Lo Scontro
nella Lega
di Umberto Curi
Come spesso accade in politica, anche in questo caso bisognerebbe evitare di farsi ingannare dalle apparenze. L’aspro conflitto che è in corso all’interno della Lega Nord non è affatto la conseguenza dello scontro personale fra Bossi e Maroni (che pure indubbiamente sussiste), né discende, come troppo spesso si ripete in maniera perfino stucchevole, dalle due “anime” del Carroccio, quella di “lotta” e quella di “governo”. In particolare, l’impiego di questa seconda chiave di interpretazione, che assimila i Lumbard al vecchio Partito comunista, ricalca pigramente slogan ormai obsoleti, senza riuscire a spiegare ciò che si sta verificando. In realtà, gli avvenimenti concomitanti al voto parlamentare sull’autorizzazione all’arresto di Cosentino hanno definitivamente fatto emergere una ambivalenza di fondo, destinata verosimilmente ad esplodere nel prossimo futuro. Fin dalla sua origine, la Lega si è caratterizzata per la compresenza di due ispirazioni, comunque irriducibili al semplice binomio lotta-governo. Da un lato, infatti, come risulta anche dalla fase storica della sua genesi, coincidente con la stagione di “Mani pulite”, il Carroccio ha colto e cavalcato l’onda montante dell’antipolitica, di un’ostilità diffusa non a questo o a quel partito, ma al sistema dei partiti in quanto tale, ritenuto nel suo complesso irrimediabilmente corrotto e insanabilmente ammalato. Il simbolo di questa componente dichiaratamente avversa a ogni espressione politico-partitica può essere considerato il cappio che un parlamentare leghista aveva fatto sventolare nell’aula di Montecitorio durante la fase di Tangentopoli. Dall’altro lato, soprattutto nei centri urbani piccoli e medi del Nord, l’identità della Lega si è definita in un senso per certi aspetti opposto, vale a dire come partito organizzato capace di esprimere un ceto politico pronto e attrezzato per la gestione del governo in realtà rilevanti della cosiddetta Padania. Anche qui un esempio su tutti, vale a dire il caso di Verona, dove l’amministrazione guidata da Tosi agisce – nel bene e nel male – con criteri di grande realismo, e comunque certamente remoti da ogni esasperazione antisistema. Per dirla in sintesi: nella formazione creata da Bossi hanno convissuto a lungo, anche se in forme spesso conflittuali, l’antipolitica e la politica, l’appello alle viscere della plebe e il richiamo alla ragione del popolo, l’invettiva contro Roma ladrona e i “terun” e la disposizione a trovare una mediazione con i problemi e le esigenze del Sud, l’ideale della secessione e il più realistico approdo del federalismo. Era inevitabile che queste due tendenze, fra loro talmente diverse da risultare alla fine internamente contraddittorie, finissero per venire a galla, provocando le lacerazioni alle quali stiamo assistendo. Affinchè lo scontro – per tanti anni sopito dall’indubbio carisma del Capo – venisse allo scoperto, era necessario che almeno uno fra i “colonnelli” leghisti avesse il coraggio di intestarsi la paternità politica di una linea alternativa, rispetto a quella perseguita da Bossi. Lontano anni luce dal Senatur da una molteplicità di punti di vista (si pensi solo alle diversità, non solo di “stile”, con le quali i due esponenti leghisti hanno interpretato il ruolo di ministri, l’uno agli Interni, l’altro alle Riforme), Roberto Maroni ha rotto ora gli indugi, mostrando di essere pronto ad affrontare una resa dei conti non più rinviabile. E’ difficile prevedere quale potrà essere l’esito di questa convulsa fase di transizione. Resta tuttavia la convinzione che da un chiarimento di fondo non potrà che trarre giovamento l’intero sistema politico italiano.