Cacciari
se n’è gghiuto....
di Umberto Curi
In un’intervista resa ai primi di novembre fa al “Corriere della sera”, Massimo Cacciari ha annunciato la sua decisione di abbandonare la politica. Di per sé, la notizia non sarebbe di quelle capace di suscitare particolare rammarico. Qualcuno potrebbe anzi ritenere che il vantaggio derivante da questa decisione per gli studi filosofici, recuperando a pieno tempo un pensatore di primissimo livello, compensa ampiamente la perdita che ne avrà la politica. Ma questa prospettiva, evidentemente troppo angusta, rischia di occultare un aspetto di gran lunga più importante, vale a dire il fatto che questo abbandono costituisce un indizio – non unico, anche se non tra i meno importanti – di un processo più generale, che sarebbe molto pericoloso ignorare o anche solo sottovalutare. Per capire di cosa si tratta, proviamo a fare un passo indietro di trent’anni. Faccio un esempio che conosco direttamente. Nel 1979 la sezione universitaria del PCI di Padova contava più di 150 iscritti, in larghissima maggioranza docenti universitari e tecnici di alta qualificazione. Contemporaneamente, la federazione provinciale dei giovani comunisti faceva segnare il record storico delle adesioni. Di lì a pochi anni, il PCI avrebbe registrato, nelle elezioni europee, il suo massimo storico, al di sopra del 34% (all’incirca la stessa percentuale ottenuta alle Politiche dal PD). Ebbene, di quel nutrito gruppo di intellettuali, provvisti di competenze specialistiche diverse, in molti casi all’avanguardia della ricerca in vari campi del sapere, non è rimasto praticamente nulla. Un patrimonio di intelligenze e di competenze, potenziale serbatoio di idee indispensabili per dare concretezza a progetti di governo, sul piano locale e nazionale, è andato totalmente disperso. Nell’attuale PD, erede di quel Partito comunista, non solo non vi è traccia di una sezione universitaria (si dovrebbe dire amaramente che forse non vi è traccia di qualsiasi vera e propria struttura di partito), ma è sparito ogni e qualunque canale di comunicazione e di interscambio tra il ceto intellettuale, comunque declinato, e la dirigenza del partito ai diversi livelli. Di tecnici e docenti universitari ci si ricorda, quando va bene, allorchè vi sia da sottoscrivere appelli al voto in occasione delle varie campagne elettorali. Dopo di che, ottenuta la firma, politici e intellettuali ritornano a fare ciascuno il loro mestiere, senza che neppure si ponga il problema di un rapporto meno effimero e meno circoscritto. Un processo analogo si è verificato, inoltre, anche per quanto riguarda i giovani, con i quali non si riesce più neppure a interloquire. Nel frattempo, durante questo trentennio, nell’area politica della sinistra sono nati 3 grandi partiti (prima il PDS, poi i DS, poi il PD), sempre all’insegna della novità epocale che avrebbe dovuto sconvolgere il sistema politico italiano, salvando e rilanciando il paese. Ogni volta, ci si è trovati a prendere atto che a queste nobilissime intenzioni e dichiarazioni di principio, non si riusciva minimamente a far corrispondere fatti concreti, e che ogni “nuovo inizio” finiva per rivelarsi una parola senza senso e senza contenuti. Non c’è da meravigliarsi. Viene anzi da chiedere come fosse possibile immaginare di poter produrre una novità autentica, anziché una semplice rimasticatura del vecchio, avendo del tutto interrotto i canali di comunicazione con le due fonti principali di alimentazione di un partito, soprattutto se pretende di essere “nuovo”, vale a dire la relazione organica con gli intellettuali, da un lato, e con i giovani, dall’altro. Non si tratta (davvero occorre chiarirlo?) del mancato rapporto con la “casta” dei docenti universitari. Il problema non è quello – ammuffito e del tutto irrilevante – di dare “rappresentanza” anche a qualche isolato intellettuale, aggiungendolo magari alla liste elettorali insieme all’artigiano, all’operaio, all’imprenditore, all’insegnante, alla donna e al pensionato, secondo la logica perversa operante da tanti anni a questa parte. Ciò a cui ci si riferisce è un problema di tutt’altro genere, e riguarda la capacità di coinvolgere in un ruolo protagonista i diversi pezzi di quello che Marx chiamava il “cervello sociale”, senza i quali un partito politico che voglia essere innovatore e riformatore semplicemente non va da nessuna parte. Riguarda il rapporto organico di un partito con le fonti della ricerca intellettuale, nelle forme e specificazioni diverse con le quali essa si esprime. Insomma, dato la personalità tutt’altro che malleabile dell’uomo, che Cacciari se ne vada per molti potrà essere solo ragione di sollievo. Ma qualcuno dovrà spiegare quale futuro può ragionevolmente pretendere di avere un partito che venga gradualmente abbandonato da quelli che ne dovrebbero formare la testa pensante.