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Elogio della gratuità

di Carmelo Vigna

 

L’elogio della gratuità, in una società come la nostra, può quasi parere inutile. Riceviamo molti messaggi pubblicitari in cui la gratuità sembra la cifra più diffusa. Tutti infatti dicono di volerci offrire qualcosa. Subito dopo, uno scopre che l’offerta di qualcosa è però subordinata all’acquisto di qualche prodotto. La gratuità, insomma, viene dai messaggi pubblicitari trattata come un comodo pretesto per un facile commercio. Come mai questo accade con tanta spudoratezza? Per rispondere alla domanda e capire qualcosa della questione, dobbiamo andare alla figura del “dono”. Il dono è infatti l’incarnazione della gratuità.

Ebbene, il dono è figura dalla straordinaria pregnanza onto-etica; ma si può subito aggiungere che non minore è la sua pregnanza teologica. Tutta la tradizione cristiana si potrebbe concentrare sulla figura del dono; la buona novella è il dono del Figlio e il Figlio è il dono del Padre. Ma io non desidero andare da quella parte. Non sono un teologo. Perciò vorrei limitarmi a proporre qualcosa su cui mi oriento meglio, e cioè una analisi, appunto, parte ontologica, parte etica della figura. Escludo, ad es., il sapere sociologico, che sul dono, a partire da Mauss, si è sempre esercitato, ma anche quello economico (si pensi alla letteratura recente sul cosiddetto “terzo settore”), quello letterario ecc.

Per andare più da vicino al nostro tema, penso sia opportuno, anticipare che cosa intenderò, quando userò un poco, a proposito del dono, dell’aggettivo “trascendentale”. Ebbene, non userò “trascendentale” in senso solamente kantiano, neppure userò “trascendentale” in senso solamente medievale. Come è noto, per il pensiero medievale “trascendentale” è un attributo riferito a tutto ciò che è, all’ens. Nel linguaggio kantiano, invece, “trascendentale”, essendo l’essere non conoscibile, diventa un attributo della soggettività in generale e quindi prende una curvatura che dall’ontologico passa tendenzialmente a ciò che potremmo rubricare come “gnoseologico”, se non fosse anche questo un vecchio termine che può indurre ad equivocazione. Allora, io intenderò il termine “trascendentale” in modo da condurre sullo stesso territorio semantico l’una e l’altra tradizione. Cioè, per me, “trascendentale” è nel contempo ciò che appartiene a ogni ente e ciò che si dice sempre di ciò che appare ad una soggettività che si apre al mondo, perché una soggettività che si apre al mondo è originariamente, quanto a orizzonte, infinita e quindi in pari con quell’orizzonte, anch’esso infinito, che lo scolastico indicava come proprio dell’ente in quanto tale.

Solo nel cerchio della soggettività trascendentale si dà, questa è la mia tesi, decifrazione persuasiva della figura del dono. Nel seguito tento di dire come. Per costruire la risposta, conviene riprendere quel cenno iniziale al dono, che sta tra il buon senso, la cultura comune. Ebbene, se si sosta, anche per poco, sulle forme dell’accadere quotidiano, subito si coglie, come prima si diceva, la sensazione d’essere assediati da messaggi “donatori”. Siamo infatti, soprattutto attraverso i media, destinatari simbolici di doni innumerevoli. Tutti vogliono donarci qualcosa, o così pare: chi la bellezza mediante la saponetta adatta (da acquistare, ovviamente, a peso d’oro), chi una sorta di nuova giovinezza con una particolare crema antirughe (anch’essa costosissima); poi c’è chi regala cinque minuti in più di telefonate, ma previo ascolto di una serie di messaggi pubblicitari, naturalmente; c’è anche chi ci scarrozza per mezza Italia, se siamo pronti a sorbirci una complessa presentazione di articoli da cucina. E così via. Il linguaggio politico-istituzionale e quello privato-commerciale si profonde in assicurazioni del tipo: lavoriamo per voi, vi stiamo servendo, vi diamo  ascolto e simili. La nostra, dunque, sembra proprio una società di doni. Tutto gratuito per tutti.

Questa esemplificazione mi par sufficiente a mettere in guardia sulla figura del dono e della gratuità,  difficile da capire, perché vive di maschere infinite, come quelle appena citate. In effetti, tutto ciò è possibile, perché il dono in generale non appare come tale. In questo senso: che nessuno di noi è in grado di dire se qualcosa è veramente un dono, perché nel dono non appare mai il donare. E non può neppure apparire. Il donare in quanto tale è infatti - possiamo anticiparlo - un’intenzionalità che appartiene al trascendentale della soggettività. La quale non appare come tale. Semmai tra(n)s-pare. Ci sono certamente indizi, per cui in qualche modo si intuisce se un dono è reale, oppure se è solo apparente, cioè se è un falso dono, come il cavallo donato dai Greci ai Troiani. Ci sono indizi certamente; però, questo desidero sottolineare, non è riducibile, il donare, a qualcosa che è lì, per cui io possa dire “questa è una donazione”, intendendo per donazione quello che solitamente intendiamo, e cioè che qualcosa passa, quanto al possesso, da qualcuno a qualcun altro, senza che nulla si chieda in cambio e senza che si sia obbligati da un debito precedente. Cioè gratuitamente.

Altra convinzione, che mano a mano svilupperò e che parimenti anticipo qui, è la seguente: sempre il donante sidona. In altri termini, il dono è originariamente un essenziale donare sé e tutte le forme di gratuità, in quanto sono, sono individuazioni di questa intenzionalità radicale. Cosa che appare in modo sufficientemente chiaro nella quotidianità, quando uno regala oggetti particolarmente simbolici, come ad es. un anello nuziale.

Andiamo ora da una sommaria descrizione della situazione di gratuità o donatrice. Diciamo, allora, che il dono ha sempre, anzitutto, un donatore, almeno nel senso che il dono è, in ultima istanza, lo stesso che il gesto di un donatore. Ma il dono ha anche un donatario in modo altrettanto inevitabile. Pare che nel linguaggio di area ittita, secondo i glottologi, dare abbia la stessa radice che prendere. E si capisce intuitivamente perché: dare implica necessariamente dare qualcosa a qualcuno che la prende. Il donare, insomma, ha una struttura triadica: c’è appunto un donatore, poi c’è un dono e infine un donatario. Dare qualcosa a nessuno è un gesto privo di senso, così come è privo di senso dare niente a qualcuno. E, d’altra parte, è privo di senso pensare ad un dono senza un donatore. Tanto che, quando abbiamo qualche problema nell’indicare l’identità del donatore, diciamo che qualcosa ci è giunto come un “dono del cielo”. Questo triadismo, che un filosofo come Derrida si esercita a negare, per amore del paradosso, è nella coscienza comune, per fortuna, saldamente presente.

Ed è una struttura elementare su cui mettere gli occhi per capire come il donare, il dare per nulla, il dare gratuitamente, funziona. Il problema sta poi nel determinare il legame fra questi tre termini, apparentemente così ovvio. Il senso comune pensa subito ad una qualche forma di causalità: il donatore è la causa del dono, il dono è l’effetto, così come il donatario è il termine designato dell’azione donante. Però, se i tre momenti fossero legati dalla causalità, allora si potrebbe sempre risalire dal dono al donatore in modo presso che infallibile, cioè quasi secondo un nesso di necessità. Invece, noi siamo facilmente depistati, quando desideriamo risalire dal dono al donatore. Siamo sorpresi a volte nello scoprire che il donatore era assolutamente a noi ignoto. Pensavamo ad altro. E’ un legame difficile da capire quello tra dono e donatore, come è difficile da capire anche il legame tra dono e donatario. Anche lì: non sempre un dono raggiunge il proprio donatario.

Ma la nozione stessa di “dono” fa problema. Sembra possa essere fatta identica alla nozione di “dato”. La lingua francese, come si sa, non distingue tra “dare” e “donare”. Ha solo il termine “donner”. Eppure, tutti intuiamo che una cosa donata non è una cosa data. Uno può “dare un pugno” ad un altro. Nessuno penserà che il malcapitato abbia ricevuto un “dono”… Di tutto si può dire che in qualche modo “si dà” (es gibt). Il “si dà” sembra autorizzare a dire che qualcosa è “dato”. Ora, dire che qualcosa è “dato” significa, analiticamente, presupporre un “dante”. Ma questo è già dire troppo. Il “si” (dà), infatti, registra linguisticamente il buio intorno alla cosa che è lì. Qualcosa si dà, è vero; ma si può dare senza che si sappia nulla quanto all’origine di ciò che si dà. In altri termini, se non è possibile che qualcosa di determinato accada e che non vi sia  niente e nessuno che “gli stia alle spalle”, è però possibile che nulla si sappia di altrettanto determinato in proposito. Perciò diciamo a volte: “si dà”, in attesa di sapere. Siamo, cioè, dinanzi ad un problema.

Ora, il dono è ancor più problema. Problema è, ad es., capire se colui il quale sta dietro al dono è il greco del cavallo di Troia o l’amico fraterno. In altri termini, è un problema sapere se dietro c’è qualcosa che ci riguarda e ci concerne precisamente in quanto il dono è per noi, propriamente per noi, oppure se il dono è per lui, per il donatore, cioè è la forma della cattura per noi. Più che un problema teorico, questo è, come vedremo, un problema etico. 

Intanto, Il rimando del “si dà” nel dono è un rimando che implicitamente chiama in causa una libertà. Non ci aspettiamo doni da un animale o da una pianta, se non per metafora: il cane mi porta il giornale in bocca la mattina, poniamo, e io posso pensare che sia un dono suo, ma lo è solo per metafora. Propriamente, quando pensiamo ad un dono, pensiamo, in qualche modo, ad una causalità secondo libertà.

Essendo il fondo della cosa la libertà dell’altro, la relazione non è immediatamente decifrabile come buona, se non secondo l’effetto suo e possibilmente la manifestazione sua. Dono non è lo stesso che dato, perché, appunto, dono implica un riferimento al libero. Questa implicazione è ribadita da un’altra caratteristica, a mio avviso dominante. E cioè, che il dono, in quanto tale, implica che sia sempre o che abbia sempre in sé la nozione di un inizio assoluto. Il dono, anche nel comune linguaggio, esprime, incarna la cifra della gratuità e non è percepito come tale, se non è percepito come sorto improvvisamente da niente (di dovuto o di debito). Quindi il dono è pensabile in quanto il passare, cui prima alludevo, di un possesso da qualcuno a qualcun altro, è un passare che, quanto al dono, appare come  sorgente da un inizio che io devo porre nel donante. Cioè, l’inizio assoluto propriamente del dono è semplicemente la percezione di ciò che accade alle spalle del dono presso il donante, in cui, nella sua libertà appunto, sorge il gesto. Il gesto del donante non è che sia senza ragione - è un’altra cosa questa - perché le forme della libertà non sono senza ragione, anzi sono le forme profondamente più razionali. Sono senza ragione calcolante, cioè senza la ragione dello scambio del debito. Infatti, se un dono è un vero dono, se è veramente cifra della gratuità, ci sorprende in un modo o nell’altro. Se ce l’aspettiamo, non è un puro dono. Il dono puro è anche la pura sorpresa, viene dal niente, ripeto dal niente in quanto il niente è la forma dell’inizio assoluto. E’ un puro sorgere. Per questo ci riempie di meraviglia e, si spera, di gratitudine. Tommaso d’Aquino osservava che, per poter veramente corrispondere a un dono, bisogna che si abbia di rimando un altro dono, nel senso che pure il dono di rimando deve essere una sorta di gratuità assoluta, l’unica in grado di corrispondere alla precedente gratuità assoluta. Altrimenti la relazione donante precipita nella relazione di scambio.

Possiamo approfittare dell’evocazione della nozione di scambio per dire qualcosa su dono e scambio. Intanto, lo scambio appare come altra cosa dal dono; questa è una convinzione di buon senso.  Ma le due dinamiche di relazione non sono proprio opposte. Nella lingua italiana, scambiare è quasi sinonimo di cambiare e cambiare, a sua volta, è quasi sinonimo di divenire e anche di passare; cambiamento, divenienza, passaggio. Anche il dono è in realtà un certo passaggio. Tuttavia, la nota propria dello scambio è questa, che, quando si scambia, il passaggio è inevitabilmente doppio: c’è una reciprocità del passare, cioè qualcosa passa da qualcuno a qualcun altro e, più o meno immediatamente, accade il movimento reciproco. Il dono, invece, sembra realizzare soltanto la prima parte del passare. Sembra una sorta di relazione unilaterale. Quindi il cambio esclude la possibilità di un passare in “perdita”. Ciò che scambio esige un ritorno in equivalenza. Se la parte in (ri)cambio non venisse trasferita, ne andrebbe della giustizia. Io percepirei una predatorietà nell’altro. Io sarei uno che è in perdita, cioè che, quanto all’essere, subisce un decremento. Sarei impaurito da un  destino di deriva, che può essere oscuramente percepito anche come un destino di morte.

Non così la gratuità del dono. Donare può chi non ha questa paura essenziale. Purtroppo nessun essere umano facilmente ne è privo. Dev’essere da questa paura almeno assicurato da qualcun altro. In ultima istanza, da un Altro. Altrimenti trema nel profondo dell’esistenza ed evita di donare; tutt’al più scambia. Un “povero cristo”, come si dice, non fa doni, tenta piuttosto, accaparrando d’intorno, di assicurarsi l’esistenza. Quando scambia, è più tranquillo. Scambiare è cosa più “umana”, è cosa della sua finitudine; donare, invece, dice ordine ad una qualche infinità. Perciò un essere umano, quando prova l’esperienza del dono, esulta nel profondo; percepisce il rischio di questa straordinaria condizione, ma sa che il donare gli appartiene. Muovendo da questa esperienza particolare, un essere umano può rovesciare la percezione di prima, il bisogno dello scambio, e inseguire una sorta di permanenza nel ruolo di donatore. Sull’attività donatrice vorrebbe metterci le mani sempre, se potesse. E deve purtroppo, nella quotidianità, stare allo scambio. Perché un essere umano ha sempre bisogno di qualcosa: bisogno di cibo, bisogno di relazioni d’amore, bisogno di stare in salute... Un essere umano ha praticamente bisogno di tutto. Ma, appunto, è la nostra condizione di finitudine che è legata allo scambio; l’infinità intenzionale è invece la fonte del dono. Noi esultiamo del dono, ma viviamo di scambi. Purtroppo, a tal punto che per lo più lasciamo precipitare la relazione donante nella relazione di scambio. Ci scambiamo persino i doni secondo la forma dell’equivalenza. Tanta è la paura di accedere alla gratuità.

La nostra paura è spesso, in realtà, paura del donatario, perché noi non sappiamo in quali mani va il nostro dono, cioè come è interpretato dal donatario il nostro dono. Noi possiamo fare un dono al meglio del nostro cuore, e trovare uno che riceve il nostro dono convinto che sia esca per la sua cattura, cioè convinto che si tratti di un dono avvelenato. Eppure, nel nostro cuore c’era solo la voglia di donare senza attendere ricambio. C’era la grandezza della cifra della gratuità.

La verità è che l’accadere della gratuità è il luogo originario in cui si rivela il modo in cui due esseri umani stanno tra loro. E’ una specie di provocazione alla luce. Due esseri umani possono rapportarsi in modo tale che, pur avendo solo il tra(n)s-parire (e non l’apparire) della donazione, l’uno per l’altro ha fede nel fatto che il rapporto sia effettivamente di donazione; oppure possono sospettare l’uno dell’altro nel senso del falso dono. E questo per gli umani è il nodo più drammatico, perché essi sono interpellati nella loro libertà quanto all’interpretazione della relazione. In questo senso, la gratuità è un luogo apocalittico. Fiducia o sospetto? Ora, poiché tra gli esseri umani le relazioni fondamentali sono queste due, di dominio dell’uno sull’altro o di reciproco riconoscimento, è chiaro che la gratuità, in quanto tale, è la forma secondo cui le persone in relazione, consegnandosi in reciprocità, si rivelano come tali. La gratuità è, insomma, la qualità buona della relazione.

Questo è l’elogio più alto della gratuità che può essere pensato. Essa sola, del resto, mette veramente insieme gli esseri umani. Tutte le forme di scambio, infatti, necessarie per la vita quotidiana, stanno nella forma del contratto, e facilmente sono abitate dalla diffidenza. Finiscono pure per produrre conflitti senza fine. Solo la gratuità implica il venire innanzi dell’uno e dell’altro uomo nella forma dell’amicizia e della cura reciproca. Un linguaggio, questo, da chiunque inteso, perché ogni essere umano vuole propriamente, prima d’ogni altra cosa, essere riconosciuto nella sua umanità. Essere riconosciuto senza condizioni. Cioè, appunto, secondo gratuità.

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