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Il progetto della tecnocrazia economica 

 

di Elio Matassi

Il governo Monti, dopo aver superato i primi tre mesi di vita, sta sempre più rivelando quali siano le sue finalità. 

Dal punto di vista economico, i mercati stanno reagendo piuttosto bene, lo spread si sta assestando stabilmente intorno ai 350-360 punti, un livello accettabile per i nostri conti; ovviamente sugli altri due piani, quello dello sviluppo e quello dell’equità, siamo ancora molto lontani dal conseguimento di una sia pur minimale riuscita. 

Il governo Monti mostra, comunque, un notevole grado di pragmatismo ed efficacia legislativa; tutto ciò di cui si è parlato per anni ed è, per così dire, rimasto sostanzialmente inattuato, sta trovando soluzioni sempre più rapide, dimostrando con grande trasparenza qual è il fine centrale di tale governo tecnocratico, ossia di non essere affatto immune da tentazioni politiche, anzi, di evidenziarne alcune che, portate a compimento, potrebbero alla fine risultare molto pericolose per lo sviluppo e il rafforzamento della sinistra e, in particolare, del Partito Democratico nello scenario nazionale.

Il passaggio che comincia a intravedersi esplicitamente sta nella trasformazione strisciante da un governo di tregua-compromesso fra forze politiche che rimangono essenzialmente eterogenee a un progetto politico complessivo che dovrebbe investire anche l’arco della prossima legislatura. 

Sul piano politico, due sono gli aspetti che risultano più evidenti: nel centrodestra, la spaccatura, sempre più irreversibile, tra il PdL e la Lega, che sta radicalizzando la sua anima populista e, sull’altro fronte, il centrosinistra, la divisione tra le due anime che coinvolgono la natura stessa del Partito Democratico, quella liberaldemocratica e quella riformista socialdemocratica. 

Divisione che sta maturando a proposito delle discussioni-implicazioni intorno alla possibilità di modificare l’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Il progetto tecnocratico neocentrista, coltivato sostanzialmente dalle forze del Terzo Polo, sta pertanto realizzandosi nella costruzione di un blocco maggioritario, neocentrista, più autorevole e rappresentativo anche nei confronti delle istituzioni economiche internazionali rispetto al passato (il PdL nella configurazione tradizionale), che sia il risultato di una disgregazione dell’attuale blocco neopopulista, a destra e, a sinistra, della tendenziale ‘spaccatura’ del PD  nelle due ali principali che lo compongono. Se questo progetto si realizzasse, risulterebbe devastante per la sinistra e, in particolare, per il Pd, che rinuncerebbe pregiudizialmente a rappresentare la guida della ricostruzione nazionale indispensabile. Una ricostruzione nazionale che segni anche un’effettiva redistribuzione del reddito, ormai irrinunciabile, e che recuperi, ristrutturandole compiutamente, senza lasciarle al proprio destino, sezioni del nostro apparato istituzionale pubblico, contrassegnate ormai da un fenomeno dissolutivo sempre più marcato, ossia, scuola, Università, beni culturali, sanità.

Se si prende in considerazione il comparto di cui ho maggiore esperienza, l’Università, svolgendo la funzione di Direttore di un Dipartimento di filosofia da circa sei anni, non posso fare a meno di constatare che il governo Monti ha di fatto lasciata completamente inalterata la cosiddetta riforma dell’Università pubblica, che ormai è allo stremo, in particolare nel comparto rilevante dei saperi umanistici. 

Il primo risultato evidente di un simile processo, è stato quello della progressiva distruzione delle Facoltà di Lettere e Filosofia pubbliche, perché in realtà alla fine di questo processo, presumibilmente tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, non vi saranno più (tranne rarissime eccezioni) Dipartimenti di Filosofia nell’Università italiana, ma solo molte aggregazioni eterogenee, in linea di principio non valutabili, secondo la retorica contemporanea dell’efficienza produttivistica. Per chi, come il sottoscritto, ha avuto la possibilità di approfondire il problema e di comparare le diverse esperienze internazionali, sa perfettamente quali siano esattamente i termini del problema: i dipartimenti più prestigiosi a livello internazionale sono anche quelli più limitati sul piano quantitativo ma anche più coesi su quello qualitativo. 

In realtà, il disegno sotteso alla presunta riforma è quello di favorire i dipartimenti ‘professionalizzanti’, irregimentandoli in una logica puramente mercantile e di umiliare il settore dei saperi umanistici che offrono la formazione di base e il sapere critico, conducendoli a una progressiva estinzione. 

Il progetto tecnocratico-neoliberista presume questa svolta anche per le altre istituzioni pubbliche: scuola, sanità,, beni culturali. Una deriva sempre più marcata nella sua irreversibilità, che era stata intuita lucidamente da uno dei nostri intellettuali più lungimiranti, Pier Paolo Paolini, il cui profilo culturale viene interpretato da un sociologo della statura di Franco Cassano nei termini seguenti: “La dinamica della liberazione cambia segno: lo sviluppo ininterrotto crea il consumismo, che sollecita sempre nuovi desideri, e la forma di cultura più funzionale a questo nuovo potere è quella che vieta di vietare, che chiede l’abolizione di tutte le interdizioni. Il soggetto più adatto a questo universo è un soggetto costantemente inappagato, una ‘macchina desiderante’, allergica alla nozione stessa di vincolo e di limite”. E ancora più avanti: “Pasolini avverte con straordinario anticipo, ben prima dell’Ottantanove, gli effetti distruttivi che questo nuovo potere comporta sulla cultura laica. Perdendo ogni tensione, essa subisce una drammatica contrazione e la sua liberazione dalla spinta escatologica coincide con la resa al nuovo ordine. Essa diventa pura grammatica dei diritti, un’algebra degli egoismi animata da una pericolosa esportazione verso l’esterno. Questo tipo di cultura, che conosce solo il pronome ‘io’, ha perso ogni respiro e regala immensi territori al ritorno della religione, regala alla Chiesa come istituzione la sovranità teorica sulla nozione di limite e su quella di senso e di valore”. 

Il saggio di Frano Cassano, Pier Paolo Pasolini: ossimoro di una vita, pone un problema centrale al dibattito culturale contemporaneo; è possibile conservare un’identità ‘di sinistra’ rinunciando pregiudizialmente alle nostre più grandi tradizioni, i saperi umanistici, il melodramma, i nostri beni culturali? Credo sia impossibile rinunciare a questo, perché tale rinuncia significherebbe anche il suicidio politico della sinistra. 

Dobbiamo essere in grado di resistere alle sirene del governo Monti, al ‘volto per bene’ del neoliberismo tecnocratico. Dobbiamo difendere con rigore ma con passione il nostro patrimonio da presunte modernizzazioni, perché, dopo il trionfo estremo del ‘disincanto’, è venuto forse il momento del ‘reincantamento’, ruolo che non può essere lasciato all’egemonia culturale della Chiesa. E’ necessario ‘reincantare’ la politica, almeno quella che aspira ancora a un progetto di sinistra e, per dare corpo a tale ambizione, è indispensabile tornare alle nostre grandi tradizioni, senza le quali sarà impossibile costruire un qualsiasi progetto convincente e vincente.

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