Crisi finanziaria, empasse del modello di sviluppo e ruolo della filosofia
di Elio Matassi
Dopo due anni in cui il blocco neopopulista aveva proclamato che l’Italia, tra i paesi europei, era l’unico ad aver resistito alla crisi economica, la nuova esplosione della speculazione internazionale, questa volta con devastanti riflessi sui titoli pubblici, ha di fatto infranto ogni velleità ed illusione ottimistica.
La crisi, ben lungi dall’essere alle nostre spalle, è gravissima e la maggioranza governativa (il blocco neopopulista) si appresta a varare una manovra ‘correttiva’ (si tratta di un eufemismo purtroppo tragico) di ben ventiquattro miliardi di euro, colpendo ancora una volta, in maniera unilaterale, regioni, comuni, sanità, cultura, ricerca, scuola, università, magistratura. Tutto il settore pubblico e tutte le fondazioni culturali vengono travolte da una manovra economica che nasce sotto lo stesso segno, distruggere ogni dimensione pubblica ed ogni forma di sapere critico.
I proclami sull’evasione fiscale sono appunto ‘proclami’, dichiarazioni retoriche che non vengono accompagnate da provvedimenti adeguati, un’evasione fiscale che ha ormai raggiunto vertici insopportabili per il sistema economico nel suo complesso.
La retorica neopopulista si appella al fatto che non vengano introdotte nuove tasse e che, dunque, non vengano sottratti denari dalle tasche dei cittadini, mentre, di fatto, questa sottrazione avviene solo in una direzione, nella direzione di coloro che in maniera del tutto trasparente contribuiscono a finanziare tutto il sistema al 100 per 100, mentre una maggioranza, pur ricca di privilegi fiscali continua allegramente nei comportamenti di sempre; il credo etico è quello di un’evasione lecita, liceità legittimata da una presunta sopraffazione dello Stato.
Questo è comunque solo un aspetto, un riflesso della crisi, una crisi nella crisi, che contribuisce ad aggravare una situazione economica di per sè già gravissima.
Vengono meno, sul piano strettamente teorico-ideologico, due condizioni che il trionfo del capitalismo ormai in via di globalizzazione sembrava aver sancito in maniera definitiva.
Entrambe queste condizioni sono state enunciate e sviluppate in due libri del politologo americano d’origine nipponica Francis Fukuyama; la prima nel volume dal titolo paradigmatico, La fine della storia e l’ultimo uomo, le cui premesse è utile riportare per esteso: “Le lontane origini del presente volume vanno ricercate in un mio articolo intitolato Siamo forse alla fine della storia?, scritto per la rivista ‘The National Interest’ nell’estate del 1989. In esso sostenevo come in questi ultimi anni fosse emerso in un gran numero di paesi un notevole consenso verso la legittimità della democrazia liberale come sistema di governo, vincente nei confronti di ideologie rivali quali la monarchia ereditaria, il fascismo ed ultimamente anche il comunismo. Non solo, ma aggiungevo che la democrazia liberale avrebbe potuto costituire addirittura ‘il punto d’arrivo dell’evoluzione ideologica dell’umanità’, e ‘la definitiva forma di governo tra gli uomini’, presentandosi come ‘la fine della storia’. Mentre infatti le precedenti forme di governo erano state caratterizzate da vari difetti e irrazionalità che avevano finito per provocare il crollo, la democrazia liberale pareva immune da contraddizioni interne tanto profonde. Con questo non intendevo dire però che in democrazie stabili come sono attualmente quelle degli Stati Uniti, della Francia o della Svizzera non vi fossero ingiustizie o gravi problemi sociali; ma solo che questi problemi riguardavano l’incompleta attuazione dei due principi della libertà e dell’uguaglianza sui quali si fonda la democrazia moderna, piuttosto che non difetti degli stessi principi. E mentre oggi è possibile che alcuni paesi non riescano ad instaurare una democrazia liberale stabile e che altri finiscano addirittura per regredire a forme primitive di governo quali la teocrazia e la dittatura militare, non pare invece possibile apportare miglioramenti all’ideale della democrazia liberale.” E’ chiaro come i protagonisti impliciti di questa pacificante “storia della fine della storia” fossero e sentissero di essere gli Stati Uniti.
L’attuale crisi finanziaria che sta devastando i mercati internazionali e che ha la sua origine proprio negli Stati Uniti modifica i termini del problema argomentato da Fukuyama?
Credo in una risposta fortemente affermativa al quesito, una risposta che mette radicalmente in questione la possibilità di portare miglioramenti all’ideale della democrazia liberale. Sia sul piano economico sia su quello politico (tra i due piani vi è un automatismo) l’attuale crisi finanziaria capovolge il problema: il capitalismo finanziario ha di fatto minato alle radici l’idea stessa su cui si regge la democrazia liberale. Chi crede in una visione ‘integralistica’ della democrazia e non minimalistica – la democrazia è il migliore sistema politico e non il meno peggio – non può non porsi oggi il problema della sua legittimità democratica che non dovrà esaurirsi nella semplice scelta elettiva dei propri rappresentanti. Mi riferisco in particolare al recente volume La légitimité démocratiquedello storico francese Pierre Rosanvallon, professore al Collège de France, creatore della Fondation Saint Simon, oggi animatore della “Rèpublique des idée”, che offre spunti importanti di riflessione alla politica. L’intellettuale francese è favorevole ad un “sistema di doppia legittimità”, dato che il verdetto delle urne non è sufficiente a realizzare compiutamente la democrazia.
E’ venuta, inoltre, meno la seconda delle condizioni, annunciata da Fukuyama in un libro successivo a quello sulla fine della storia,Fiducia. Come le virtù sociali contribuiscono alla creazione della prosperità. La fiducia dovrebbe rappresentare l’ingrediente straordinario per il successo di una società meritocratica. Il cittadino crede che il sistema sia sostanzialmente ‘giusto’, e quindi è pronto ad accettare in pieno le regole contribuendovi attivamente, anche se sa che non sarà necessariamente lui il diretto beneficiario del suo impegno e dei suoi sacrifici. Il cittadino dovrebbe, dunque, nutrire fiducia nel secondo pilastro del merito, le pari opportunità, ossia confidando nel fatto che, se forse a lui non sarà consentito di realizzare i propri sogni, i suoi figli possibilmente partiranno al pari di altri che stanno molto più in alto nella scala sociale. La profonda fiducia nel fatto che le pari opportunità siano davvero tali dovrebbe far sì che i cittadini delle società meritocratiche tollerino la disuguaglianza poiché credono nella mobilità sociale.
Anche questo meccanismo di fiducia reciproca si è profondamente inceppato con la crisi finanziaria; il supercapitalismo, il capitalismo nella sua declinazione finanziaria, ha di fatto espropriato la sostanza della democrazia e per questo fanno oggi sorridere per la loro ingenuità e per essere ormai scavalcati dal tempo reale, pamphlet come quello, oggi, fortunatissimo, di Roger Abravanel. Meritocrazia.
Non appartengo alla schiera dei semplificatori catastrofisti. Hanno ragione sia Carlos Quijano quando sostiene che i peccati contro la speranza sono i più terribili perché sono gli unici che non hanno né perdono né redenzione, sia Paolo Rossi Monti nel suo recentissimo Speranze, quando afferma, contro gli intellettuali alla moda, che non viviamo nella peggiore epoca del mondo, dato che la democrazia va estendendosi e molti stati stanno abolendo dal proprio sistema giudiziario la pena di morte. Non affermo infatti che la democrazia debba essere sostituita da un altro sistema vago e futuribile ma che debba essere rafforzata.
Se è venuta per sempre meno l’equazione democrazia liberale = capitalismo, anzi si è addirittura capovolta in quanto il capitalismo finanziario – il supercapitalismo sta attentando alle fondamenta stesse l’idea di democrazia, è venuta meno anche quella che considero una delle ipertrofie più perverse della contemporaneità, quella economicistica.
Il primato dell’economico in tutte le sue implicazioni, etiche e politiche, ha avuto effetti devastanti.
Strettamente congiunto a tale primato è l’intuizione di una concezione della politica come semplice amministrazione, gestione degli equilibri del presente con la conseguenza estrema di una presentificazione estrema, di una eternizzazione del presente. Una concezione della politica che ben lungi dall’educare, dal formare, indirizzare i cittadini, ne asseconda, invece, gli istinti – pulsioni più regressive.
L’adozione ormai scellerata del sondaggio come esclusivo indicatore delle linee tendenziali dell’elettorato (in realtà già proiettato e predisposte in un quadro di riferimento surrettiziamente organizzato) è uno dei riflessi più evidenti dell’ipertrofismo economicistico che ormai è penetrato in ogni singolo aspetto della realtà sociale ed istituzionale della contemporaneità.
A questa presentificazione deve essere finalmente contrapposta una concezione della politica alternativa, che leghi strettamente l’idea dell’amministrazione concreta del presente ad un progetto complessivo e futuribile della società, un progetto, utilizzo finalmente questo aggettivo che sembra ormai essere stato esorcizzato dal vocabolario della politica dominante, ‘filosofico’, una dimensione teorica che sta semplicemente a misurare lo scarto tra ciò che noi siamo e quello che dovremmo essere anche in un futuro immediato.
L’ipertrofia economicistica ha ormai, di fatto, cancellato la possibilità stessa della distinzione tra essere e dover essere, tra presente e futuro. Una cancellazione, che come ci insegnano i grandi classici del passato e della modernità (Platone e Kant) è alle fondamenta stesse dell’idea dell’etica, della comunità e della democrazia.
Questa rafforzamento – ristrutturazione della democrazia, dinanzi alla crisi evidente del modello di sviluppo del capitalismo finanziario e di un mercato privo di regole, dovrà procedere ripristinando l’idea forte di una democrazia come partecipazione che si va sempre più imponendo nella ipermodernità. Una democrazia che si struttura su una forma-partito radicalmente nuova, che dovrà isituzionalizzare il sistema delle primarie in tutte le sue possibili forme e declinazioni. Rafforzare la democrazia nella sua forma partecipativa significa, dunque, creare una nuova comunità che diventa oltre che un’“esigenza ineludibile”, una “comunità associativa” (Gorz), una creazione collettiva, senza frontiere. Secondo la definizione di Victor Turner”, c’è un particolare modo in cui le persone guardano, comprendono, agiscono l’uno nei confronti dell’altro, stabilendo un rapporto tra individui concreti , storici, particolari”, un rapporto che non dissolve l’individuo nell’collettivo ma permette piuttosto il riconoscimento da parte degli altri. Diventa l’opposto del mercato, non nel senso che con il mercato è incompatibile, ma piuttosto che ne costituisce un “altrove”, “dominato da forme comunicative e da valori opposti – reciprocità, durata, gratuità – a cui si può accedere nel corso del processo storico.
Una comunità che si proietta sullo scenario internazionale andando ben al di là della fuorviante distinzione contrapposizione negoziazione/arbitrato (il dibattito tra Rawl e A. Sen), una comunità non semplicemente identitaria ma caratterizzantesi per un modello contrattualistico polidecisionale. Perché la sfida della globalizzazione sia pienamente raccolta, andando in una direzione alternativa a quella del capitalismo finanziario, dovremo pensare a nuove prospettive di civilizzazione che non possono prescindere dall’eredità della modernità occidentale e che, pur cogliendone limiti e inadeguatezze, ne sviluppino le istanze di emancipazione, espansione delle libertà e delle capacità adeguate alle emergenze del nostro tempo.