia liberale=capitalismo ma addirittura si può parlare di una flagrante contraddizione fra queste due dimensioni. Il capitalismo, in questa fase storica dimostra, in maniera inequivoca di essere il peggior nemico della democrazia liberale, da cui la trasformazione di quest’ultima in una democrazia autoritaria. 

L’ipertrofia economicistica ha ormai, di fatto, cancellato la possibilità stessa della distinzione tra essere e dover essere, tra presente e futuro. Una cancellazione, che , come insegnano i grandi classici della modernità (Immanuel Kant) è alla base stessa dell’etica, della comunità e della democrazia. Anche in questo caso, viene per sempre meno una seconda, altrettanto rilevante, equazione, quella fra etica e democrazia. Quando leggiamo in Francis Fukuyama affermazioni come la seguente: “Lo Stato liberale,…è razionale perché riconcilia queste richieste di riconoscimento antagonistico sulla  base unica del reciprocamente accettabile, ossia sulla base del’identità dell’individuo quale essere umano. Lo stato liberale deve essere universale, ossia deve concedere il riconoscimento a tutti i cittadini in quanto esseri umani e non perché membri di un qualche gruppo nazionale, etnico o razziale. E dev’essere anche omogeneo, ossia deve creare una società senza classi basata sull’abolizione della distinzione tra padroni e schiavi”, rimaniamo stupiti dell’ingenuità di tale rivendicazione

Il supercapitalismo nella sua versione estrema, quella oligarchico-finanziaria crea un meccanismo nefasto per la sussistenza stessa della democrazia. Per rendersi conto di questo non è necessario essere attenti lettori di Marx, è sufficiente prendere in considerazione nella misura dovuta Adam Smith, fra i più citati e i meno letti dei maestri dell’economia del passato.  Come hanno autorevolmente osservato Donald Winch e Giovanni Arrighi, l’autore della Ricchezza delle nazioniè sempre stato accompagnato nella sua ricezione da tre fraintendimenti: 1) egli sarebbe stato un sostenitore e un teorico della capacità del mercato di autoregolarsi  all’infinito; e ancora 2) egli sarebbe stato un teorico e un sostenitore del capitalismo come motore processuale di uno sviluppo economico illimitato; 3) egli, infine, sarebbe stato il teorico e il sostenitore della tipologia di divisione del lavoro praticata nella “fabbrica di spilli”, descritta nel primo capitolo della Ricchezza delle nazioni. In realtà, nessuna di queste pregiudiziali storiografiche regge un serio confronto con i testi, come suggerisce in maniera molto incisiva Giovanni Arrighi, “Ben lontano dal teorizzare un mercato autoregolantesi che funzionerebbe al meglio con un apparato statuale residuale o inesistente, nella Ricchezza delle nazioni, così come nella Teoria dei sentimenti moralio nelle inedite Lezioni sulla giurisprudenza, Smith presuppone l’esistenza di uno Stato forte, capace di creare e riprodurre le condizioni necessarie per l’esistenza del mercato stesso, capace di servirsene come di un efficace strumento di governo e capace di imporgli delle regole intervenendo attivamente per limitarne le conseguenze socialmente o politicamente negative”.

Neppure in Smith esiste un’interpretazione del mercato fine a se stessa, un mercato che riesca ad autoregolamentarsi all’infinito senza l’intervento dello Stato che fissi i limiti a tale sviluppo incontrollato. 

La critica a un liberismo estremo comincia a nascere proprio da uno dei padri fondatori dell’economia politica. Il liberismo estremo, quale si configura nell’attuale fase storica, entra in cortocircuito con l’idea e il principio stesso di una democrazia liberale. 

Per chi ha una visione integralistica e non minimalistica della democrazia, la democrazia non è ‘il meno peggio dei sistemi politici’ ma di gran lunga il migliore, tale cortocircuito diventa inaccettabile in linea di principio e deve far riflettere sulla minaccia che contiene per l’esistenza e il mantenimento stesso della democrazia.

 

 

Massimo L. Salvadori, Democrazie senza democrazia, Bari-Roma, Laterza, 2009.

Michele Ciliberto, Democrazia dispotica, Bari-Roma, Laterza 2011.

Massimo L. Salvadori, Democrazie…, cit., p. IX.

Miguel Abensour, Hannah Arendt contro la filosofia politica?, Milano, Jaca Book, 2010.

Miguel Abensour, De la compacité- Architecture et régimes totalitaires, Paris, Sens &Tonka, 1997.

Miguel Abensour, Pour une philosophie politique critique, Paris, Sens &Tonka, 2009.

Ivi, p. 31.

Ivi, p. 51.

A. L. de Saint-Just, Ouvres complètes, preésentées et annotées per Miguel Adensour et Anne Kupiec, Paris, Galimard, 2004.

Jacques Rancière, Il disaccordo, Roma, Meltemi, 2007.

Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992.

Ivi, p. 9.

Ivi, p. 217.

Donald Winch, Adam Smith’s Politics. Essay in Historiographic Revision, Cambridge, Cambridge University, 1978. 

Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del XXI secolo, Milano, Feltrinelli, 2008.

Ivi, pp. 56-57.

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