Il potere giudiziario in uno stato liberale
di Mauro Visentin
Il governo ha varato un disegno di legge costituzionale per la riforma del sistema giudiziario italiano. E’ fin troppo facile prevedere che si andrà ad uno scontro dall’esito incerto, sia per quanto riguarda l’iter parlamentare (più per i tempi che per la tenuta della maggioranza) sia perché la sua eventuale approvazione richiederebbe, verosimilmente, un passaggio referendario (senza il vincolo del quorum). Non è compito né interesse di chi scrive evadere dal campo (ahimè, quanto ristretto!) delle sue specifiche competenze ed entrare nei tecnicismi di un articolato di norme e disposizioni che integrano e modificano in profondità il dispositivo costituzionale relativo all’amministrazione della giustizia, alla definizione del ruolo dei magistrati e alle competenze nonché alle responsabilità degli stessi in materia di istruzione dei procedimenti penali e di irrogazione delle sanzioni riguardanti i reati. Del resto, una sorta di stanchezza, che credo comune a molti, mi impedisce di tornare per l’ennesima volta a ripetere cose che sono ormai da anni entrate nel circuito del dibattito politico senza che questo sia, in tutto il tempo trascorso, minimamente progredito. E piuttosto di esaminare i diversi punti di questo progetto di riforma, dicendone tutto il male che ritengo si debba dirne (che se ne è detto e se ne dirà) e aggiungendo argomentazioni note e scontate cui si oppongono (si sono opposte e continueranno ad opporsi) obiezioni altrettanto scontate, vorrei tentare di definire (almeno dal punto di vista delle esigenze che devono o dovrebbero essere soddisfatte da un sistema giudiziario di impronta liberale) il profilo teorico di un ordinamento giuridico liberal-democratico.
I capisaldi del ruolo che l’amministrazione della giustizia deve assolvere in un sistema politico di questa natura direi che sono i seguenti: deve contribuire al bilanciamento dei poteri; deve garantire l’imparzialità del giudizio; deve assicurare la certezza della pena. Nessuno di questi tre punti irrinunciabili può essere realizzato senza che la sua attuazione dia luogo a problemi e induca a sollevare questioni. Vediamo partitamente.
Nel bilanciamento dei poteri, il ruolo del potere giudiziario è essenziale. Qualcuno ha di recente tentato di negarlo, sottolineando come in Locke e in Montesquieu il potere giudiziario o non è menzionato (perché per Locke, ad esempio, il terzo potere pubblico è quello federativo, non quello di giudicare le violazioni delle leggi e di comminare sanzioni al riguardo) o se lo è, lo è con una serie di cautele. L’intento, evidentemente partigiano, di una simile affermazione rende impossibile (e soprattutto inutile) entrare nel merito della questione impostata così, ricordando ciò che è ovvio, ossia che il sistema dei poteri come lo conosciamo noi è tipico degli Stati costituzionali e che le monarchie europee, più o meno assolute, dal contrasto alle quali è nato il liberalismo moderno, ponevano il problema della libertà politica, in primo luogo, in termini di tutela dal potere sovrano (che era il potere del monarca) piuttosto che di tutela del potere sovrano (in questo caso quello del popolo), ossia di salvaguardia delle sue prerogative attraverso un meccanismo di controlli incrociati che renda impossibile l’usurpazione di qualcuno ai danni di tutti. Ma sul fatto che il potere giudiziario è un potere (e un potere fondamentale) non possono correre dubbi (per Locke è addirittura la fonte o l’origine del potere politico, come potere naturale connesso al ruolo paterno), e il potere di giudicare è, infatti, uno degli attributi caratteristici della sovranità, che in alcuni casi si è a tal punto fuso con essa da identificarsi con il potere politico senz’altro (basti pensare ai Giudici della storia ebraica, oppure, sempre su questo piano, ai Giudicati della Sardegna medioevale). Quanto al fatto, che viene abitualmente invocato per sostenere che la nostra Carta Fondamentale non contempla la possibilità di considerare la funzione del giudice come espressiva di un vero e proprio potere costituzionale, ossia che in essa (art. 87) la magistratura viene definita un “ordine”, basta, a smentire una simile, semplicistica e illogica lettura il fatto che, nel suddetto comma dell’art. 87 il testo della costituzione asserisce espressamente che tale ordine è “autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Il riferimento ad “ogni altro potere”, come, appunto, recita testualmente il dettato del comma al quale in questi casi si è soliti appellarsi, sta ad indicare, inequivocabilmente, che la Costituzione italiana intende la funzione giurisdizionale come emanazione di un potere (quello giudiziario) di cui è titolare un ordine, costituito dall’insieme dei magistrati, che lo esercita attraverso i suoi singoli membri, al riparo da qualsiasi interferenza che un qualunque altro potere (come quello esecutivo o quello legislativo) volesse cercare (o fosse in grado) di realizzare ai suoi danni (e a proprio vantaggio). D’altra parte, il nostro ordinamento costituzionale non ha previsto che questo potere e il suo esercizio venissero assicurati da una fonte di legittimazione sovrana, cioè dal suffragio popolare, come accade, per esempio, negli Stati Uniti. Allo stesso modo, del resto di quanto avviene per il potere esecutivo, che, da noi, dipende dalla maggioranza parlamentare e non direttamente da quella degli elettori. Tuttavia, se quest’ultima scelta può rappresentare, dal punto di vista di un perfetto equilibrio tra poteri, un limite del nostro sistema per quanto riguarda il rapporto fra legislativo ed esecutivo, con riferimento al potere giudiziario essa appare invece opportuna proprio sotto il profilo di una più coerente applicazione del principio liberale, perché dettata dall’esigenza di sciogliere l’esercizio della funzione giudiziaria da ogni possibile vincolo di carattere politico, precisamente ai fini di una miglior tutela della sua indipendenza.
L’autonomia del potere giudiziario dal potere politico è garanzia del principio cardine di ogni possibile forma di sistema istituzionale ispirato al liberalismo: l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. E del fatto che essendo la sovranità della legge (della legge, si badi, non del corpo elettorale, che, infatti, esercita la propria sovranità, “nei limiti della legge”) assoluta (nel senso che le regole che istituiscono, garantiscono e definiscono l’orizzonte della legge sovrana, rientrano in tale orizzonte), nessun potere lo è, perché ogni potere (compreso quello giudiziario) è ad essa sottoposto. Ora, l’esercizio di questo terzo potere consiste nell’interpretazione e applicazione della norma giuridica. E qui sorge un primo problema. Un problema che potremmo definire (come gli altri con i quali dovremo tra poco confrontarci) di ordine concettuale. L’interpretazione della legge, infatti, può dare luogo, da parte del potere giudiziario, all’assunzione di un ruolo legislativo vicario, che può giungere a rivestire un peso e un’incidenza di rilievo ancora maggiore là dove (come nella giurisprudenza anglosassone, ad esempio) le sentenze dei giudici assumano il rango di precedenti vincolanti. Un modo per ovviare a questo squilibrio, che sembra alterare il bilanciamento fra i poteri a favore della magistratura, è quello, adottato da noi, di dilatare enormemente il campo della legiferazione, moltiplicando a dismisura il numero delle norme e cercando di individuare anticipatamente tutte le possibili fattispecie alle quali un provvedimento può applicarsi. E’, però, una soluzione, spesso peggiore del male, visto che rende lento, inefficiente e soprattutto elefantiaco il processo legislativo, lasciando il più delle volte senza risposta tempestiva esigenze che attendono da tempo di essere regolate normativamente. Rispetto a questi esiti, la supplenza legislativa o paralegislativa del potere giudiziario appare un male minore, tanto più che non vincola in alcun modo l’autonomia del parlamento, il quale può, ogni qual volta lo voglia, legiferare su una materia, senza tener conto delle sentenza che, in assenza di una normativa specifica, si sono, per analogia, ispirandosi a norme concernenti materie affini, accumulate al riguardo.
Più complesso e di più difficile definizione ai fini del miglior esito possibile per un corretto bilanciamento fra funzione legislativa e funzione giurisdizionale, il problema dei procedimenti a carico di parlamentari sui quali ricada il motivato sospetto che si siano macchiati di qualche reato. La cosiddetta immunità parlamentare è nata, originariamente, per tutelare i singoli membri del parlamento le cui iniziative risultassero sgradite al monarca (dunque agli albori delle moderne assemblee legislative e in presenza di monarchie non ancora compiutamente costituzionali). E’ giustificata oggi, negli attuali sistemi politici di stampo liberal-democratico? Una risposta cauta, dal punto di vista teorico (in senso filosofico-concettuale e non giuridico), potrebbe essere quella che ciascun magistrato essendo, come uomo e cittadino, inevitabilmente soggetto, suo malgrado, all’influenza di pregiudizi politico-ideologici, un filtro fra l’iniziativa inquirente del pubblico ministero e la libera espressione dell’attività politico-legislativa di ogni singolo esponente del Parlamento può, ancora oggi, essere opportuno e perciò richiesto dalla logica della divisione liberale dei poteri. Ma il problema più grosso è quello del modo in cui si debba garantire l’autonomia e la terzietà di questo filtro. Sembra evidente che una maggioranza parlamentare così come il governo che essa esprime non siano in grado di fornire garanzie adeguate di imparzialità nell’esercizio di una simile funzione di salvaguardia. Ma neppure la corrispondente minoranza lo sarebbe. Pertanto, onde evitare il monstrum giuridico di un potere che sia in causa sui iudex, sarebbe assolutamente sconsigliabile che, come avviene il Italia (per la parte di sua residua competenza dopo l’abolizione dell’autorizzazione a procedere, che potrebbe, su nuove basi e rispettando il criterio che stiamo per definire, essere utilmente reintrodotta, almeno in linea di principio) e nella maggiore parte dei parlamenti moderni, la funzione di filtro fosse affidata ad una commissione parlamentare. D’altra parte, le competenze giuridiche che l’esercizio efficace e non pregiudicato di tale funzione richiede indurrebbero a supporre che i più titolati ad esercitare un simile controllo fossero i magistrati stessi. Ma anche in questo caso l’esito sarebbe quello di una violazione del principio di imparzialità e di equilibrio tra i poteri. Come uscirne? Un soccorso potrebbe venire proprio da uno dei capitoli più contestati del presente disegno di legge costituzionale (che riguarda un tema da sempre oggetto – e soprattutto negli ultimi anni – di furiose polemiche politiche): quello relativo alla separazione delle carriere di giudici togati (magistratura giudicante) e pubblici ministeri (magistratura inquirente). La questione ha altresì un impatto molto significativo riguardo alla seconda esigenza del nostro iniziale elenco che concerneva le tre istanze di fondo cui deve ispirarsi il sistema giuridico di una democrazia liberale, ovvero l’imparzialità del giudizio. La ragione per la quale la divisione o separazione delle carriere (come pure, anche se in misura minore, quella delle funzioni, che della prima è una specie di espressione attenuata) ha sempre suscitato polemiche furenti è legata all’idea che attraverso questo meccanismo si sarebbe, alla fine, giunti al risultato di sottoporre l’ufficio del pubblico ministero all’autorità politica, e in particolare, attraverso il ministero di grazia e giustizia, all’esecutivo. Un esito del genere (che traspare abbastanza evidentemente come uno degli intenti, neppure troppo dissimulati, della proposta di legge dalla cui presentazione, da parte del governo, queste considerazioni hanno preso le mosse) costituirebbe un pregiudizio esiziale per il principio della separazione dei poteri ai fini di un loro controllo reciproco e incrociato, ossia per il principio basilare dell’ordinamento politico-giuridico che ha di mira la definizione di un potere non assoluto al cui profilo si ispira e deve ispirarsi ogni forma possibile di liberaldemocrazia. Ma è un esito necessario? Ossia, è un esito che discende necessariamente da un simile meccanismo (quello, cioè, che prevede la separazione delle carriere di magistrati giudicanti e magistrati inquirenti)? E’ un esito possibile e assai rischioso, ma non c’è dubbio che esistano, in linea di principio, i modi e le forme per poter evitare il realizzarsi di questa eventualità, disinnescandone così la minaccia. Indubbiamente, l’ipotesi (formulata nella proposta di legge del governo) di due CSM può aprire la strada ad una soluzione del problema. A condizione, però, che i compiti di questi due organismi siano arricchiti e non impoveriti, fino a farne, a tutti gli effetti, due organi di autogoverno di un potere indipendente ed autonomo. La composizione potrebbe essere definita in questo modo per ciascuno dei due organismi: un terzo di giudici togati, un terzo di magistrati inquirenti, un terzo di “laici”. Il Presidente della Repubblica potrebbe presiedere entrambi e il vicepresidente dell’uno e dell’altro essere un giudice togato. I provvedimenti disciplinari a carico dei pubblici ministeri potrebbero essere valutati dal CSM dei togati e, viceversa, quelli a carico dei giudici giudicanti dal CSM degli inquirenti. In un simile quadro l’autonomia del parlamento e dei suoi membri sarebbe pienamente garantita se la commissione per le autorizzazioni a procedere in caso di procedimenti a carico di parlamentari fosse costituita da una commissione mista, composta per metà di giudici giudicanti (per esempio, giudici di cassazione), indicati dal loro CSM, e per l’altra metà di membri “laici” designati dal parlamento secondo una logica di rappresentanza dei diversi gruppi proporzionale alle loro dimensioni.
Una separazione così congegnata fra magistrati di un tipo e magistrati dell’altro potrebbe anche assicurare un maggior rispetto del principio di terzietà del giudice togato nei confronti di accusa e difesa e, quindi dell’esigenza di imparzialità del giudizio. Naturalmente, una vera terzietà, e per diversi motivi, è chiaramente impossibile. In primo luogo, perché il magistrato inquirente, nei procedimenti penali, difende, davanti al giudice terzo, il principio del rispetto della legge e quindi l’interesse dello Stato, ossia l’interesse pubblico (ovvero, se si preferisce, quello collettivo o generale). Una funzione analoga (sebbene nei due casi l’obiettivo sia perseguito con strumenti diversi e rivestendo ruoli diversi) a quella che assolve, in linea di principio, il magistrato giudicante. Mentre l’avvocato difensore tutela, direttamente, un interesse privato e soggettivo, e solo indirettamente un interesse generale (quello del diritto di tutti ad un giudizio equo e ad una difesa efficace oltre a quello, fondamentale, che un innocente non venga condannato per errore o a torto). A questo si aggiunga che una perfetta parità fra accusa e difesa deve, per essere tale, consentire alla difesa di svolgere indagini per proprio conto. Una difesa di questo tipo comporterebbe, però, costi molto più elevati per coloro che dovessero avvalersene e introdurrebbe una discriminante iniqua fra coloro che, essendo in grado di sostenerli, potrebbero ottenere una difesa migliore e più efficace (e dunque una maggior tutela) e coloro che, non essendo nelle condizioni di far fronte ai costi di una simile difesa, dovrebbero ripiegare su alternative meno onerose (accentuando, così, e aggravando la discriminazione che già esiste tra coloro che possono permettersi il costo di un avvocato privato e coloro che, invece, devono ricorrere all’assistenza di un difensore d’ufficio). Per questo motivo, il nostro ordinamento prevede che il pubblico ministero vada alla ricerca della verità (ovviamente di quella verità, molto limitata e relativa, che è la verità dei fatti, così come il magistrato giudicante andrà alla ricerca della verità processuale), non delle prove di colpevolezza. In altre parole, il giudice inquirente non sposa un partito, quello dell’accusa, da subito: giunge, attraverso il vaglio della documentazione probatoria cui le indagini hanno permesso di mettere capo, ad una specifica imputazione nei confronti del reo presunto e solo a partire da quel momento diviene avvocato dell’accusa. Tuttavia, è innegabile che lo stretto rapporto con la polizia giudiziaria abbia finito con il trasformare, progressivamente, il giudice che conduce le indagini in una specie di poliziotto. Ora, è inevitabile che le polizia, nello svolgere gli accertamenti necessari all’individuazione dell’autore di un reato, si affidi a mezzi e strumenti di indagine che contemplano anche varianti eterodosse, non sempre ineccepibili dal punto di vista formale e tali da orientare le indagini abbastanza precocemente, finendo con il consolidare, talvolta (e di norma piuttosto spesso), atteggiamenti pregiudicati sulla cui base l’inquirente assume in modo graduale la veste di controparte dell’indagato o indiziato, abbandonando quella di funzionario pubblico rivolto solo alla ricerca imparziale tanto delle prove o degli indizi a carico quanto degli elementi a discarico. Fattori di questo genere sono il “fiuto”, l’intuito, l’interrogatorio di testimoni reticenti condotto con metodi volti a farli cadere in contraddizione ecc. (riguardo a quest’ultimo punto, sarebbe da rovesciare la vigente normativa, consentendo interrogatori di polizia – che non potrebbero, però, assumere valore giuridico di testimonianza, e che sarebbero, dunque un puro strumento di indagine – anche senza il legale dell’interrogato, mentre quelli condotti dal giudice inquirente – unici a poter rivestire il carattere di prova testimoniale – dovrebbero prevedere sempre e comunque la presenza di un difensore di fiducia). E’ bene dire innanzitutto che la polizia deve poter condurre le indagini con tutta la libertà consentita ad un’applicazione largamente discrezionale delle direttive impartite dall’autorità giudiziaria. Ma se a fare uso di questa discrezionalità è l’autorità stessa che dovrebbe vigilare sul rispetto delle procedure e dei diritti della difesa, occorre allora riconoscere che il rapporto che si è venuto stringendo nella conduzione delle indagini fra magistratura inquirente e polizia richiede che esso venga ripensato ispirandosi, magari, al modello che contraddistingue i sistemi giuridici cosiddetti di common low, come quello inglese. In altre parole, sarebbe preferibile che il pubblico ministero, assommando in sé le caratteristiche del vecchio giudice istruttore e dell’attuale giudice per le indagini preliminari, rinunciasse alla conduzione diretta dell’inchiesta, delegandola alla polizia giudiziaria, di cui dovrebbe mantenere però il controllo, sia per quanto riguarda l’esercizio dell’azione penale sulla base della notitia criminis, cosa che consentirebbe ad essa di iniziare ad investigare su un reato solo o per impulso o, comunque, con l’autorizzazione del giudice inquirente, sia per quanto riguarda tutte le varie fasi successive, sulle quali dovrebbe conservare il diritto di intervento e sindacato in base alle informazioni che gli dovrebbero essere regolarmente trasmesse dall’autorità di polizia. Sarebbe, in altri termini, fondamentale, ai fini di un corretto rapporto fra poteri e istituzioni e in vista della miglior tutela del principio basilare dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, che l’allentamento del rapporto fra magistratura inquirente e polizia giudiziaria non comportasse in nessun caso e comunque in nessuna forma il passaggio anche solo velato di quest’ultima sotto il controllo dell’autorità politica e, nella fattispecie, dei due ministri competenti, ossia quello degli Interni e quello di Grazia e Giustizia.
Ci sono due ultimi aspetti che l’attuale disegno di legge costituzionale con cui la maggioranza intende riformare il sistema giudiziario sollecita a prendere in esame da un punto di vista teorico: l’obbligatorietà dell’azione penale e la responsabilità civile del giudice.
L’obbligatorietà dell’azione penale è stata concepita dai padri costituenti per eliminare ogni sospetto di discrezionalità e partigianeria da parte del pubblico ministero nell’esercizio della sua funzione e anche, verosimilmente, per sottrarre al suo ufficio la responsabilità di decidere al riguardo, con il rischio di essere fatto oggetto di pressioni, intimidazioni, ricatti, minacce e quant’altro. Vero è, tuttavia, che con la crescita esponenziale dei reati e delle relative “notizie”, il giudice inquirente si è venuto a trovare nelle oggettive condizioni di dover operare una scelta a sua discrezione, decidendo un ordine di priorità nei reati da perseguire. In questa situazione, stabilire per legge la gerarchia delle violazioni del codice che richiedono l’avvio di un’azione penale può apparire come una conseguenza inevitabile al fine di continuare a garantire ciò che con l’obbligatorietà di tale azione, prevista costituzionalmente, i redigenti la nostra Carta Fondamentale si erano prefissi di garantire, ossia quanto abbiamo appena finito di ricordare. Ma si tratta di un’apparenza destinata a svanire non appena ci si soffermi con qualche attenzione sul carattere che una legge simile dovrebbe avere. Una tale norma, infatti può essere o inutilmente generica, limitandosi a riproporre una scala di gravità dei reati di puro buon senso e che dovrebbe, dunque, essere superfluo definire per via normativa, visto che in questo caso si dovrebbe poi, comunque, affidare la sua applicazione alla discrezionalità del magistrato nell’interpretarne le disposizioni, delegandogli il compito di adattarla alle diverse circostanze concrete in cui egli potrà venirsi a trovare nell’esercizio dei doveri inerenti alle funzioni di cui è investito. Oppure può essere concepita con una tale precisione di dettagli da non lasciare alcun margine alla discrezionalità del giudice inquirente (ammesso che questo sia possibile), e in tal caso rappresenterà una pericolosa violazione dell’autonomia del pubblico ministero nonché, in generale, del potere giudiziario, da parte di quello legislativo, che potrebbe avvalersene per sottrarre se stesso, o meglio le azioni dei propri esponenti al sindacato della legge e di chi è chiamato a farla rispettare.
Per quanto riguarda la responsabilità civile del giudice, il paragone che si è soliti fare con quella cui sono soggetti i medici, gli impiegati e i professionisti che esercitano, a vario titolo, la loro professione in virtù di un’abilitazione pubblica conseguita attraverso il superamento di una prova prevista da una legge dello Stato è del tutto improprio. Come è facile mostrare a chiunque abbia la pazienza di riflettere e la buona fede di volerlo fare con il sufficiente grado di disinteresse e spregiudicatezza. Infatti, la responsabilità civile (che non si applica, com’è evidente ai casi dolosi, già sanzionati dalla legge penale) si fonda su una possibile e dimostrabile imputazione di imperizia, negligenza, incompetenza ecc. Ebbene, non si vede proprio in che modo in un’interpretazione e applicazione della legge, come quella che può, per esempio, desumersi o da un provvedimento di restrizione della libertà personale fondato sul convincimento che l’inquisito possa inquinare le prove o fuggire, oppure da una sentenza che contenga le motivazioni di un dispositivo sanzionatorio, sia possibile ravvisare gli estremi di qualcosa del genere. Si vuole forse togliere al magistrato (inquirente o giudicante) quella libertà e discrezionalità nell’interpretazione a applicazione della norma penale che è naturalmente connessa al suo ruolo e al suo ufficio? Si vuole paragonare un’interpretazione della legge diversa da quella che può essere fornita da un altro giudice a qualcosa come, che so, la dimenticanza di una garza o di un bisturi nell’addome di un paziente operato da parte del chirurgo che ha eseguito l’intervento? Senza contare che, con specifico riferimento al caso dei giudici togati, nell’eventualità di una condanna in primo grado non confermata in appello, il giudice di primo grado sarebbe automaticamente sconfessato dal suo collega di secondo grado e ciò potrebbe sempre essere fatto valere come l’equivalente di un giudizio periziale implicito sulla sentenza precedente pronunciata, che indurrebbe tutti giudici di primo grado a preferire in linea di massima l’assoluzione di un imputato alla sua condanna, tanto più se venisse introdotta la norma prevista dal disegno di riforma costituzionale appena proposto e reso pubblico dall’esecutivo, secondo la quale l’assoluzione in primo grado diventerebbe inappellabile da parte del pubblico ministero. Ma se una simile conseguenza fosse il risultato più di una forma di intimidazione alla quale il giudice si vedesse soggetto che del suo senso di responsabilità di fronte ad un caso privo di elementi di riscontro indubitabili, tutto questo potrebbe finire con l’incidere negativamente sulla certezza della pena e su risarcimento morale dovuto alle vittime del reato.
Dalle cose dette, chiunque può valutare quanto o fino a che punto la riforma proposta si riprometta di introdurre principi che avvicinino il sistema giudiziario vigente all’ideale di una funzione giurisdizionale compiutamente rispondente alle esigenze di una vera liberaldemocrazia e quanto, viceversa, i nuovi principi che si intende introdurre lo allontanerebbero di fatto da questo ideale se venissero inseriti nella nostra costituzione. Comunque si giudichi questa proposta, appare, però, chiara una cosa: essa mescola, sagacemente, idee condivisibili, dal punto di vista al quale hanno cercato di attenersi con scrupolo le considerazioni espresse in queste righe, con il tentativo di sottoporre, direttamente o indirettamente, la magistratura inquirente al controllo politico del governo o del parlamento, e respingerla in blocco o più esattamente, respingerla senza contrapporle un disegno alternativo articolato in principi, norme e provvedimenti che possano consentire una realizzazione effettiva e completa, nonché più funzionale di quella attualmente prevista, del controllo reciproco fra poteri dello Stato sarebbe, dal punto di vista politico e anche concettuale, l’ultimo degli errori di pressapochismo, dilettantismo e imperizia nei quali un’opposizione apparentemente priva di idee sembra, fin qui, essere stata quasi costretta (dalla sua insufficienza), sistematicamente e con impressionante regolarità, a cadere ogni qual volta si sia venuta a trovare in circostanze analoghe.