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La libertà esistente, verso una possibile interpretazione dell’ “originario”

 

in dialogo con Claudio Ciancio

 

a cura di Bachisio Meloni

Incontriamo Claudio Ciancio, ordinario di Filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università del Piemonte Orientale e Presidente del Centro Studi filosofico-religiosi Luigi Pareyson (Torino). In questo breve appuntamento con lui, colloquiamo sui più importanti temi che hanno contraddistinto le sue ricerche, in particolare sull’ontologia ermeneutica, con specifico riguardo alle questioni della libertà come principio, dell’alterità, del male, dell’esperienza etico-religiosa. 

D.: Professor Ciancio, desidererei soffermarmi sulla dialettica di indeterminazione e determinatezza (o di infinito e finito, di alterità e identità), sul ruolo predominante della prospettiva ermeneutica, ossia sul mai risolubile rapporto tra verità e interpretazione: sembra prevalere l’impressione che gran parte del discorso riguardante la questione del fondamento difficilmente possa suggerire condizioni in grado di dirimere il dramma inestinguibile sotteso allo sfondo primigenio e ultimo dell’indeterminato. Lei, sulla base della prospettiva pareysoniana de l’Ontologia della libertà (Il male e la sofferenza), facendo di essa il Suo precipuo campo di ricerca, specie in questo Suo ultimo lavoro Libertà e dono dell’essere (Marietti, Milano 2009), mostra di trattenersi ampiamente su come affrontare l’ambivalenza del rapporto, sempre che possa dirsi tale, tra l’originario pensato come essere al di sopra della libertà e l’originario quale primato della libertà al di fuori dell’essere. Quali sono, in sintesi, gli esiti di questa Sua ulteriore prosecuzione di studio?

 

R.: Non parlerei di ambivalenza del rapporto tra l’originario pensato come essere e l’originario pensato come libertà, anzitutto perché non si tratta di un rapporto ma di un’alternativa. A me pare si tratti dell’alternativa fondamentale che attraversa la storia della filosofia. Se essa si presenta esplicitamente a partire dall’avvento della visione cristiana del mondo, si può dire che in nessun momento sia veramente assente o superata. Se possiamo affermare che il pensiero classico è dominato dal primato dell’essere e quindi della necessità, non si può però non restare sorpresi dall’idea platonica dell’al di là dell’essere, un’idea che anche se non la si vuole interpretare, vedendovi una forzatura, alla maniera di Levinas, è pur diventata, almeno in Plotino, un’apertura verso una possibile interpretazione dell’originario in termini di libertà. L’Uno «non è schiavo né dell’essenza né di se stesso, né l’essenza è principio per Lui, ma egli è principio dell’essenza, che Egli non creò per sé ma, dopo averla creata, lasciò fuori di sé, poiché non ne ha affatto bisogno Colui che l’ha creata» (Enneadi, V, 3, 19). Dunque l’Uno è libero da tutte le cose e da se stesso, dall’essenza e dall’esistenza. Se si può parlare di un suo essere, si deve dire che «il suo essere consiste nel suo creare e, diciamolo pure, nel suo generare eterno» (Ivi, 20). Aggiungerei poi quello che uno dei miei maestri, Nicola Abbagnano, ripeteva spesso e cioè che Platone riconosce all’uomo un’effettiva libertà al di là del destino, come dimostrerebbe il mito di Er. Come nel mondo antico non è assente del tutto il senso della libertà e persino del suo primato, così nel pensiero moderno vi è una persistenza del principio della necessità e una lotta per il primato con il principio opposto, che solo raramente (da Schelling all’esistenzialismo a Pareyson) vede una chiara vittoria della libertà. 

Vorrei anche precisare che, se si può parlare, come Lei fa, di un essere pensato al di sopra della libertà, non si può dire invece che l’ontologia della libertà affermi il «primato della libertà al di fuori dell’essere». Uno dei cardini teorici del mio libro è proprio il nesso inscindibile di libertà ed essere o, più precisamente, l’affermazione contestuale del primato della libertà e della sua inseparabilità dall’essere. Una libertà che non passa all’essere è una libertà che rifluisce nel nulla o, come dice Pareyson, implode. Mi rendo ben conto che si tratta di un rapporto paradossale, ma non c’è altro modo di pensarlo, perché da un lato, come intuì Schelling, la libertà o è al primo posto o è perduta per sempre, e d’altro lato una libertà senza l’essere è pura evanescenza.

Questa dialettica di libertà ed essere è, come Lei dice, una dialettica di indeterminazione e determinatezza, perché la libertà è aperta a possibilità opposte e quindi, in questo senso indeterminata, ma non può restare in questa indeterminazione senza dissolversi e quindi esige il passaggio alla determinazione, la scelta attraverso la quale si pone in un modo determinato e così assume l’essere. Tale dialettica non riguarda soltanto l’originario, perché ogni manifestazione dalla libertà, per quanto determinata, conserva in sé la radice della libertà, che ha sempre il carattere dell’inesauribilità, e ciò comporta che si possa configurare in infiniti modi. Ciò risulta più chiaro proprio nel rapporto tra verità e interpretazione. La verità è inesauribile in quanto è la manifestazione dell’originaria libertà, non è dunque pura indeterminazione, ma è l’originaria libertà che si è posta come esistente. Ma questa libertà esistente, a cui possiamo dare il nome di Dio, contiene in sé l’inesauribile ricchezza di potenzialità dell’originario e quindi è inesauribilmente interpretabile.

 

D.: Ritengo non si possa fare a meno di giungere al porle la fondamentale questione su quanto la meontologia pareysoniana sia sì un’“ontologia della libertà” ma tale in quanto “ontologia del nulla” (La libertà e il nulla, quale titolo per un conseguente libro previsto da Pareyson). Sulla base di quanto Lei afferma a proposito del nesso inscindibile di libertà ed essere quale presupposto inesauribile di ricchezza senza fondo, Le chiedo, in che termini l’impersonale neutralità che sostiene la libertà esistente può aggiungere qualcosa di più profondamente significativo nel superamento dell’equivoco originario e dell’abissalità? Si tratta certo di uscire da tale senso di equivoca indeterminatezza, e come Lei sostiene ricavandolo sulla base della posizione critica levinasiana dell’altrimenti che essere – per altro anch’essa non del tutto scevra da elementi di problematicità – è equivocità che, è il caso di Heidegger, presenta conseguenze moralmente e spiritualmente devastanti.

 

R.: La critica di Levinas alla filosofia di Heidegger intesa come filosofia del Neutro (contenuta peraltro in Totalità e infinito) intende questo Neutro come l’essere o, più precisamente, come natura impersonale che nega l’alterità e la responsabilità. Queste sono le conseguenze devastanti. Ma l’abissalità della libertà è altra cosa. Mentre il Neutro dell’essere unisce, dispone e governa il bene e il male, come Heidegger mostra chiaramente nella sua interpretazione di Schelling, l’abisso della libertà significa “soltanto”, e più indietro non possiamo retrocedere, che la radice dell’essere è la libertà e che dunque l’essere poteva non essere e poteva essere altrimenti e che è affidato alla libertà potendo ricadere nel non essere. La meontologia va pensata nel senso che il nulla originario non è il nulla posto, reale, ma l’alternativa non ancora decisa fra l’essere e il nulla, un’alternativa tuttavia già da sempre superata, dove il “già da sempre” non significa affatto che l’essere è necessario o è divenuto necessario, ma che la libertà che ne è la radice, come direbbe Schelling, “imprepensabile”. Nell’ontologia della libertà il non essere, in quanto libertà, non è né l’ombra dell’essere né ciò che sta prima dell’essere o meglio, se possiamo dire che lo precede, è solo nel senso che ne è la radice e, come la radice, non vive senza la pianta, e tuttavia, essendone la radice che lo alimenta è la causa del suo crescere o del suo seccarsi.

 

D.: In questa alternativa o compossibilità radicale sottesa all’idea di ontologia della libertà è come vivere l’inesausto tentativo di determinare un “inizio” pur rimanendo di continuo sollecitati dal tener testa a un’“origine” quale ulteriore sviluppo in direzione dell’immemorabile; è il sempiterno e vicendevole transito dalla determinazione del principio allo smarrimento di fronte alla prospettiva dell’abisso così come al tempo stesso dall’indeterminatezza di uno sfondo abissale alla continua e forse inesauribile tendenza al processo esistenziale del principio, o di un sempre invocato e auspicabile “nuovo inizio”.

 

R.: La questione dell’inizio è la questione della temporalità, che io credo non possa essere posta adeguatamente se non in un’ontologia della libertà. L’inizio del tempo e ogni nuovo inizio nel tempo, se sono veri inizi, non possono essere pensati se non come imprevedibili, infondabili, come un salto. Ed è solo in virtù di questi inizi che è possibile istituire una vera distinzione di tempi: un nuovo inizio separa il presente dal passato e la possibilità di un altro inizio istituisce il futuro. Anche il primo inizio, secondo la grande intuizione di Schelling, è l’istituzione di un passato, in questo caso un passato eterno o un’eternità come passato, l’origine immemorabile di cui Lei parla. Un tempo così concepito è un tempo delimitato e tagliato dall’eternità. I salti che distinguono i tempi non appartengono infatti al flusso del tempo ma lo interrompono, non provengono dal tempo ma lo costituiscono. A prima vista può sembrare sorprendente questa interpretazione degli atti discriminativi della libertà in termini di eternità. Diventa meno sorprendente se pensiamo che è stato Kant, prima di Schelling e di Kierkegaard, a metterci su questa strada quando ha pensato gli atti della libertà come posti fuori del tempo, atti noumenici.

 

D.: Lei mostra di far leva, anche se con l’intento di attraversarla, sulla critica levinasiana al “lasciar essere” in Heidegger, secondo la quale la nozione di libertà non è mai l’abisso imprevedibile e incontrollabile; semmai è sempre subordinata determinazione rispetto al senso di responsabilità che l’altro mi suggerisce e mi invita a ritenere. In che termini, chiedo, Lei ritiene che la libertà, pensata quale prospettiva verso una possibile interpretazione dell’“originario”, uscendo dallo sfondo indistinto della sua abissalità, e traducendosi nei ‘sentieri boschivi’ della libertà esistente, sia tale se pensata nella schellinghiana, e non solo, “forma paradossale dell’amore”? In cosa consiste il paradosso da Lei rilevato, specie alla luce della natura umana, intendo, dinanzi all’umanità dell’eros mai disgiungibile dall’altrettanto umana disposizione all’impulso della distruzione e dell’autodistruzione? La Sua è ricerca di una prospettiva veritativa, nel pieno rispetto di quanto peraltro sostiene l’ermeneutica contemporanea, alla quale, tuttavia, considerate le sempre più inestricabili diramazioni del senso, potrebbe interessare più che altro, e per così dire, il processo di raggiungimento dello scopo, non già lo scopo stesso.

 

R.: Il paradosso dell’amore consiste nella sintesi senza mediazione di alterità e unità. L’amore è attraversamento dell’alterità irriducibile ed anzi ne è costituito e come tale può presentarsi soltanto come qualcosa di assolutamente imprevedibile e, in ultima istanza, incomprensibile, non mediazione e integrazione delle differenze ma piuttosto grazia che armonizza senza costringere, possibilità di un dispiegamento non dissipativo delle differenze e del loro concrescere. L’amore ha lo stesso rispetto dell’alterità che costituisce la sostanza della relazione etica e tuttavia è anche reciprocità, una reciprocità desiderata ma non richiesta. L’amore è possibile perché è fondato sull'unità originaria, che rende pensabile e realizzabile la relazione reciproca, la corrispondenza, ma ciò senza ridurre l'impegno etico, che resta la condizione prima dell'amore, ed anzi in certo modo rafforzandolo in quanto gli si apre una prospettiva di piena realizzazione della relazione; una relazione – va ribadito – che non può essere pensata se non in termini paradossali, perché sintetizza, senza poter esibire la mediazione, unità e alterità. Penso che effettivamente la libertà si compia nell’amore, perché l’originario come libertà è posizione di alterità, ma l’altro della libertà come essere o come altra libertà può diventare ostacolo e opposizione, e però può anche ritrovare l’unità da cui proviene, ed è evidente che solo nell’unità, cioè nell’essere riconosciuta e accolta, la libertà è sostenuta e potenziata. In questo senso è chiaro che, come Lei suggerisce, l’impulso distruttivo e autodistruttivo nasce dalla stessa radice dell’amore, cioè dall’esigenza di unità, che però in questo caso viene soddisfatta attraverso la negazione violenta dell’alterità e diventa così un’unità vuota.

 

D.: Percependo il senso, o il “peso” e il “tormento” della loro libertà, come inscritta nell’inevitabile paradigma di un destino o come originariamente protesa sul nulla, nel limite estremo della propria esistenza, alcuni personaggi letterari (specie in Dostoevskij, l’autore prediletto da Pareyson, la cui prospettiva culturale e filosofica è da lui percepita quale il luogo ideale di quel “vincolo originario fra la libertà e il nulla”) è come se cercassero di intuirsi e bramassero di presentarsi a noi quasi con l’estrema necessità e l’urgenza di autodeterminarsi sempre sul filo stesso della propria morte, come se il senso dell’esperienza propria di ognuno risiedesse sempre sulla linea di un margine, sia esso limite sia esso confine; e senza che questo più incessante e disperato bisogno di determinarsi sotto forma di esperienza di vita debba per forza di cose coincidere con il disegno o la fatalità di una formula esatta, ossia col tradursi in un principio, esso sì davvero, di morte. 

 

R.: A mio parere i personaggi di Dostoevskij non si determinano tanto sul filo della propria morte quanto piuttosto sul filo della libertà attraverso la quale si pone la drammatica alternativa tra bene e male. Non c’è in Dostoevskij un vero pathos della morte, ma piuttosto un pathos del male (e del bene). Penso a Ivan disposto a trent’anni a rovesciare la coppa della vita o a Kirillov che si dà la morte per affermare una libertà assoluta e sostituirsi a Dio. Penso in generale al fatto che il male non nasce dall’angoscia di morte ma dalla rivolta, di cui le grandi figure dostoevskijane sono portatrici. Capisco che nel nostro clima culturale ciò risulti quasi incomprensibile, ed è anche questo che rende inattuale l’ontologia della libertà, per la quale il vero sfondo non è il dramma della morte o anche del limite dell’uomo o meglio è anche questo ma a partire dal dilemma etico-religioso del bene e del male, dell’obbedienza a Dio o della ribellione. Il mio maestro, Pareyson, mi diceva che la morte era per lui angosciante in quanto momento del giudizio di Dio, non, s’intende, nel senso banale della paura dell’inferno, ma nel senso della drammatica manifestazione della nostra responsabilità e della nostra lontananza dalla verità. 

 

D.: Dono, o darsi, della libertà, quasi a suggerire con nettezza l’anteriorità o lo sfondo ideale per ogni possibile determinazione di senso rispetto a quello della dialettica fra essere e nulla. Siamo cioè di fronte, come Lei sottolinea, a un più consapevole e deciso primato dell’etico in rapporto all’ontologico; al dubbio amletico o leibniziano del "perché c'è qualcosa e non piuttosto il nulla?", dovremmo anteporre un più edificante dubbio jobico sul “perché c’è il male e non piuttosto il bene?”, specie ancor più quando, in assenza di libertà, o nella piena pervasione di una “passività radicale” del soggetto, l’essere, come già a suo tempo esplicitato da Levinas sulla base della lettura dell’opera blanchotiana, è percepibile, più che in chiave di chiarore e apertura, nel clima di deprivazione dell’“Il y a” o di svilimento del “neutro”. 

 

R.: Forse più che di primato dell’etico in generale parlerei di primato dell’esistenziale, di un’esistenzialità certo caratterizzata in senso etico-religioso, un primato nel senso di punto di partenza originario della nostra comprensione dell’essere. Un semplice primato dell’etico in generale porta alle conseguenze di Levinas, un pensatore che io amo moltissimo, ma di cui non condivido l’espulsione dell’ontologia dalla prospettiva filosofica. Perché l’etica restringe la prospettiva all’ordine delle relazioni umane finendo per usare i concetti religiosi e ontologici come semplici metafore, ma un’etica senza ontologia è un’etica non solo senza fondamento ma esposta alla smentita dell’ordine ontologico. È quel che aveva capito benissimo Kant, a cui Levinas si richiama a riguardo del primato della ragion pratica. Kant aveva capito che occorre allo stesso tempo affermare l’autonomia dell’etica, altrimenti ne va dell’assolutezza della libertà, e ancorare l’etica all’ontologia, com’egli fece attraverso la dottrina dei postulati, che impedisce di porre la ragione in contraddizione con se stessa, come accadrebbe se vi fosse originaria e totale estraneità fra la ragion teoretica e la ragion pratica o fra l’ordine dell’essere e quello del dover essere. Naturalmente dire che l’etica richiede l’ontologia lascia ancora impregiudicato di quale ontologia si tratti. Ritengo che solo un’ontologia della libertà garantisca l’ordine etico, che è quello della libertà finita, libertà che, quando sia sottoposta a un ordine ontologico della necessità, finisce inevitabilmente per essere negata o meglio ridotta ad apparenza. Se invece l’originario è esso stesso libertà, allora la libertà finita è posta come libertà e in rapporto libero con l’originario stesso, il che non esclude che essa sia sottoposta, proprio perché finita, a norme e condizionamenti, che tuttavia non s’impongono senza che essa liberamente vi reagisca, di modo che in nessun modo possiamo considerarla determinata.

Ancora un’osservazione sulla domanda metafisica fondamentale, da Lei richiamata. Quella domanda nasce dall’angoscia determinata dalla consapevolezza che l’essere è esposto alla possibilità della nullificazione. Ma l’angoscia in ultima istanza si giustifica soltanto se la possibilità del nulla è male, cioè è una possibilità che può ma non deve essere. Se è una necessità o una casualità, vuol dire che è inscritta nella costituzione stessa dell’essere e non c’è ragione di considerarla negativamente. E infine che la domanda metafisica sorga dall’angoscia è una conferma della radice esistenziale della filosofia.

 

D.: Ancora a proposito di una sempre più viva attenzione da parte dei filosofi al linguaggio della poesia – era il lamento di Pareyson –, ritiene sia ancora così mal disposta la ragione filosofica a tollerare l’incandescenza e la virulenza di alcuni temi essenziali, quali il male e la sofferenza, che via via sembrano sottrarsi ad ogni possibile volontà di comprensione?

 

R.: Sì, penso che sia davvero maldisposta più ancora di come lo è stata in passato, quando pure dominava la tendenza a un’interpretazione riduttiva, e quindi evasiva, del problema del male, ma almeno lo si affrontava. Oggi la rimozione è più radicale e la ragione mi sembra abbastanza evidente: si tratta della rimozione dell’esperienza della libertà nella sua dimensione più propria e inaggirabile, cioè quella morale. La rimozione della libertà morale si accompagna alla medicalizzazione, tecnicizzazione e politicizzazione della cura del male, un male ricondotto a cause di orsine psico-fisico o al massimo sociale. Ma l’attribuzione del male a fattori sociali, che già criticava Dostoevskij e che era ancora molto diffusa qualche anno fa, sembra ora arretrare, come del resto è inevitabile in una società atomizzata. Medicina, psicologia e neuroscienze sembrano meglio attrezzate ad affrontare il problema. Certo penso anche che dietro alla sua rimozione ci sia anche la convinzione, più o meno implicita, della sua insolubilità, convinzione che facilmente può dissuadere dall’affrontarlo. Ma questo è il frutto avvelenato di una ragion pigra, che si riveste magari di una pietà religiosa pronta ad arrendersi subito davanti al mistero. Ora va detto che è indegno della ragione arrendersi, non perché non debba riconoscere ciò che, come direbbe Pascal, la sorpassa, e non debba ammettere che non vi è di tutti i problemi una soluzione razionale, ma perché invece le è sempre possibile un approfondimento e una più ricca comprensione del problema. Ma questa è una cosa che solo una ragione ermeneutica può veramente accettare.

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