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Il Partito Democratico, il Congresso e la “democrazia a venire” 

di Elio Matassi

Il dibattito preparatorio allo svolgimento del primo grande congresso del Partito Democratico è entrato finalmente nel vivo: quando Pierluigi Bersani afferma che non si può demonizzare impunemente l’espressione ‘sinistra’,  emarginandola dalle coordinate culturali e dalla prassi politica del Partito Democratico come accade invece molto spesso per esponenti vicini all’altro candidato alla Segreteria Nazionale, Dario Franceschini, individua finalmente la formula decisiva.

Infatti il primo grande tema dell’ormai prossimo Congresso nazionale dovrà avere al centro della discussione questa impossibile rimozione dell’idea di sinistra, ‘impossibile’ per un partito come quello Democratico che voglia proporsi di andare al di là del panorama politico databile dalla fine degli anni Ottanta.       

Provo a riassumerne i caratteri salienti: uscita dai suoi proclami utopici e dalle sue disillusioni, la maggior parte della sinistra europea si è resa conto che, dopo la caduta del muro di Berlino ed il crollo del sistema sovietico, ciò che era realizzato nel ‘socialismo’ poteva benissimo essere attuato dallo stato sociale ed anche da quello liberale, nel momento stesso in cui la frontiera tra liberismo e socialdemocrazia cominciava ad incrinarsi, facendo nascere una forma nuova: qualcuno (Guy Debord) lo ha definito “stato spettacolare integrato”, qualcun altro(Alain Badiou) “capital-parlamentarismo”.

Abbandonando ogni posizione critica, la sinistra europea ha finito con lo schiacciarsi completamente sull’economia di mercato pur ingegnandosi a far rivivere un ‘antifascismo’ che, nelle condizioni epocali contemporanee, non poteva essere se non una forma di sentimentalismo moraleggiante.

Entro quest’ottica peculiare e sullo sfondo generale dell’idolatria del consumismo, i diritti umani diventavano la base di un nuovo consenso, nonché un sostituto del pensiero politico, mentre altro non erano se non l’espressione di un discorso morale a base giuridica.

La ridefinizione dei programmi, conseguenza naturale di questa evoluzione, portava rapidamente l’elettorato a pensare, non senza ragione, che non vi fosse ormai più alcuna differenza fondamentale tra ‘sinistra’ e ‘destra’ ed, al contempo, di situarsi esso stesso al di là di questa divisione, ormai divenuta obsoleta. 

Le conseguenze di una tale diagnosi sono ben note: aumento costante del tasso d’astensione, dispersione dei voti su un numero sempre maggiore di candidati, progressiva crescita di un voto di protesta che favoriva le posizioni populistiche.

A queste conseguenze si deve inoltre aggiungere la scomparsa degli elettorati rigidi tradizionali a fondamento sociologico, professionale o religioso: mentre nel periodo precedente agli anni ottanta ogni famiglia politica (comunisti, socialisti, democratici-cristiani, liberal-conservatori, estrema destra) aveva ancora la propria cultura, ed anche un linguaggio ed uno stile di vita suoi propri, l’omogeneizzazione crescente degli stili di vita, accelerata dal consumismo e dai media, si è tradotta in un’indifferenziazione crescente dei comportamenti elettorali, ma anche, paradossalmente, in una sorta di atomizzazione dell’elettorato.

Gli elettori, che sono sempre più consapevoli di appartenere contemporaneamente ad una pluralità di gruppi sociali, e che sono sempre meno influenzati dalle idee generali e sempre meno mobilitati dalle rappresentazioni collettive, votano di volta in volta i candidati più disparati; non cercano più un partito che risponda perfettamente al loro modo di vedere le cose, vagando da un partito all’altro in funzione dei loro interessi del momento.

L’offerta politica è essa stessa sempre più frammentata; gli uomini politici, il cui linguaggio è permanentemente condizionato dalla tirannia mediatica, non ottengono altro che maggioranze di circostanza, che variano a seconda dei soggetti; gli elettori non hanno più da scegliere tra rappresentanti che incarnano visioni conflittuali dell’interesse generale, ma tra squadre di professionisti e di esperti che si sforzano di rispondere bene o male a richieste contraddittorie legate ad altrettanti interessi particolari.

La fragilità delle convinzioni e l’incertezza delle valutazioni tecniche producono una politica sostanzialmente esitante, priva di riferimenti e, in modo particolare, generatrice d’indecisione.

In tal modo si sviluppa una crisi della rappresentanza che ha come causa principale la compromissione dei confini di legittimità: questi non si risolvono più per via gerarchica, come nell’epoca in cui una legittimità predominava del tutto naturalmente su un’altra.

Di fronte a questa crisi, gli uomini politici si rimettono completamente ai risultati dei sondaggi, che consultano ossessivamente come un tempo i patrizi romani consultavano gli aruspici. Ma gli istituti dei sondaggi, che spesso errano, sono organizzati in maniera particolare per effettuare studi di mercato.

Valutando le intenzioni di voto a partire da ‘campioni rappresentativi’ di elettori che dispongono di un certo potere d’acquisto, non ottengono mai risposte se non alle domande che pongono, cosa che consente loro d’ignorare completamente quelle che gli elettori ‘si pongono’.

La democrazia politica in tal modo si trasforma in democrazia d’opinione e l’azione politica in “pura gestione delle esigenze economiche delle domande sociali” (Alain Finkielkraut). Una opinione pubblica, evidentemente, che non ha più nulla a che vedere con la volontà generale.

Mentre gli uomini politici devono continuamente riconquistare la fiducia dei loro elettori, si è aperto un divario tra i cittadini ed una classe politica che sembra non avere più altra ambizione se non quella di riprodursi sempre eguale a se stessa. Un divario sempre più incolmabile per effetto dello scarto esistente tra le sfide del momento storico e la reazione delle istituzioni, tra le consuetudini e la legge, tra i progressi delle tecno-scienze ed la loro trattazione da parte del legislatore. “Al di là dei grandi obiettivi dichiarati –scrive Werner Olles –appare evidente che gli uomini politici costituiscono una classe omogenea che persegue, prima di tutto, il proprio interesse. Il discredito cade dunque contemporaneamente sugli uomini, per effetto della loro ipocrisia, e sulle idee che essi fanno circolare, che appaiono sempre più chiaramente come un grossolano alibi. I grandi principi di sovranità popolare e di rappresentanza perdono il loro smalto ed appaiono brutalmente come concetti vuoti, che mirano a mascherare l’accaparramento del potere da parte di una classe specializzata”.

Il tempo degli intellettuali, d’altra parte, sembra essere passato. Vi sono sempre più molti discorsi intellettuali, ma non hanno più alcuna articolazione né alcuna ripercussione politica. L’intellettuale ha smesso ormai da tempo di essere l’autorità morale ( la coscienza del suo tempo ) o l’autorità sociale ( il portavoce dei senza voce ) che rappresentava un tempo. Dequalificato dall’ascesa dei tecnocrati e dalla confusione dei media, egli non è più chiamato a produrre senso, ma solo un po’ di intelligibilità.

A questo proposito Marcel Gauchet, che, per esempio, ha dinanzi ben chiaro il quadro della intellettualità francese, constata che “la cultura delle élite intellettuali è ridiventata indecifrabile per una maggioranza di francesi, così come il gioco politico classico”. Gli intellettuali non hanno altra scelta che ripiegare sui centri specializzati di ricerca universitaria e su cenacoli elitari, oppure diventare “oggetti colti” dello spettacolo mediatico, col rischio di essere obbligati a rincorrere senza sosta un’attualità che impedisce di anticipare i tempi. Mentre la televisione, divenuta il luogo centrale della produzione e della diffusione dei costumi e della cultura, tende essa stessa ad affrancarsi dal “dominio del politico”, la vita pubblica subisce ancora l’effetto del presenzialismo.

Gli uomini politici sono i primi a non preoccuparsene se non nel breve periodo, che è generalmente quello che li separa dalla prossima elezione, che non li spinge a ricercare la ‘durata’.

Ma che cos’è un’azione politica che non s’inscriva in un contesto-di-durata? L’azione pubblica risulta tanto più vulnerabile quanto più si trova agganciata alla congiuntura immediata.

Il problema può essere prospettato anche sotto un’altra angolazione. 

L’ipotesi che potrebbe essere formulata è la seguente: noi oggi assistiamo solo al crollo della forma moderna della politica. In altri termini, non è la politica che scompare, ma solo un modo di intenderla che è stato specifico della modernità.

Nell’epoca moderna, la politica si è organizzata intorno allo Stato-nazione, essendo questo contemporaneamente il centro motore del meccanismo amministrativo ed istituzionale ed un agente produttore del sociale. I grandi concetti ai quali era associato, a cominciare dalla nozione di ‘sovranità’, erano in sostanza concetti teologici secolarizzati. Ora, questo modello normativo, che era sembrato imporsi in maniera definitiva nel XVIII e XIX secolo, è progressivamente entrato in crisi per effetto dell’irruzione nello spazio pubblico di attori politici esterni allo Stato o di attori sociali che esigevano di vedersi riconosciuto uno statuto politico in questo spazio.

Più recentemente, lo Stato-nazione ha visto limitare sempre più il suo margine di manovra a causa del dispiegamento su scala planetaria di un certo numero di forze transnazionali sulle quali esso non fa più presa. Il suo discredito si è andato progressivamente accentuando man mano che crescevano la sua impotenza e la sua sclerosi. Oggi, come sottolinea, Alain Bertho, “lo Stato non istituisce più il sociale, lo destruttura. Lo Stato corre quindi il rischio di non  essere più lo spazio naturale in cui si esprime la sovranità popolare, ma il suo esatto contrario”.

Statuale e politico non sono mai stati totalmente sinonimi. La politica è esistita prima dello Stato, così come continuerà ad esistere dopo di esso. Per il momento, si può solo constatare che rimettere in discussione il monopolio statuale della vita pubblica porta alla dissociazione quasi completa di queste due nozioni. Ciò che scompare non è né la politica né lo Stato, ma l’identificazione tra Stato e politica.

Usciamo in un solo colpo dall’epoca in cui i partiti politici rappresentavano tanto i mediatori ‘naturali’ tra la società e lo Stato, quanto i vettori privilegiati della politicizzazione delle sfide sociali elevate a livello di sfide di potere.

Di qui anche l’esigenza di costruire una nuova forma-partito che in modo particolare dovrà essere ripensata e ricostruita proprio da un partito moderno come quello Democratico.

Bisogna reagire a tale processo degenerativo della democrazia nella contemporaneità e non con un generico e vacuo ‘nuovismo progressivo’ che, di fatto, finisce coll’assecondare quella deriva, prospettiva che sembra essere coltivata in quei settori del Partito Democratico che si riconoscono nella candidatura di Dario Franceschini. 

Certamente non può essere questa l’opzione di un partito che vuole interpretare fino in fondo l’essenza e la vocazione della democrazia, di una democrazia che per essere veramente compiuta non potrà mai rinunciare al concetto di eguaglianza. E da qui che è necessario ripartire e questo snodo impone una rinnovata identità di sinistra, nel senso migliore di questa espressione. Infatti non sempre l’identità è una dimensione limitativa e questo è proprio il caso del paradigma di ‘sinistra’. 

Queste sono le nostre radici, questa è la nostra storia, questa è la nostra identità che ovviamente non deve essere interpretata in accezione statica ma dinamica. Si tratta di una sinistra postmarxista che riesce ad attingere a diverse tradizioni-orientamenti filosofico – culturali.

Solo su queste basi si potrà fondare una democrazia ‘a venire’ in cui la ‘crazia’ sia alleata o perfino unificata non solo con il diritto ma anche con la giustizia, come auspica Jacques Derrida: “esiste l’impossibile resta impossibile per l’aporia del demos , il quale da una parte è la singolarità incalcolabile del chiunque, prima di ogni soggetto; ma d’altra parte rappresenta l’universalità del calcolo razionale, dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, il legame sociale dell’essere-insieme, con o senza contratto. Questo impossibile che esiste rimane incancellabile. Esso è tanto irriducibile, quanto il nostro essere esposti a ciò che accade. È l’esposizione a ciò che accade, all’evento”.

La risorsa rappresentata dalla democrazia deve essere raccolta in tutta la sua capacità critica, comportando in primo luogo delle “ingiunzioni inflessibili” incancellabili, le uniche che possano far fronte alle sfide della globalizzazione. Bisogna avere la spregiudicatezza intellettuale di superare il vecchio modello di cosmopolitismo (greco-cristiano, stoico, paolino, kantiano) per abbracciare una solidarietà universale che sappia andare al di là dell’internazionalità degli Stati-nazione e, dunque, della cittadinanza.

Questa è la direzione di una sinistra moderna, “possibile” come auspica qualcuno (Vannino Chiti) ma concretamente realizzabile. Sul grande tema della sinistra e su una rinnovata interpretazione dell’idea di uguaglianza si giocherà anche il destino del Partito Democratico.

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