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Laicità, politica, democrazia

 

Marco Filippeschi

Carmelo Meazza

 

 

La nozione di neutralità non è in grado di tradurre bene l’idea laica di un ambito comune inappropriabile e condiviso e non è sufficiente a orientarci nei difficili temi della laicità. Certo, ha il merito di sottolineare alcune cose importanti: l’ambito di ogni possibile convivenza sociale deve conservare una qualche discrezione rispetto al pluralismo delle opzioni e dei valori. Si può parlare, a questo proposito, anche di indifferenza per alludere a un orizzonte che non coincidendo con nessuno dei punti di vista particolari tutti li rende in qualche modo possibili.

Neutralità e indifferenza sono nozioni che possono offrire anche altri vantaggi: richiamano l’attenzione sui pericoli che incombono ogni volta si abbia la pretesa di fondare e assicurare una comunità sulla forza di verità di valori indiscutibili e non negoziabili. E, aiutano a guardare con un certo sospetto persino le formule dei valori condivisi. A diffidare della loro retorica, poichè ciò che davvero si condivide non si ripartisce mai come qualcosa di semplicemente comune.

Ci sono però alcuni limiti che le nozioni di neutralità e di indifferenza presentano. Innanzi tutto  rischiano, nonostante le cautele, di declinare al passato l’ambito possibile di ciò che è comune, oscurando un aspetto tutt’altro che secondario: l’ambito di ciò che è comune non è mai una condizione data una volta per tutte. Esso si offre, piuttosto, come qualcosa da conseguire nell’ordine di un certo impegno. Viene dall’avvenire piuttosto che dal passato. Implica non il riconoscimento di una condizione ma un certo lavoro sociale, senza il quale le convivenze umane sono sempre in pericolo di implosione. Neutralità rischia inoltre di voler dire indifferenza  a tutti i possibili valori comprese le opzioni e i valori  che escludono ogni possibile convivenza con altre opzioni e valori. Tutto questo può portare  a una laicità impotente, a un pensiero e un’azione molto deboli. Può portare anche, come in fondo è avvenuto in questi anni, a trascurare il peso e il ruolo della politica nel suo rapporto con la dimensione della laicità.

Può portare a non riconoscere che una società in cui la politica è in crisi è anche una società nella quale la laicità è in pericolo. Una politica bloccata nel suo dinamismo  coincide con una crisi della laicità, con una difficoltà della convivenza sociale.

In questi anni si è parlato molto di riforme delle istituzioni, senza peraltro realizzarle, ma con meno intensità si è parlato di riforme dei soggetti della politica (i partiti politici in primo luogo). La politica e le istituzioni si riguardano come i due lati di una stessa pagina e proprio per questo non sono la medesima cosa.

Con un’immagine della geometria si può  forse dire così: la politica e le forme nelle quali si organizza rappresentano il raggio  della dimensione della laicità, il cui cerchio o la cui sfera è la democrazia. Solo la politica può cercare di preservare un ambito comune e proteggerlo di volta in volta dall’appropriazione del fondamentalismo degli interessi forti e del fondamentalismo dei valori. E’ stato Paolo VI verso la fine del suo Pontificato, in un momento in cui la crisi della democrazia in Occidente incominciava ad essere avvertita in tutta la sua ampiezza, a scolpire alcuni enunciati che restano ancora una provocazione e una sfida per laici e  credenti. Egli ha parlato della politica come la sfera più eminente della carità; non sarebbe difficile mostrare come nelle coerenze di quest’enunciato verrebbero meno molti fondamentalismi laici e cattolici.

Si dovrebbe dire con più insistenza e convinzione che  la politica è il modo con cui la democrazia può affermare il possibile statuto della sua laicità.

Le sinistre europee  hanno acquisito  solo recentemente la piena consapevolezza del conflitto sempre più acuto che segna i rapporti tra le logiche del capitalismo e le democrazie mature. Il genoma della democrazia non esclude il mercato delle merci e del denaro, certamente lo include e persino lo promuove, ma essa viene da una storia e da una condizione molto più antica (non tanto in senso di cronologia storica). Non è semplicemente isomorfa alle logiche del mercato e proprio, per questo ha maturato una serie di istituti che cercano di difendere lo spazio comune dal vuoto del mercato e dall’appropriazione degli interessi forti. L’esito di questo conflitto tra democrazia e capitalismo è stata l’espansione delle sfere della politica in tutto il corso  del Novecento

 

Ebbene, oggi questa tensione è ancora più aspra poiché tutti i grandi istituti della politica sono in crisi. E non è un caso che l’epicentro di questa crisi sia proprio l’Europa. Un grande mercato di capitali senza comuni istituzioni politiche. Dove le democrazie sono aggredite dall’alto e dal basso. Dai mercati finanziari di una globalizzazione spietata e da particolarismi identitari. Ma la cosa ancora più grave è che le democrazie sono aggredite dall’interno. Dalla politica stessa.

Da possibile anticorpo per la salute della laicità la politica diventa spesso enzima del fondamentalismo dei valori, delle paure e degli interessi particolari. Si può forse estendere quanto Bauman ha spiegato per la costruzione dello stato sociale europeo: la laicità è anche libertà dalla paura. Paura e stato d’eccezione, che nella difesa dal terrorismo fondamentalista, per esempio, erodono la separazione dei poteri, riducono i controlli, tra le istituzioni e quelli popolari.

 

Gli ambiti della politica sono cresciuti in questi decenni. Nello stesso tempo però si sono in larga misura svuotati di valore e di capacità di decisione. Basti pensare alla crescente difficoltà delle politiche statuali di influire sui grandi processi dell’economia globale, ma, anche più localmente, ai fenomeni di frammentazione, di corrompimento, di svuotamento sostanziale.

Per non parlare del peso  sempre più massiccio delle tecnologie dell’informazione e del loro controllo e ai problemi enormi che esso pone per la formazione del consenso e la possibilità di accedervi.

In Italia il ceto politico si è allargato notevolmente in questi ultimi decenni e tuttavia i soggetti della politica appaiono impotenti e incapaci di incidere sui destini delle nostre comunità. Così se nel passato la politica è stata un fattore di legame sociale oggi appare come una delle forme di appropriazione di ciò che è comune. Un interesse organizzato accanto ad altri forti interessi.

Questa straordinaria impotenza della politica non è marginale sul sentimento di laicità e sul sentimento del futuro. E’ difficile che sia possibile uno spazio laico comune senza un certo sentimento di condivisione di un comune destino. E ciò che di più prezioso una comunità può condividere è il suo futuro possibile. La laicità deve avere molto a che fare con quanto di inappropriabile rende aperto e possibile il proprio il futuro. Ebbene, nessuna forza della memoria è in grado di sostenere una convivenza sociale che sia benefica e feconda per si suoi cittadini. Così, se il bene più alto che una comunità può condividere è il proprio futuro, non possiamo nasconderci che per la prima volta, non solo l’Italia, ma il continente europeo nel suo complesso percepisce il proprio futuro come bloccato e chiuso. Per le società dell’Europa si tratta di un sentimento per certi versi inedito. Nonostante la pesantezza del Novecento e le sue tragedie, mai forse è stata così scarsa questa condivisione di futuro possibile. Il futuro come bene condiviso non si deve confondere con una qualche forma di filosofia della storia o del progresso. E non è semplicemente una proiezione dello sguardo verso l’avvenire. Faremmo un errore se parlassimo della laicità senza sottolineare con la giusta precisione il rapporto che li lega entrambi. Per questo si dovrebbe riflettere più a fondo su quest’orizzonte basso e chiuso che sembra essere il tratto peculiare dell’Europa del nostro tempo.

 

L’Europa non potrà rispondere alle sfide della laicità e della convivenza né affidandosi alle forze della tradizione (con le grandi ideologie ormai consumate da generazioni), né investendo sulle potenze di coagulo che in genere uno sviluppo intensivo è capace di generare. Su quella spinta in avanti cioè che oggi orienta le società dell’oriente asiatico. E questo, badiamo bene, non solo perché i grandi motori della crescita si sono dislocati e decentrati altrove, o per le strutturali difficoltà dell’economia europea. Diciamo invece per un motivo più profondo: in Europa si sono sviluppati tutti i grandi movimenti di liberazione dell’uomo e della donna. C’è stata una ricerca teologica che ha saputo riproporre la forza sovversiva dell’esperienza cristiana. In non pochi casi cogliendo la provvidenzialità di tutte le grandi spinte che hanno logorato i fondamenti forti della tradizione onto-metafisica (va ascoltato Gianni Vattimo su questi punti). Sarebbe un errore se pensassimo  che questi movimenti non abbiano lasciato un segno nello spirito europeo. Le dimensioni della qualità dello sviluppo si intrecciano con i temi della qualità della vita e della convivenza  sociale in modo così forte da distinguere l’Europa da altri Continenti. La gran parte dei cittadini europei non riconoscerebbe rispettati i requisiti di democraticità se i modelli dello sviluppo fossero tutti improntati alla crescita del PIL. Sicuramente ritiene che un modo per reggere e persino vincere la competizione sui mercati delle merci e dei capitali sia quello di sfidare i paesi asiatici, ma anche gli Stati Uniti sul terreno della qualità dei diritti di convivenza e di cittadinanza.

 

Non è qui possibile neppure lontanamente rendere conto di tutto ciò che si è accumulato intorno alla nozione di democrazia. Nella fortuna di questa antica formula della civiltà politica (fortuna è proprio il termine che utilizza J. Dunn in un suo fortunato saggio) dell’Occidente si siano concentrati tutti i classici temi della laicità.

La democrazia, negli ultimi decenni, ha sempre più allargato il suo cerchio: da formula di governo per la quale la volontà della maggioranza si ritiene legittimata a imporre delle decisioni all’intero corpo della comunità, all’esigenza di principi sempre più ampi e flessibili che, di volta in volta, includono una progressiva attenzione ai diritti delle minoranze, delle persone e degli individui. Si ritiene oggi sempre più diffusamente che il rispetto di alcuni diritti abbia una valenza generale e universale e si percepisce un limite e un deficit di democraticità della società se questi non fossero tutelati e riconosciuti.

Alcuni di questi diritti hanno assunto una forza tale da sottrarsi persino alla negoziazione politico parlamentare e allo stesso principio di maggioranza. E Ralf Dahrendorf è giunto a proporre i Consigli o Senati etici quali snodi di una nuova organizzazione della democrazia.

Tutto questo da un lato incrementa il valore aggiunto che siamo portati ad attribuire alla democrazia, dall’altra contribuisce a spostare costantemente i fuochi del dibattito pubblico sui principi fondamentali della convivenza. Quindi sulla laicità, quindi sul valore della politica e la necessità di una sua riforma radicale.

 

Se la laicità coinvolge gli ambiti della politica, se da questi dipende la salute della democrazia, una delle priorità non può che essere una riforma dei partiti politici.

I partiti in tutta Europa soffrono un distacco crescente da parte dell’opinione pubblica. Non possono più fondarsi sui tratti costitutivi irrecuperabili dei partiti di massa: adesione ideologica, mobilitazione permanente, integrazione sociale. Ma hanno pur sempre un grande potere: sul reclutamento delle classi dirigenti politiche e sull’impiego delle risorse pubbliche. Un potere sempre più sbilanciato a favore delle leadership, verticistico e personalistico, che crea crisi di legittimità dei partiti quali soggetti collettivi. Quando le istituzioni e il sistema politico sono inefficaci a decidere, com’è in Italia, si determina una drammatica crisi democratica, che impone una consapevole radicalità riformatrice.

Come si garantisce uno spazio comune  condiviso all’interno dei partiti politici? Come difendere  l’esperienza dei partiti dalle oligarchie inamovibili? Come tutelare i diritti delle minoranze ? Come garantire un dibattito aperto e plurale senza favorire le logiche poco laiche della secessione o della scissione permanente?

I partiti hanno una funzione pubblica troppo importante perché i loro statuti sia ancora assimilati a quelli di una semplice associazione culturale. Su questo livello vi sono ancora molte cose da fare e da sperimentare.

Sarebbe importante fare una legge che favorisca la democrazia interna e l’apertura partecipativa dei partiti, confermare ed estendere la regola delle primarie, prevedere le quote per un riequilibrio a favore delle donne e si dovrebbe riflettere sulla possibilità che i partiti siano aperti non solo alle adesioni individuali ma anche alle adesioni di gruppi e associazioni che condividono statuti e programmi.

La risposta che le destre europee danno alla crisi della politica è la sua mediatizzazione, il trapasso dalla partecipazione al consumo. Alla crisi della politica si risponde con la sua dissoluzione in evento spettacolare. Tutto questo può produrre anche un aumento della capacità di decisione politica e persino di efficienza di sistema, ma alla fine espone le società europee a un collasso etico nel quale i fondamentalismi degli interessi e delle identità diventano sempre più aggressivi e minacciosi.

La crisi della sinistre in Francia e in molti altri paesi europei, d’altra parte conferma che le identità del Novecento devono migrare verso nuove sintesi e nuove prospettive. Le identità forti delle culture dominanti il Novecento devono raggiungere nuovi approdi se vogliono contribuire a garantire un futuro all’Europa.

Il Partito democratico nasce in Italia investendo tutto il suo futuro politico sul tema della democrazia. La consapevolezza dalla quale esso parte, seppure tra rischi di cadute e contraddizioni che possono comprometterne il cammino, è che tutte le sfide cruciali dell’Europa da quelle economiche a quelle sociali e culturali si giocano infine su questo piano; se la democrazia sarà fragile e debole, se la politica sarà impotente, il declino economico, sociale e culturale sarà irreversibile. Il Partito democratico può muovere anche da un’altra consapevolezza: le principali tradizioni culturali e politiche del Novecento, in particolare il popolarismo d’ispirazione cristiana e il popolarismo di tradizione comunista e socialista, quando cercano un ambito di comune convergenza, quando delineano la fisionomia dell’approdo della propria storia,  la trovano in una democrazia che si spoglia degli aggettivi. Certo, per entrambi, in modo diverso, quest’emancipazione dagli aggettivi non è stata né semplice né lineare.  

Una democrazia senza aggettivi, in fondo, è l’esito di un provvidenziale alleggerimento di tutte le forti identità ideologiche o metafisiche della modernità.

Occorre chiedersi però se non sia stato anche il comune ancoraggio alla prospettiva degli ultimi e degli esclusi, la passione, la vigilanza e l’attenzione sui temi della giustizia sociale, che hanno concorso (per un forza storica che resta ancora da pensare fino in fondo) al declino di tutte le pericolose trascendenze, sia quelle verticali che quelle orizzontali.

Occorre continuare a domandarsi se non vi sia una  carica antitotalitaria e antiideologica immanente nella prospettiva che parte dagli esclusi e dagli ultimi; e se questa non sia alla fine l’energia della politica, la sua forza costituente per la laicità della convivenza.  Se non sia stata proprio questa comune ispirazione dentro una storia carica di luci ed ombre ad avere condotto il popolarismo di ispirazione cristiana e il popolarismo di tradizione comunista e socialista, attraverso esperienze d’inclusione civica e di riformismo concreto, verso una democrazia senza aggettivi. A ritenere che la costruzione permanente della democrazia sia la garanzia possibile per una società più umana e più giusta.

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