top of page

Schibboleth

e i nuovi orizzonti della laicità

di Domenico Venturelli

 

Schibbòleth è parola ebraica che significa spiga di frumento, ramoscello d’ulivo ed altro ancora. Spiga. Il termine, allusione al dono congiunto della generosità della terra e del lavoro dell’uomo, può in certo modo farsi carico di un’antica promessa, in quanto, dando ali alla speranza, immaginiamo la terra come la vorremmo per le generazioni future: la dimora ricca di messi dell’uomo pacificato; l’oggetto costante delle sue attenzioni e della sua cura. Memoria della promessa, apertura all’avvenire, speranza di scoprire, al di là del mare, come nuovo Colombo, la terra mai vista finora si mescolano nel dire profetico di Nietzsche: Così amo ancora  soltanto la terra dei miei figli, non scoperta finora, là nel mare remoto: alle mie vele ordino di cercarla senza posa...- non come terra di conquista, bottino e proprietà da spartire tra nuovi signori, ma come abitazione destinata a generazioni di uomini che conoscono la giustizia e la pace. Beati mites, quoniam ipsi possidebunt terram(Mt 5, 5). 

Schibbòleth è un contrassegno linguistico atto a spartire, a separare, per la difficoltà che lo straniero incontra a pronunziare correttamente la parola, i membri d’una comunità altra da quella autoctona dei parlanti; perfino una parola d’ordine atta a discriminare i membri di una diversa tribù della medesima stirpe. In questo uso il termine s’incontra in un luogo del libro dei Giudici 12, 6, che narra un episodio di tale crudeltà ed efferatezza da farci dubitare che la Bibbia sia un libro santo in ogni sua parte: 

«E gli uomini di Galaad bloccarono i guadi del Giordano agli Efraimiti. E quando i fuggiaschi dell’esercito efraimita chiedevano di passare, gli uomini di Galaad domandavano loro, uno per uno, se erano Efraimiti, e quelli rispondevano di no. Ma gli uomini di Galaad insistevano: “Dicci Schibbòleth!”, e l’altro invece rispondeva: “Sibbòleth!”, poiché non sapeva pronunziare correttamente la parola. Allora li afferravano e li sgozzavano sui guadi del Giordano. Degli Efraimiti, in quell’occasione, ne morirono quarantaduemila».

Insieme alla guerra le divisioni, le inimicizie, gli odi feroci tra nazioni di cultura, lingua, religione diverse sono il più antico retaggio della storia umana e ogni nuova generazione, facendosi carico delle innumerevoli sciagure e degli infiniti dolori della storia passata, deve sforzarsi di non ricadere nei medesimi orrori, di porre un rimedio al retaggio della paura e dell’odio ripudiando la guerra, che certo, tra tutti, è il peggiore dei mali. Gli amici che sotto la direzione e il coordinamento di Elio Matassi, Ivana Bertoletti e Carmelo Meazza hanno ideato la Rivista e dato ad essa il nome Schibbòleth si sono richiamati indirettamente al libro dei Giudici, ma direttamente al titolo di una lirica del poeta di lingua tedesca Paul Celan (1920-1970), Schibbòleth, compresa nella raccolta Di soglia in soglia (Von Schwelle zu Schwelle), o, secondo quanto ha scritto Elio Matassi presentando il primo numero della Rivista, al titolo della silloge dedicata dal filosofo franco-algerino Jacques Derrida (1930- 2004) all’opera poetica celaniana: Schibbòleth pour Paul Celan. 

In questi passaggi il termine assume nuove sfumature significanti. Per un verso diventa parola di reciproco riconoscimento per uomini che, nel mezzo delle bufere della storia, coltivano gli stessi ideali di libertà, fraternità, eguaglianza, vivono la stessa speranza messianica; per altro verso continua a evocare l’esperienza di una cesura, di una frattura irriducibile tra me e l’altro, proprio così risvegliando, col senso dell’alterità e della differenza, il bisogno della condivisione, l’esigenza della parola vera che, in uno scenario di rovina, testimoni per noi due contro ogni violenza. Seguendo queste o simili suggestioni il nome della Rivista si fa evidentemente espressione cifrata di un compito che oggi, nell’epoca della globalizzazione, non è certo possibile eludere: unificata la terra sotto i profili dell’economia, delle finanze, delle comunicazioni, dell’informazione è chiaro infatti che gli uomini, a meno di seguire la via dell’autodistruzione, sono chiamati in ogni angolo del globo a nuove forme di coesistenza, di solidarietà, di cooperazione, rispettose delle differenze culturali nate dalla storia, della pluralità dei popoli, delle lingue, delle religioni - per quanto possa essere ancora un focus imaginarius, un ideale regolativo l’ordinamento cosmopolitico repubblicano pensato da Kant nella Pace perpetua (1795) e in altri suoi scritti come la mèta finale della storia dell’umanità. 

 

***

 

All’esigenza di una nuova condivisione di valori civili attuabile nel rispetto delle differenze culturali e religiose, al bisogno di una società aperta, libera dalla paura perché regolata da leggi di libertà, risponde la ricerca di nuovi orizzonti della laicità, più ampi, più inclusivi rispetto al passato; il carattere militante ma non ideologico di Schibbòleth, la sua attiva speranza di concorrere alla necessaria riforma del costume e della politica in Italia. La ricerca di nuovi orizzonti è un compito teorico-pratico imposto in prima istanza dal mutare delle circostanze, perché anche la società italiana è e verosimilmente sarà sempre più composita, per la coesistenza in essa di gruppi culturali non omogenei, per la compresenza di una pluralità di fedi, confessioni e comunità religiose alle quali il potere pubblico dovrà garantire, nei limiti dell’osservanza di leggi comuni, eguali libertà ed eguali diritti. Nella loro relativa novità e continua mutevolezza le circostanze non sono però, per chi ha vocazione politica, una penosa costrizione, ma l’ambito di una generosa e intelligente progettualità, di una prudente iniziativa, di un’azione responsabile. 

La laicità dello Stato e la democrazia liberale, fragili conquiste che l’Europa civile ha pagato al prezzo di lunghi e sanguinosi conflitti, restano, in vista d’una società multiculturale integrata e pacifica, le condizioni imprescindibili e i beni essenziali, per quanto siano beni esposti - oggi come ieri - a tutti i venti della storia. È, se così si vuol dire, il paradosso per il quale solo uno Stato laico, non uno Stato confessionale, solo una democrazia liberale, non un regime confessionale, può essere garante della libertà religiosa dei cittadini e della pluralità delle fedi: un paradosso che mi pare esprima di per sé la superiorità assiologica del principio della libertà su quello della confessione. Nella pratica ciò significa che il potere politico, come non imporrà ai cittadini una determinata visione del mondo (per esempio secolare e profana), così nemmeno favorirà una particolare confessione religiosa (per esempio, in Italia, il cattolicesimo), facendone così una religione di Stato, conforme alla formula religio instrumentum regni.

Al di là di quanto è dettato da contingenze politiche immediate agisce forse, nell’odierna riproposizione del tema laicità-religioni, un impulso più intimo, collegato al sorgere, da un lato, di una nuova sensibilità laica per il fenomeno religioso (per la centralità che esso ha nella vita di milioni di uomini, per la sua rilevanza nella sfera pubblica) e, dall’altro, di una nuova sensibilità religiosa per i valori della laicità (in primo luogo l’autonomia e l’inviolabilità delle coscienze individuali). Si tratta di nuove, convergenti sensibilità che potrebbero sortire effetti di riforma grandiosi, se arrivassero davvero a permeare congiuntamente la comunità politica a-venire e le diverse comunità religiose, non esclusa la Chiesa cattolica. Non c’è dubbio, infatti, che c’è anche bisogno, non soltanto per il nostro paese, di una Chiesa romana rinnovata, capace, per usare l’espressione di Rosmini, di curare le sue piaghe, disposta finalmente a lasciarsi penetrare - in base al significato più religioso che politico della formula cavouriana «libera Chiesa in libero Stato» - dal vituperato principio di libertà dei moderni. In fondo, non si tratterebbe che di ritrovare, nella libertà vincolata alla responsabilità per l’altro uomo, il principio stesso del cristianesimo, che attinse la sua legge «unicamente dalla voce interiore, non da comandi e precetti esterni», e appunto perciò, per ripetere parole del laicissimo Croce, «il suo affetto fu d’amore, amore verso tutti gli uomini, senza distinzione di genti e di classi, di liberi e schiavi, verso tutte le creature, verso il mondo che è opera di Dio e Dio che è Dio d’amore, e non sta distaccato dall’uomo, e verso l’uomo discende, e nel quale tutti siamo, viviamo e ci moviamo».

In una prospettiva allargata al rapporto con le religioni mondiali (ebraismo e islamismo in prima istanza) dovrebbe apparire ancora più evidente che la ricerca di nuovi orizzonti della laicità non può essere veramente disgiunta dalla concomitante ricerca di nuovi orizzonti della religiosità. Potremmo anzi dire, mutuando formule concettuali di Gadamer e di Troeltsch, che si tende probabilmente da più parti, con maggiore o minore consapevolezza, a una fusione d’orizzonti in grado di comporre in un punto di vista superiore, in una sintesi culturale nuova e più ampia, il logoro dissidio di laicismo e confessionalismo. In definitiva, i nuovi orizzonti della laicità, i nuovi orizzonti della religiosità restano da scoprire giorno per giorno. Ma nessuna sincera ricerca è possibile senza il rifiuto di quello spirito settario, ora arrogante ora saccente, sempre autoritario mai autorevole, che muta la laicità in laicismo, la religiosità in fanatismo. Cacciare dagli altari la religione per porre su di essi la scienza e la tecnica, o, al contrario, restaurare la religione lasciando cadere l’anatema sul mondo moderno, è indice, dovunque avvenga, di una preoccupante mancanza di finesse e di un modo di pensare inadeguato al momento. 

Invero, dovrebbero essere abbastanza ampi, i nuovi orizzonti della laicità, da includere nella loro sfera i valori religiosi; dovrebbero essere abbastanza ampi, i nuovi orizzonti della religiosità, da includere nella loro sfera i valori della laicità, e con ciò cadrebbero vecchi e anacronistici steccati, né si costruirebbero nuove, artificiali barriere tra l’umanesimo e la religione. In ultimo la convergenza e la compenetrazione, in base al principio della libertà, degli orizzonti della laicità e di quelli della religiosità, avrebbero la conseguenza che la stessa distinzione tra l’uomo di mondo e l’uomo religioso, tra l’uomo consacrato e l’uomo profano - quasi due distinte tipologie umane -, apparirebbe oltremodo problematica. Di più, la stessa opposizione tra la ragione umana e la rivelazione divina tenderebbe in certo modo ad attenuarsi, sorgendo più chiara la consapevolezza che la coscienza degli individui, nella sua inviolabilità e nel suo segreto, è il luogo stesso della rivelazione. 

bottom of page