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Lettera di un’anima bella a

Giuliano Ferrara 

di Giovanni Invitto

Gentile Direttore,

La sua invettiva contro le “belle anime azioniste (e la loro miseria)” dovrebbe essere studiata da chi cerca il concetto mancante a catturare il senso o la ragione della spaccatura che divide l'Italia. Che l'ha forse sempre divisa, ma in questi  anni e in questi mesi si sta sempre più drammaticamente approfondendo. 

La prima, ingenua domanda che affiora è: ma che tipo di odio è questo?  Così esplosivo quale un livore raramente è, che per solito sbava o striscia; così gratuito come non è un risentimento generato da una comune invidia, inferiorità, infelicità, frustrazione; così visionario da allucinare addirittura "perfidia" negli occhi miti di Gustavo Zagrebelsky, così accecato da prendere per un senato di "ottimati" e una plutocrazia di "ricchi veri" i dodicimila del Palasharp, nella stragrande maggioranza professori di scuola secondaria, redattori di casa editrice, correttori di bozze, impiegati, blogger, volontari, qualche studente e molti pensionati (questo stupisce particolarmente: almeno l'occhio del giornalista non dovrebbe correggere la fantasia dell'immoralista devoto?). Infine, così lirico da sciogliere un canto emersoniano, sì, su cosa?  Sulla trama di lenocinii e ricatti in cui si gonfia e sgonfia l'ossessione senile più tristemente porcina e becca, sera dopo sera. Questa, con figura di amplificazione più ampia ancora dell'ampio suo grembo, lei, l’Elefante la chiama "una grande ricchezza di vita, sebbene intrisa di grossolanità e di peccato". Una grande ricchezza di vita, i taccuini in cui Emilio Fede annotava le gnocche da reclutare ai concorsi di veline adolescenti, le telefonate e i negoziati con cui Lele Mora le preparava, il posto a spesa pubblica assicurato alla Maitresse dentale, pronta a prestazioni fuoribusta per salvare tutta questa ricchezza di vita dalle confessioni di una puttanella ladra e minorenne?

Eccolo, il quesito che fa della sua invettiva un oggetto prezioso di ricerca. Che natura ha la spaccatura che divide oggi l'Italia in due? Io avevo cercato di interpretare questa adorante libertà dei servi, questa appassionata adesione al capo, con la tesi di una modificazione con la quale i servi diventano padroni senza smettere di fare i servi. Una modificazione della sudditanza pura - che usava le arti servili per difendersi dal potere – in una sudditanza che le esercita al contrario per partecipare al beneficio del potere, al privilegio al di sopra della legge - sia pure nella forma divulgativa delle deroghe, dei condoni, delle depenalizzazioni, degli scudi e degli accordi con tutte le mafie, tutte le cricche e perfino tutte le chiese, purché apportino sostegni. Ma ora vedo che questa era una spiegazione insufficiente: troppo materialistica. Qui c'è qualcosa di più - di più gratuito, appunto, e perciò enigmatico. Capirlo sarebbe fare un grande passo avanti nella comprensione del nostro presente e futuro. 

Si può allargare al massimo l'orizzonte: questa spaccatura c'è sempre stata. Non soltanto in Italia: ma dovunque ci sia una piazza umana. E' un conflitto a morte, antico. Da una parte c'è  la ricerca pensosa, sgomenta di fronte al potere umano di autodistruzione, attenta alle ragioni che abbiamo per limitarlo e capace di suscitare emulazione e altra ricerca, di ciò che è relativamente migliore invece che peggiore, e di un po' di verità e di giustizia, piuttosto che di menzogna e immondizia. Queste erano le "banalità" di Saviano, nell'invettiva di Ferrara.  E dall'altra, c'è il Sofista. Sì, non vorrei nobilitarlo troppo, ma ricordo a chi non lo sa o a chi l'ha dimenticato che il Sofista ha una versione più alta e una più meschina, esattamente come il male può essere luciferino o banale: ma quanto più si avvicina alla pochezza meschina, il Sofista si avvicina alla sua essenza. Perché la sua essenza è il nulla, il nulla che si dà per qualcosa, ma per ingannare almeno se stesso ricorre, come ben sapeva Gorgia, all'iperbole.

E poi si può di nuovo restringere, l’orizzonte dello scontro, riportarlo all’orizzonte nostro. Ma allora, ampio anch’esso, di secoli. Debbo questo suggerimento a un amico, filosofo attento e giornalista impeccabile, il nostro Stefano Cardini. Il suggerimento risale al Prezzolini di Cristo o Machiavelli, e abbraccia una gran parte della nostra storia. E’ quello della soffocante alternativa, che purtroppo quasi tutti, anche le anime più limpide, nel nostro Paese, subiscono o addirittura sostengono. O vuoi  il rapporto con la realtà, e dunque la politica, e dunque tutte le arti della menzogna, della sopraffazione, dell’inganno – fino al sacrificio dell’anima propria (versione nobile) o al suicidio di uno straccio di coscienza (versione banale): e il fine, poco importa. Per alcuni, il principe è nobile come tale, portando in terra la Sovranità. Ad altri, non importa nulla che sia ignobile. I machiavellici nostri si concentrano sempre sui mezzi, che son quelli suddetti. Oppure, vuoi l’etica: e allora la mancanza di ogni rapporto con la realtà, e la via del monastero e del cielo.

Questa è l’alternativa fallace e soffocante contro la quale da molti anni alcuni di noi combattono – e al Palasharp sabato scorso ce n’erano dodici o quindicimila. Ma non è questo il punto su cui vorrei concludere. E’ il più diabolico paradosso, invece, nel quale si avvita la nostra storia. Che cioè sia stata accreditata come potenza etica, anzi come potenza cui affidare e delegare la morale, lasciando che ci pensino i preti, a cose complicate come la coscienza, in cambio di quattro avemaria, proprio quella potenza che ha, insieme, più praticato e più deprezzato la politica, come cosa necessariamente infine sporca, perché cosa del mondo e del suo principe – insieme satana e imperatore da assoggettare o da servire. Questo è il paradosso atroce – radicato addirittura nel pensiero di Agostino, il teorico della città del diavolo, con cui quella di Dio si confonde in terra.

Ma questo benché atroce e fonte di sangue e orrore lungo i millenni, è un paradosso tragico. Non gli si addicono i toni in fondo frivoli – è la sola parola possibile, se sono “perfidi” gli occhi di Zagrebelsky e se è “miserabile” citare la lettura serale di Kant. Non gli si addice la speciale tonalità  delle pistolettate, né petrine né cristiane, né machiavelliche né esperte di sofismi, con cui mezza Italia spara contro quello che chiama “moralismo” – vale a dire l’altra mezza Italia che aspirerebbe alla decenza elementare di un governo della legge, sotto la quale, e non al di sopra della quale, a casa propria ciascuno cerchi cielo o inferno come la sua libertà lo richiede. Non si addicono al mio paradosso tragico neppure le pistolettate con cui l’elefantino spara di nuovo sull’”inflessione piccolo-dialettale di Zagrebelsky” per preferirgli “la banda Cavallero”.

E dunque la mia lunga meditazione dell’invettiva non ha sortito alcun frutto. Ecco, non mi resta che chiederlo a lei, Giuliano Ferrara, all’autore dell’invettiva contro noi anime belle e la nostra “miseria”: di cosa è fatto questo odio contro la legge civile, la legge morale e… il  cielo stellato? Che cosa divide l’Italia, infine? 

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