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Sulla democrazia in Italia

di Bruno Moroncini

In un libro recente (Borrelli, Genovese, Moroncini, Pezzella, Romitelli, Zanardi, La democrazia in Italia, Cronopio 2011) alcuni filosofi orientati in senso politico-morale e dei quali fa parte anche lo scrivente hanno tentato di discutere il concetto della democrazia connettendolo però ad una analisi storico-filosofica della situazione italiana, in particolare degli effetti di lunga durata del quasi conchiuso ventennio berlusconiano, con l’obiettivo di prendere distanza sia dalle polemiche quasi giornaliere che proliferano nella carta stampata e nei cosidetti programmi televisivi di approfondimento politico (o di sprofondamento dell’intelligenza) sia  dalla sterilità del gioco dei rapporti di forza fra i partiti, i movimenti  e i vari gruppi di pressione, tutti  incapaci oramai di qualunque progetto a lungo termine riguardante la comunità storica denominata Italia. L’intento che comincia a prendere corpo anche fra gli storici,  seppure non sempre con esiti del tutto convincenti (si veda ad esempio il Berlusconi passato alla storia di Antonio Gibelli), era quello di trattare il berlusconismo non come un’anomalia transitoria comparsa inaspettatamente nel processo di costante consolidamento delle istituzioni liberal-democratiche, ma al contrario come l’indice storico di tendenze di lunga durata della storia italiana oltre che di processi transnazionali legati alla globalizzazione (il neo liberismo, ad esempio,  così come è stato analizzato da Foucault).

  Pur nelle differenze anche cospicue fra gli autori - differenze negli apparati  teorici, nelle procedure concettuali e infine nelle concrete scelte politiche di ciascuno - alcune  premesse tuttavia, quasi delle precondizioni per qualunque discorso sulla democrazia in Italia, sono state considerate irrinunciabili da tutti. Le riporto così come Maurizio Zanardi le ha elencate nella premessa all’intero libro: «1) L’inservibilità della categoria di “fascismo” o “neofascismo” per interpretare l’attualità italiana; 2) le enormi responsabilità politiche e culturali della “sinistra”, che impongono di rompere con il suo discorso; 3) l’impotenza della coscienza antifascista e patriottica; 4) il carattere conservatore del richiamo al primato della Costituzione e della legge; il tratto reazionario della fede nella magistratura; l’estrema debolezza politica della proposta di un nuovo Comitato di liberazione nazionale per “salvare” il nostro paese» (9). Se avesse  fatto in tempo ad aggiungere -  ma il libro era già in stampa -  la proposta delirante di Asor Rosa  sulla necessità, in mancanza di meglio, di  un  colpo di stato contro Berlusconi capitanato dal presidente della Repubblica ed eseguito  da carabinieri e polizia di stato (forse aveva confuso Napolitano con Cossiga), il quadro di ciò che non bisogna né fare né pensare sarebbe stato completo (anche se c’è sempre qualcuno - vedi Carlo Formenti sull’ultimo numero di Alfabeta - pronto a prender la cosa sul serio).

  Fedele al suo ruolo di coordinatore dell’intera operazione,  Zanardi ha tentato anche di trarre dai diversi contributi una conclusione che, come le premesse, potesse essere considerata condivisa e l’ha trovata  in ciò che ha definito il carattere eccedente e perciò eccessivo della democrazia.  Con un riferimento al libro VIII della Repubblica di Platone in cui  si  accusa la città democratica  di far mercato delle costituzioni perché, essendo priva di un principio in grado di guidarla, essa  non solo  le contiene  tutte, ma applicandole insieme e senza alcun criterio, finisce per delegittimarle e per togliere loro ogni autorità, Zanardi perviene alla conclusione  che quello che per il filosofo ateniese costituisce il limite della democrazia per gli autori del libro è al contrario la condizione per la ripresa dell’esigenza democratica: «né forma di governo né forma di costituzione, né forma di società, la democrazia va pensata come ciò che eccede tutte queste identificazioni» (11).

Pur nutrendo qualche dubbio sull’esclusione della democrazia dall’elenco delle forme del governo (è una tesi di Rancière che in  parte condivido e in parte no), tuttavia sul carattere eccedente della democrazia sono pronto a mettere la firma. Giungerei anzi a sostenere che la democrazia  sia quella forma di dominio - per usare un  lessico kantiano - in cui l’eccedenza perviene al governo della polis. Definendo la democrazia il governo dell’eccesso, gioco intenzionalmente sul doppio  senso del genitivo secondo il quale il governo dell’eccesso è immediatamente eccesso che governa, vale a dire che se la democrazia è da un lato un certo esercizio del potere su ciò che va oltre il limite  essa è dall’altro anche  l’illimitata e incondizionata delegittimazione di ogni forma di potere.  Mi si può obiettare che, così facendo, avvolgo il concetto della democrazia in aporie insolubili e in contraddizioni insanabili. Ma è proprio quello che ritengo sia necessario fare: il concetto della democrazia può essere espresso solo da ossimori, vale a dire solo se si accetta che sotto il medesimo riguardo e nel medesimo tempo si dia la compresenza senza mediazione di due predicati  opposti che fra di loro non siano semplicemente  dei contrari bensì dei contraddittori. Una ricognizione anche elementare degli usi del termine democrazia dimostrerà la verità di questo assunto.

Il mio contributo si divide in due parti: nella prima provo a definire la democrazia, a produrne il concetto; nella seconda ad applicarlo all’attualità italiana. Riassumo brevemente: 1) in base alla prospettiva platonica richiamata prima la democrazia non è unacostituzione proprio perché le è tutte, oppure è la costituzione (la Politeia in senso classico, ossia una forma del governo) che decostruisce tutte le costituzioni.  La conseguenza è che il concetto della democrazia è sempre duplice, spaccato e contraddittorio, che  la democrazia  è sempre questo e altro, il più delle volte il suo radicalmente altro. È impossibile  quindi usare il termine democrazia senza aggettivarlo proprio perché la democrazia è  la sua stessa degenerazione: prima dell’ ’89 si avevano le democrazie liberali e  le democrazie progressiste o socialiste; dopo l’’89, una volta finita l’illusione (ché tale era) di poter usare la parola democrazia senza aggettivi dal momento che era sottinteso che l’unica forma di democrazia fosse quella liberale, la dicotomizzazione è ricominciata: democrazia rappresentativa e democrazia plebiscitaria, democrazia parlamentare e democrazia diretta, democrazia liberale e democrazia dispotica. La democrazia è l’uno e l’altra indecidibilmente. Aggiungerò alla lista tanto per completare il quadro (ma meriterebbe un discorso a parte) l’ossimoro leninista ‘dittatura democratica’.

2) Il demos non è il popolo, ne è una parte; di conseguenza la democrazia in quanto potere del demos è il potere di una parte della città contro altre parti indicate convenzionalmente dai quantificatori ‘uno’ e ‘pochi’. Essendo parte il demos non è ‘tutti’, è soltanto ‘molti’, una pletora non unificabile senza nomos né isonomia. La democrazia è il governo dei non-tutti: in quanto tale implica una città divisa, non unificabile, aperta. Sempre ad un passo dal cadere nella tirannide, ma anche sempre un passo oltre. Si sfugge infatti alle conseguenze della ‘partigianeria’ - dispotismo, dittatura, etc. - applicando le procedure standard della democrazia  che sono l’eleggibilità di tutte le cariche pubbliche e la loro rotazione ottenuta  o attraverso il voto a suffragio universale o attraverso il sorteggio. 3) La democrazia è il governo non di tutti, ma di chiunque,  di chiunque altro,  ossia di un altro qualunque, di uno di cui è impossibile sapere preventivamente se viene come amico o  nemico, di uno che si presenta quasi sempre  come un  ‘impresentabile’ (nel senso di uno che è così cafone e maleducato che non lo si può presentare nei salotti buoni) all’orizzonte della polis. Se, come vuole Derrida, la democrazia è av-venire, ciò vuol dire che il governo democratico non riuscirà mai a chiudere la città nel cerchio dell’immanenza proprio perché la sua sola possibilità di sopravvivenza - e della città di cui è il governo - riposa integralmente sull’apertura al chiunque viene,  sia esso un amico o un nemico - quasi sempre le due cose insieme. 

  Cosa deriva per la comprensione della storia recente dell’Italia da questo concetto della democrazia? 1) Che Berlusconi è un chiunque: un classico homo novus che in base alle leggi date della città non avrebbe nemmeno potuto essere eletto, un illegittimo sia per le élitesindustriali che per quelle politiche, un usurpatore privo di diritti. Il suo è quindi un governo democratico - dispotico, plebiscitario, populista quanto si voglia, ma egualmente democratico. 2) Berlusconi però è anche un chiunque che  si prende per un ‘chi’, vale a dire uno che può dimenticare di essere stato eletto da una pletora di chiunque e  può credere invece di essere stato chiamato lì, al  governo, dalla divinità in persona. Che cosa può spingere Berlusconi o chiunque altro, al di là del suo carattere e dei tratti soggettivi, a poter scambiare una elezione democratica in una chiamata sovrannaturale? L’assenza di alternativa, l’impossibilità della rotazione delle cariche. 3) Si giunge così a quella  che per me è la vera emergenza democratica dell’Italia di oggi che non è rappresentata da Berlusconi, ma dallo stato comatoso se non   già del tutto cadaverico dell’opposizione che dovrebbe credibilmente candidarsi al governo del paese, dalla crisi cioè della sinistra italiana e in particolare del partito democratico - nomen omen. 

Riporto la mia invettiva, quasi dantesca, nei confronti del partito democratico così come si trova nel libro: «Mostratisi incapaci di decostruire in tempo utile la loro storia e di conseguenza di anticipare la catastrofe dell’Unione sovietica, i discendenti del partito comunista italiano, invece di ripensare alla luce dell’attualità il rapporto mancato fra il comunismo e la democrazia – che implicava a sua volta la decostruzione del marxismo –, hanno liquidato in tutta fretta e l’uno e l’altra. Sono diventati liberali fuori tempo massimo, hanno scoperto i diritti universali della persona nell’epoca della fine dell’universalismo e dell’avvento dell’impersonale, hanno sostituito la lotta di classe con l’etica della solidarietà mentre il mondo era dominato dalle questioni della biopolitica. In ritardo su tutto, si sono affidati alla scorciatoia offerta dalla magistratura – un’iniziativa, quella di tangentopoli, che più di destra non poteva essere – e continuano a sperare che qualcun’altro gli risolva il problema – Berlusconi – che essi non sono in grado di affrontare. Essi rappresentano oggi una piccola borghesia culturalizzata – i cosiddetti ceti medi riflessivi – che recalcitrano di fronte alla nuova proletarizzazione, quella specifica della cultura di massa e della globalizzazione che corrode i privilegi e le rendite di posizione ottenute negli anni della espansione capitalista del secondo dopoguerra» (176-177). Aggiungerò solo una considerazione che, più passa il tempo, più mi sembra decisiva per comprendere la situazione italiana:  fra gli effetti nefasti dell’ ’89 c’è stato anche quello di  ricondurre la sinistra italiana ad una situazione pre-fascista, vale a dire (e per quel che in storia possono valere le somiglianze e le ripetizioni) alla sua divisione fra un riformismo impotente e subalterno e un massimalismo parolaio e avventurista. Se il PCI non è mai stato una alternativa di governo possibile ciò era dovuto alle sua posizione in campo internazionale, non al fatto di rappresentare l’ala massimalista della sinistra italiana di cui  il PSI avrebbe rappresentato quella riformista: in quel caso l’opposizione teorica e politica era fra il comunismo e la socialdemocrazia, non fa il riformismo e il massimalismo. Insomma, l’incapacità del partito comunista italiano di fare i conti prima della caduta dell’Unione Sovietica con la sua storia ed insieme col mondo contemporaneo e anche - perché no? - con noi del ’68 che di quella storia e di quel mondo rappresentavamo l’ala critica e decostruttiva, ha comportato non solo la consegna della società italiana a Berlusconi, ma anche la resa all’estremismo che, come è noto, è la malattia infantile, con molte recidive, del comunismo.  

Cambia il quadro appena delineato alla luce del risultato delle recenti elezioni amministrative e dei referendum? Non credo, mi sembra anzi che si aggravi. A vincere infatti le une e gli altri non è stato il partito democratico, ma appunto l’ala massimalista della sinistra italiana. Nelle due città che contavano qualcosa ai fini dell’assegnazione della vittoria all’uno o all’altro dei due  cosiddetti poli hanno vinto  a Milano un candidato del narrativismo vendoliano il cui leader non sembra tuttavia aver tratto  alcun vantaggio politico al livello nazionale dall’insperato risultato e a Napoli un esponente dell’Italia dei valori  di Di Pietro che più furbo dell’altro e sfruttando anche la vittoria ai referendum ha deciso di indossare la maschera della mitezza pronto tuttavia a rispolverare quella feroce che più gli si addice e che lo colloca da sempre all’estrema destra dello schieramento politico italiano. D’altronde nella storia  d’Italia le trasmigrazioni da sinistra a destra e viceversa non  rappresentano una novità.

Con questi leader  e con il partito democratico in caduta libera ogni possibilità di alternativa si allontana: se Berlusconi è veramente alla fine della sua parabola politica quelli che lo sostituiranno non verranno da sinistra. Rimpiangeremo il tempo del bunga-bunga in cui ogni tanto il leader si distraeva dai compiti di stato e si concentrava sulle ‘girls’. Quelli che verranno saranno irreprensibili, le loro ‘girls’ saremo noi,  ci  staranno addosso ventriquattr’ore su ventiquattro. È un  ipotesi che fa venire i brividi.

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