Il senso oggi
della
questione sociale
di Andrea Margheri*
Il crepuscolo di Berlusconi e del suo schieramento sempre più variegato sembra non aver termine e si trascina verso zone d’ombra minacciose. I metodi sbrigativi di «asservimento» delle istituzioni democratiche stanno già provocando degenerazioni e fratture sempre più evidenti: qualche segnale di allarme dovrebbe risuonare anche nelle tifoserie fanatizzate dell’«unto del Signore» e del suo governo.
La condizione del Parlamento, dopo il successo della campagna acquisti della maggioranza e il trionfo del trasformismo contrattato alla luce del sole, è caduta al punto zero di autorevolezza e di autonomia.Il Parlamento è ora capace di votare a maggioranza qualsiasi grottesca pretesa di impunità e qualsiasi rivendicazione di potere personale del premier: la rottura di ogni vincolo di fermezza costituzionale e di dignità culturale c’è già stata con il voto a maggioranza che riconosce al presidente del Consiglio di aver lavorato in buona fede nel losco affaire delle telefonate alla Questura di Milano per evitare addirittura un incidente diplomatico con l’Egitto. E le tifoserie fanatizzate sembrano aver ingoiato e digerito anche questa ennesima caduta della funzione parlamentare.
Tra le più esplicite e determinate intenzioni del premier c’è quella di usare questo Parlamento come uno squadrone di cavalleria polacca contro la magistratura colpevole di non riconoscere la sua presunta condizione di impunità votata dal popolo sovrano, e contro la Costituzione, da lui condannata per un presunto vincolo illiberale all’articolo 41 con un rovesciamento semantico degno di un mago della‘pubblicità ingannevole’ quale si è già dimostrato più volte. E manda a dire alla Corte che le sue deliberazioni sono viziate da un ‘pregiudizio comunista’. Si prefigura, dunque, l’aggravamento del conflitto istituzionale ormai cronico che chiama in causa sempre più spesso la prudente equanimità del presidente della Repubblica. Dove ci sta portando, dunque, il trascinamento della crisi e l’intreccio inestricabile tra l’azione del governo e le vicende giudiziarie del premier? Dove arriverà la resistenza del blocco berlusconiano totalmente prono alle pulsioni autoritarie che ormai sono sin troppo evidenti? La Repubblica democratica dovrà cimentarsi con una riedizione berlusconiana del «Muoia Sansone e tutti i filistei»?
Questa mascherata finale dopo le tante che abbiamo subito rappresenterebbe non solo una minaccia drammatica contro la democrazia italiana, ma una rottura definitiva con l’Europa che ci guarda già con sospetto e sfiducia, come spesso possiamo leggere sui giornali degli altri Paesi.
Nella dimensione nazionale ci sovrasta proprio questa emergenza: laRepubblica è trascinata verso una condizione di pericolo e di impotenza. Potrebbe pagare un prezzo altissimo per il conflitto istituzionale e le fratture che esso sta determinando non solo nel sistema politico ma nel tessuto sociale. Sarebbe un grave errore di analisi se non si percepissero i segnali della sempre più nefasta influenza dell’emergenza democratica sul funzionamento dell’economia e sugli orientamenti delle forze sociali. Ovviamente, sarebbe grottesco e infantile cercare un rapporto meccanico, negando la vitalità autonoma di molte imprese e di quanti ci lavorano, di vaste aree dell’amministrazione pubblica, di gran parte dellasocietà civile. Anzi, è proprio da questa vitalità autonoma che nascono le più forti e interessanti risposte politiche all’emergenza democratica, come la protesta del mondo della scuola e della ricerca contro l’ottusa rigidità della Gelmini, o la rivendicazione di dignità delle donne,o l’iniziativa dei lavoratori e della Cgil per il ristabilimento di una prospettiva di concertazione e di ‘patto sociale’. E nel mondo imprenditoriale le inquietudini e le critiche che già da tempo si esprimevano apertamente, sono sempre più marcate e argomentate.
Tutto questo conferma che la partita è ancora aperta, che l’autoritarismo non ha piegato irrimediabilmente la democrazia italiana.Ma sarebbe sciocco chiudere gli occhi di fronte ai processi che vanno in una direzione opposta. L’egoismo privatista, individualista, antisolidaristico, che è il corollario inevitabile della visione del mondo e della politica imposta dal berlusconismo a tutto lo schieramento composito del centrodestra, penetra in vaste aree della società e condiziona le relazioni industriali e i rapporti tra i sindacati. Le fratture in atto scontano l’influenza dei rapporti travagliati delle Confederazioni con il governo in carica e la pressione dei vari ministeri oltre alla pressione culturale e mediatica del centrodestra. Così la ‘questione sociale’ viene condizionata e vincolata in una concezione dell’economia e dei mercati rigidamente neoliberista.
Concezione che sconta, come fosse un nuovo dogma indiscusso, ilcarattere radicale e irreversibile dell’abbandono del modello di relazioni sociali e di democrazia economica che ha segnato la civilizzazione dell’Europa continentale e che ha influenzato anche l’evoluzione della società italiana.
Di quel modello non ci sarebbe niente da salvare di fronte ai mercati globali e all’avvento di nuovi protagonisti economici. Bisogna tornare alla vecchia subalternità del lavoro, al potere senza regole dichi oggi dirige l’economia e che non è più l’imprenditore-innovatore di Schumpeter, ma ciascun centro di controllo finanziario che non riconosce né frontiere, né regole.
Questo veleno liberista così evidente nella grande crisi del 2008 non si vince, è evidente, con il ritorno al passato, ma adeguando la concezione democratica e progressista del modello economico al mondo attuale, alle sue nuove tecnologie produttive, alle sue nuove ‘reti’di comunicazione, al suo nuovo modo di organizzare il rapporto con il contesto sociale e ambientale. Senza lasciarci ipnotizzare dai falsi dogmi ideologici, ma restando ben consapevoli che la trasformazione tecnologica e organizzativa della produzione e dell’economia su scala mondiale, non è una legge naturale indiscutibile, ma una costruzione umana. Essa non postula la precarietà della condizione dei lavoratori e la disuguaglianza crescente come sinonimi di competitività e di efficienza; non postula il dominio senza regole della finanza sulla vita degli individui e dei popoli magari usando i soldi degli Stati nel momento di crisi; non postula la separazione dell’impresa e di chi
ci lavora dal contesto sociale, culturale, antropologico della loro storia: tutti questi sono solo effetti collaterali dell’assenza di regole e di intervento politico, sono effetti collaterali del vuoto di democrazia, della resa della politica alla potenza del capitale finanziario sia nella dimensione nazionale, sia nella dimensione mondiale. Potenza che dopo la crisi del 2008 ha ricostituito i meccanismi del suo dominio coni soldi degli Stati nazionali e ora invoca i principi del mercato autoregolato per contrastare la richiesta di correzioni e riforme.
Sì, è in gioco la questione essenziale: il modello di sviluppo e il rapporto tra politica ed economia. Questo è oggi il senso della questione sociale anche in Italia, dove la precarietà ha trionfato come modello di vita imposto alle nuove generazioni, dove la disuguaglianzacontinua a crescere, dove gli effetti della crisi mondiale sono riconoscibili in una disoccupazione giovanile intollerabile, in una crescita della disuguaglianza e in una ulteriore compressione dei margini di mobilità sociale.
Ora, se questa è la partita fondamentale che si gioca in Italia, è del tutto evidente un corollario politico: che una correzione rapida e coraggiosa del modello di sviluppo non è neppure pensabile in una condizione di crisi democratica e istituzionale. Viceversa: una rifondazione democratica del Paese è possibile se essa procede di pari passo con la riaffermazione del bene pubblico sull’egoismo privato, nella prospettiva di un impegno generale contro la disuguaglianza, la precarietà del lavoro e della vita dei giovani, le rigidità delle gerarchie sociali. Questa è la via per mobilitare le risorse intellettuali e professionali del Paese, per far funzionare meglio l’economia e garantirne la
crescita. Da un punto di vista culturale, il pensiero dei costituzionalisti democratici che invocano la riforma elettorale, il ristabilimento della dignità e dell’autorevolezza del Parlamento, il confronto equilibrato e sereno tra la politica e la magistratura nel rispetto dei rispettivi ruoli costituzionali, si congiunge inevitabilmente al risveglio della coscienza dei giovani e delle donne testimoniato dai recenti movimenti spontanei. È il nesso inscindibile tra questione democratica e questione sociale.
Del resto, questa relazione sempre più stringente non riguarda solo le condizioni storiche del nostro Paese. È facile vedere quanto questo collegamento appaia decisivo anche nei movimenti di rivolta che hanno attraversato e attraversano il mondo arabo dove vecchi regimi autoritari, sclerotizzati e corrotti, stanno saltando sotto una spinta popolare di cui parte importante e talvolta decisiva sono i giovani privati del lavoro e delle speranze di vita dall’immobilismo economico e dalla rigidità sociale. Altro che rivolta del pane! Se si ascoltano i giovani si avverte subito la nuova cultura che li anima: essi criticano tanto le condizioni di disuguaglianza e di paralisi economica quanto gli effetti di precarietà, di frustrazione, di emarginazione che esse producono, soprattutto per le giovani donne. Così, mentre fissavamo ipnotizzati il conflitto tra i vecchi regimi e le diverse tendenze islamiche, la storia ci ha riservato una ennesima sorpresa: sono scesi in campo i giovani educati e sospinti dalle ‘reti’ di informazione che si battono insieme per la democrazia e la dignità del lavoro.
Molti governanti (come Obama) lo hanno capito subito e non hanno avuto esitazioni nel giudizio e nell’iniziativa. Questo è stato un buon segnale, pur in una situazione ancora incandescente e drammatica. L’Italia non si è risparmiata qualche figuraccia, ma i fatti per fortuna hanno la testa dura e hanno costretto anche il governo italiano ad allinearsi. Ma il significato degli avvenimenti va molto oltre la cronaca drammatica di questi giorni e l’emergenza umanitaria. È una nuova evoluzione nella lotta per la giustizia e la libertà che mette alla prova anche noi, anche la capacità di analisi e di proposta della sinistra.
*Andrea Margheri è direttore della Rivista mensile Argomenti Umani