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Il PD e il ritorno al “Noi”.

di Elio Matassi

La svolta epocale rappresentata dall’esplosione della  crisi finanziaria è un’occasione decisiva per riflettere e per rimettere in discussione alcuni presupposti, per esempio, l’intangibilità del mercato rispetto a cui, per alcuni decenni, la sinistra europea ed, in particolare, quella italiana hanno mostrato una totale subalternità intellettuale. Sia chiaro: nessuno ed, ovviamente neppure la comunità politico-culturale che si riconosce in “In schibboleth” chiede l’eliminazione tout court del mercato. Sarebbe però opportuno per un partito riformista e di ‘sinistra’ come il Partito Democratico liberarsi dalla mitologia del mercato, dal pensarlo come valore supremo, come ispiratore della legge politica e di quella morale, come misura di tutte le cose, anche di quelle che non rientrano nel suo ambito. E, nello stesso tempo, sarebbe necessario mettere in discussione la mitologia parallela, quella dell’individuo, altra bella invenzione, altro artificio culturale, sconosciuto ai nostri simili prima dell’Iluminismo.

       Nelle pagine iniziali de Le parole e le cose, Michel Foucault mette addirittura in dubbio l’esistenza dell’’Uomo’, che secondo lui “non è che un’invenzione recente, una figura che non ha nemmeno due secoli una semplice piega nel nostro sapere, e che sparirà non appena questo avrà trovato una nuova forma”. Figurarsi, dunque, quanta realtà possa avere l’individuo, elaborazione quasi metafisica dell’Uomo, ma dentro i cui confini siamo orami abituati a pensarci ed a immaginarci. In poco più di due secoli, abbiamo assistito ad una specie di miracolo. Sono stati sufficienti, infatti, press’a poco duecento anni perché gli uomini e le donne dell’Occidente, opportunamente indottrinati, imparassero non solo a considerarsi “monadi tra altre monadi”, individui astratti ed isolati invece che parti di una comunità e di una società, ma si convincessero perfino che questa fosse la condizione naturale dell’essere al mondo: in principio c’era l’Io. Un Io, come osserva Todorov, “autonomo ed interessato, precedente ad ogni forma di vita sociale, una sorta di padrone di casa desideroso soltanto di arricchirsi, come se le relazioni con le persone potessero essere esattamente come quelle che ci  legano agli oggetti”. Invece, come sottolinea Dumont, “la percezione di noi stessi come individui non è innata, ma appresa. In ultima analisi ci è prescritta ed imposta dalla società in cui viviamo”. 

    D’altronde, già all’epoca in cui questa “grande trasformazione” si stava verificando, non erano stati solo i pensatori per così dire ‘reazionari’ a cercare di opporle resistenza. Per Rousseau, infatti, l’uomo è un essere che ha bisogno degli altri e la socialità è la definizione stessa della condizione umana. Secondo lo Hegel letto da Kojéve, “per essere umano è necessario essere almeno in due”. Più tardi, già nel XX secolo, Martin Buber, come osserva Valentina Pazé, dirà che il neonato entra in rapporto con il mondo ben prima di acquisire la consapevolezza di sé: la relazione, dunque, non segue l’io, ma lo precede; l’uomo diventa un io solo a contatto con un tu. E Bataille affermerà che “alla base di ogni essere esiste un principio di insufficienza”. Nella contemporaneità, Remo Bodei in Destini personali, con parole che ricordano Fernando Pessoa, dirà che “in noi c’è un conflitto tra tante individualità: l’io è propriamente un noi”, mentre perfino in biologia, da Mario Ageno a Robin Dunbar tra gli altri, si sostiene che, nell’essere umano, la posizione eretta, la grande capacità di memoria, l’autocoscienza, lo sviluppo del sistema nervoso centrale capace di produrre evoluzione culturale, devono essere messi in relazione, più che con la necessità di fabbricare strumenti o mappe mentali dell’ambiente, con la formazione di gruppi sociali. In ultima analisi, come spiegherà Todorv, “non esiste un io costituitosi in precedenza, come un capitale ricevuto in eredità che si potrebbe dilapidare distribuendolo ad altri, o rinchiudere accuratamente nel proprio retrobottega per poterne approfittare a piacimento. L’io esiste soltanto nelle sue relazioni con gli altri e grazie ad esse; intensificare lo scambio sociale significa intensificare l’io”. 

        Non si tratta affatto di rimpiangere le società antiche, organiche, olistiche, dove i legami sociali e comunitari, se offrivano sicurezza, erano spesso anche costrittivi e liberticidi. Si tratta sol di tener presente in maniera perspicua, ancora con Todorov, che “gli uomini non vivono in società per interesse, per virtù o per un motivo esterno, quale che esso sia; lo fanno perché non esiste per loro nessun’altra forma di esistenza possibile”; si tratta di ricordare che l’esistenza, secondo una formula molto incisiva di Roberto Esposito, “non può essere declinata che alla prima persona plurale: noi siamo”. 

     Io contro Noi, dunque. Il circuito vizioso è stato determinato dal fatto che in questi due secoli,una parte consistente della sinistra ha dimenticato di essere nata proprio per dire “Noi”, introiettando e sedimentando in profondità le mitologie dell’Io. 

     Cosa ha dunque guadagnato la sinistra a dimenticare il Noi, a contribuire alla distruzione dei legami sociali, a mettere l’individuo sul trono del sovrano assoluto? Certamente nulla. E’ venuto il momento di recuperare la logica filosofica e politica del ‘Noi’. Questo è il grande compito che il Partito democratico, per uscire in maniera definitiva dall’empasse in cui si trova, dovrà abbracciare. 

     La grande sfida del Noi contro un Io astrattamente e atomisticamente concepito è anche la sfida del Partito Democratico; una logica che avrà come compito specifico soprattutto quello di riformulare le regole del mercato, travolte dalla speculazione finanziaria.

    Il ‘Noi’, il prevalere della logica del Noi non è una regressione o un abbandono dei presupposti della democrazia liberale. Si tratta esattamente del contrario. E’ stata la speculazione finanziaria (la visione ipertrofica dell’Io) a distruggere l’idea stesa di mercato ed a minare in maniera irreparabile  l’idea stessa di democrazia.

     La speculazione finanziaria, il capitalismo finanziario ha distrutto alle radici una tradizione che ha il suo punto di riferimento in Smith; è pertanto necessario tornare a Smith che è probabilmente fra i più citati ed i meno letti dei maestri dell’economia del passato. Ma che lo si legga o no, egli è certamente insieme a Marx – ha ragione Giovanni Arrighi a sostenere questa tesi – uno dei più fraintesi. La sua ricezione è sempre stata accompagnata da tre mitologie: a) che sia stato un teorico ed un sostenitore della capacità di ‘autoregolazione’ del mercato; b) che sia stato un teorico ed un sostenitore del capitalismo come motore di una espansione economica ‘senza fine’; c) che sia stato un teorico ed un sostenitore del tipo di divisione del lavoro praticata nella “fabbrica di spilli” descritta nel primo capitolo della Ricchezza delle nazioni. In realtà queste tre verità presunte sono altrettante mitologie perché Smith non fu nulla di tutto ciò.

    Come ha autorevolmente osservato Donald Wintch, Smith definisce perfettamente le proprie intenzioni quando considera l’economia politica come “un ramo della scienza dell’uomo di stato o del legislatore” ed il suo stesso contributo come una “teoria” o insieme di “principi generali”, riguardanti le leggi ed il governo. Ben lontano dal teorizzare un mercato autoregolantesi che funzionerebbe al meglio con un apparato statuale che dovrebbe essere residuale se non addirittura inesistente, nella Ricchezza delle nazioni, così come nella Teoria dei sentimenti morali o nelle inedite Lezioni sulla giurisprudenza, Smith presuppone l’esistenza di uno Stato forte, capace di creare e riprodurre le condizioni necessarie per l’esistenza del mercato stesso, capace di servirsene come di un efficace strumento di governo e capace di imporgli delle regole intervenendo attivamente per limitarne le conseguenze socialmente e politicamente negative. I consigli di Smith al legislatore si fondono sempre su considerazioni di carattere sociale o politico piuttosto che economico. 

     Neppure in Smith esiste, pertanto, un interpretazione del mercato fine a se stessa, un mercato che può autoregolarsi all’infinito senza l’intervento dello Stato che fissa limiti a tale sviluppo. 

   La critica ad un liberismo sfrenato comincia a nascere da uno dei padri fondatori dell’economia politica. 

   Il Partito Democratico dovrà assumere il compito storico di capovolgere la linea di tendenza che ha finito per prevalere dagli inizi degli anni settanta fino ai nostri giorni, un mutamento radicale che è stato adottato dall’attuale Presidenza degli Stati Uniti a tutti i livelli e che dovrà contraddistinguere anche il programma di un partito moderno ed al contempo riformista come il Partito Democratico.

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