Il Partito Demo- cratico, il congres- so e l’alternativa “all’ideologia economica”
di Elio Matassi
Il risultato delle recenti elezioni europee, provinciali e comunali, sufficiente- mente contenuto nelle dimensioni quantitative e, comunque, meno catastro- fico delle previsioni, impone una riflessione di ampio respiro anche in vista del prossimo congresso nazionale (Ottobre).
La segreteria Franceschini è riuscita, almeno in parte, ad arrestare il decli- no del Partito ma risulta del tutto sprovvista di un progetto più generale, ed in particolare, completamente insensibile al problema dei problemi, la forma-partito. Un compito invece sempre più urgente dinanzi all’affermarsi minaccioso del ‘divisionismo’ (dopo l’incremento del partito del Nord si
sta profilando un’ulteriore emergenza, quella della nascita di un partito del Sud, presuntamente trasversale, comunque, speculare e complementare al- l’altro).
Il dramma politico che ha fatto dell’Italia un paese anomalo rispetto agli omologhi europei –dal debito pubblico alla irriformabilità di qualsiasi setto- re, al disastro in cui versano le amministrazioni pubbliche, a grandi e persi- stenti elementi di corruzione –sta nella coesistenza perversa di compromesso e di ‘divisionismo’: il primo costruiva oltre a valori comuni, anche vincoli e lacci e reciproche omertà, il secondo (il divisionismo) si faceva forte di ap- partenenze esclusive e contrapposte, due nazioni l’una contro l’altra, e que- sto faceva sì che il compromesso non agisse in primo luogo come condivisio- ne di principi e distinzioni nelle politiche, ma come vincolo che riduceva la possibilità di una compiuta modernizzazione, fatta di scelte rigorose.
La sostanza del vecchio sistema sta proprio in questa mescolanza perversa di valori e di vincoli, di principi comuni e di omertà che hanno impedito lo sviluppo, con quella specificità tutta italiana, per cui la società civile ha spesso proceduto per suo conto, diventando in tal modo anche il laboratorio dell’antipolitica, il paese reale contro quello legale.
La riconquista di una nuova possibile ‘egemonia’ per il centrosinistra e per il partito che la rappresenta compiutamente, il Partito Democratico, deve partire da questo compito storico, il superamento del ‘divisionismo’. Superamento del ‘divisionismo’ che impone l’adozione di una forma-partito conseguente, nazionale e federale nel contempo, ma comunque ‘forte’ e non ‘liquida’ ossia non una semplice aggregazione, un semplice cartello elettorale che dovrebbe essere gestito da una leadership carismatico-verticistica, il vel- tronismo e la sua estrema progenie, Dario Franceschini. Il tutto sulla base di un vago ‘nuovismo’, anagrafico ma anche di stili, di consuetudini, vincolato ad una dimensione spettatoriale, già in crisi, come ha dimostrato la recente vittoria elettorale di Obama negli Stati Uniti, che mette definitivamente ai margini quei presupposti su cui si fonda il ‘nuovismo’ nostrano. L’affermarsi di Internet, dell’online, dei siti web, risponde al desiderio di partecipazione della società civile, sparigliando un sistema mediatico-spetta- toriale di cui si cominciano ad avvertire chiari segnali di logoramento.
A questa radiografia dei problemi esistenti deve corrispondere un forte progetto culturale, un riformismo non semplicemente light, ma sostanzia- to finalmente da una rinnovata cultura politica e filosofica. Non si possono eludere i problemi posti sul tappeto dalla modernità e che Hanna Arendt ha così lucidamente percepito in Vita activa. La condizione umana; la moder- nità trionfa sui bisogni grazie all’emancipazione del lavoro, grazie “al fatto, cioè, che l’animal laborans sia stato messo nella condizione di occupare la sfera pubblica; e tuttavia per tutto il tempo che l’animal laborans ne rimane in possesso, non può esistere una vera sfera pubblica, ma solo attività private esibite apertamente”. In ultima analisi la modernità, malgrado l’esaltazione dell’attività lavorativa, culmina “nella più mortale e più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto”.
Come comprendere questo rapporto paradossale che s’instaura tra il trion- fo dell’animal laborans e l’espropriazione della capacità di agire della sfera politica?
La crisi dell’immaginario della modernità nasce dal fatto che essa affida al lavoro produttivo e alla sua celebrata efficacia un compito impossibile: quel- lo di produrre senso. In tale prospettiva, il legame che unisce i produttori esula da qualunque forma di produzione politica. Esso non è dato da alcun progetto comune, non si realizza in alcuna attività collettiva generatrice di
senso, perché irriducibile alla logica dell’autoriproduzione.
L’aporia della modernità o, meglio ancora, una delle aporie in cui s’inceppa la modernità sta nella mancanza di uno spazio adeguato per l’instaurarsi del- le mediazioni politiche. Ne consegue una crescente depoliticizzazione, ossia l’incapacità di ravvisare una qualsiasi forma significativa di alterità politica. Oggi la politica viene per lo più concepita in maniera impolitica, perché di fatto subisce la supremazia dell’economia.
Cerchiamo di capire quali sono stati i presupposti storici e teorici su cui si fonda il primato economico. Alle origini tale primato non sussisteva; infatti i Greci escludevano dal campo politico tutto ciò che competeva il sistema dei bisogni; in particolare, Aristotele sottolinea con forza che l’economia appar- tiene alla sfera domestica e privata (oikos) e che, in quanto tale, non concer- ne la società politica. L’uomo libero realizza la sua libertà partecipando alla vita politica; essere libero esige lo svincolarsi dalla costrizioni utilitaristiche e dalla dinamica dei bisogni. “La frontiera che separa il campo del privato da quello della polis, -scrive Myriam Revault d’Allones, -non è solo un proble- ma della filosofia ma è anche un problema dell’agire completo nella misura in cui questa frontiera attraversa l’interiorità dello stesso cittadino”. L’identificazione di sé con la vita politica -la costituzione di una identità po- litica –presuppone che la sfera dell’appartenenza politica prevalga su quella dell’appartenenza domestica, familiare, ossia su tutto ciò che concerne i bi- sogni e gli interessi privati.
L’Occidente è stato tuttavia l’unica civiltà in cui l’economia, da poco “inca- strata” nel sociale, prima se n’è affrancata, poi l’ha fagocitata, conformandola ai suoi valori ed alle sue leggi; la promozione di questa ‘ideologia economica’ è inseparabile dalla formazione dell’individuo nel senso liberal-borghese del termine.
Il risultato di questo processo è l’instaurazione della ‘società di mercato’, ossia di quella società in cui non solo i valori mercantilistici superano tutti gli altri, ma dove il modello del mercato è considerato paradigmatico di ogni fatto sociale.
Nella prospettiva dell’ideologia economica, la politica non può essere solo un derivato o un residuo. Si ritiene, quindi, che la nascita della politica ritro- vi le sue motivazioni in considerazioni che hanno i contorni della necessità, ossia in considerazioni, in ultima analisi, economiche. Essa deriva, dunque, nella sua essenza, esclusivamente dal calcolo degli interessi. D’altra parte l’azione politica è largamente assimilata alla gestione delle cose, tant’è che secondo i teorici liberali, una società interamente sottomessa ai meccanismi del mercato vedrà la realizzazione dell’armonia naturale degli interessi: gra- zie all’intervento della ‘mano invisibile’, che fa coincidere domanda ed of- ferta, la composizione degli interessi egoistici in un mercato –definito come luogo di scambio e come operatore del sociale –porterà miracolosamente a creare una situazione ottimale all’interno della società globale. A più o meno breve scadenza, la competenza politica sarà soppiantata dalla concretezza economica.
Questa è la premessa della modernità: la riduzione del sociale ad uno scam- bio generalizzato tra i produttori conduce alla perdita e all’indebolimento della politica.
In realtà la politica non può essere ridotta all’economia, in primo luogo per- ché il bene comune non è la semplice somma delle aspirazioni o dei materiali particolari, poi perché le aspirazioni ed i desideri divergenti non si concilia- no spontaneamente. È qui, per l’appunto, che è assurdo parlare di ‘mercato politico’. Anche in politica esiste una domanda ed un’offerta ma nel senso
che gli equilibri politici, anche attraverso il voto, non si stabilizzano da soli in modo definitivo.
Oggi, invece, la crescita abnorme dell’economia ha una ricaduta diretta nella contrattazione generalizzata, ossia nell’idea che tutto ciò che rientra nell’or- dine del desiderio e del bisogno può e deve essere negoziato; la controparti- ta evidente sta nel fatto che si producono solo i beni che si possono vendere, mentre si ignora ciò che non ha un prezzo. Entro quest’ottica peculiare, il cittadino viene considerato in primo luogo come consumatore e la politica amministrata sul modello dell’impresa privata.
Il paradigma normativo diventa il comportamento del commerciante sul mercato. Specularmente, le pressioni economiche e finanziarie, riducono sempre più il margine di manovra dei governi, che sono obbligati a piegarsi, per ‘realismo’, davanti alle leggi del mercato.
Questo insediamento della società di mercato, commenta Marcel Gauchet , “ è molto di più di un fenomeno intellettuale. Ciò a cui stiamo assistendo è una vera e propria interiorizzazione del modello del mercato- un evento dalle conseguenze antropologiche incalcolabili, che si cominciano appena ad intravedere”.
Il caso italiano, con la discesa in campo di Silvio Berlusconi, è l’esempio ottimale di tale ideologia economica.
Un riformismo ‘forte’ deve partire proprio dal caso italiano, dalla natura particolare del PDL (concentrazione estrema dell’ideologia economica) proponendo un’autentica svolta, per superare l’affermarsi del divisionismo, al Nord come al Sud, e quello stadio che Massimo L. Salvadori ha ben defi- nito democrazia senza democrazia e qualcun altro come ‘post-democrazia’. Il ‘nuovismo’ fine a se stesso (la candidatura di Beppe Grillo alla segreteria del PD) non è che la logica conseguenza di un processo di dissoluzione della vecchia forma-partito, non ancora sostituita da un’altra.
Il grande problema politico sul tappeto sta proprio nel dare finalmente cor- po a questa esigenza, il che non è affatto in contraddizione con le emergenze della società civile, con le spinte propulsive che vengono, per così dire, ‘dal basso’.
Una forma-partito che riesca a coniugare compiutamente un partito ben radicato sul territorio, a stratificazione anche federale, con il coinvolgimento partecipativo della società civile. Un partito che deve porsi il problema del superamento del divisionismo e della connessa identità nazionale come il trascendimento dell’ideologia economica: sono questi i macro problemi che il congresso del Partito Democratico dovrà essere in grado di affrontare con una presa di coscienza che si emancipi in maniera definitiva dal semplice ricatto generazionale ed una svolta non di mera facciata per affrontare final- mente i contenuti alternativi all’ideologia economica, oggi egemone. Investire su ricerca, università, scuola e formazione, sull’economia del sa- pere diventa sempre più urgente e necessario: sono queste le sfide su cui si giocherà la costruzione di un partito non minimalista che sappia interpreta- re fino in fondo le esigenze di una democrazia autentica e non quelle di una semplice ‘democrazia senza democrazia’.