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Un concetto in movimento:

la democrazia e i suoi limiti

 

di Marco Filoni

Democrazia è quasi parola magica. La ritroviamo sempre e dappertutto. Una costante del nostro tempo: dalle pagine dei giornali ai discorsi di un qualsiasi politico. La esportiamo, la difendiamo, lottiamo per essa. Ma siamo veramente sicuri di sapere cos’è? Qualche dubbio viene. Si ha l’impressione che ci accontentiamo di pronunciare questo termine, carico di valori positivi e indissolubili, perché sappiamo che non possiamo farne a meno. Ma lo sappiamo veramente? Oppure è solo quello che ci hanno detto e raccontato – quindi opinione comune e, in quanto tale, data per definitiva e non trattabile? Proviamo a capire di che si tratta. Certo, non è compito semplice. Nessun sistema politico è più difficile da definire della democrazia. La monarchia assoluta, la tirannia, l’aristocrazia e addirittura la dittatura presentano caratteri formali ben determinati grazie ai quali si decide, senza troppe difficoltà, se una data forma di vita politica corrisponde o meno a quel dato tipo d’organizzazione. Non è lo stesso per la democrazia: non si parla di monarchia democratica, di dittatura democratica, d’aristocrazia democratica? Si potrebbe aggirare l’ostacolo fornendo, come spesso viene fatto, una rigida e “stretta” definizione. Scappatoia però insufficiente. I termini politici conservano il loro senso scientifico solamente nei libri e nella teoria: ma la vita di tutti i giorni, la vita della comunità, non si esprime secondo le regole del discorso, ma attraverso valori, preferenze, sentimenti, passioni. Lasciamo quindi da parte le conseguenze logiche del teorico, che può accontentarsi d’aver ragione senza che nessuno ascolti veramente quel che dice.

Per cominciare non bisogna parlare di un concetto scollato dalla democrazia così com’è, o come dovrebbe essere: in sé stessa e idealmente. Ovvero la democrazia come si presenta e si interpreta per bocca dei suoi fedeli e dei suoi nemici. Per farlo andiamo spigolando alcune pagine inedite di Eric Weil sui limiti della democrazia – appunti scritti nel 1950, dopo che il filosofo aveva lasciato la Germania natale nel ’32 (e si faccia attenzione alla data: fu uno dei pochissimi ebrei che capì cosa si celava dietro la montante retorica nazional-popolare nazista e quello che sarebbe successo), combattuto con la Francia adottiva, e sperimentato l’internamento per cinque anni in un campo di prigionia nazista.

Prendiamo innanzitutto la formula di Lincoln, che parla del governo del popolo “fatto dal popolo per il popolo”. Oppure il motto francese Liberté, Egalité, Fraternité. Entrambe le massime forniscono buone approssimazioni a colui che vuol partire dalla realtà politica vissuta. Ma che significano esattamente? Cosa presuppongono? In primo luogo ci permettono di trovare una soluzione a un problema che c’inquieta sin da prima che iniziassimo a interrogarci sulla democrazia: la democrazia si presenta non come una forma di governo o come un sistema costituzionale, ma come una dottrina che fissa a ogni governo il proprio scopo. Si può realizzare la libertà, l’uguaglianza, la fraternità in una monarchia; in un’aristocrazia (a condizione che essa sia aperta e si rinnovi continuamente attraverso un reclutamento in tutte le classi sociali); in una dittatura (se questa è limitata nella durata del suo esercizio e se permette a ogni cittadino di avere una possibilità d’accedere al posto di dittatore); o anche in una repubblica parlamentare. Il governo per il popolo, l’esercizio del potere nell’interesse dell’intera comunità, non è la prerogativa di istituzioni private, e il governo fatto dal popolo, essendo sempre esercitato da suoi rappresentanti, può accontentarsi di designare governanti, per un periodo in cui i cittadini che non esercitano attualmente il potere hanno una possibilità legale, cioè differente da quella rivoluzionaria, di sostituire il personale direttivo da un’altra equipe. Così non dobbiamo sorprenderci di sentir chiamare democrazie la Repubblica francese, di tipo parlamentare, o quella degli Stati Uniti d’America, dove il presidente non deve dar conto a nessuno e in cui i «ministri» non hanno nemmeno il diritto di presentarsi davanti al Parlamento, o anche la monarchia inglese nella quale un parlamentare, teoricamente onnipossente, investe, nella pratica, un Primo Ministro da diritti dittatoriali.

Dottrina che fissa il suo scopo a ogni governo: così abbiamo finora definito la democrazia. Ma questa constatazione, come avverte Weil, per quanto possa sembrar vera non è sufficiente. Come bisogna fissare questo scopo? Se tutto il mondo fosse sempre d’accordo su questo punto, non ci sarebbe bisogno d’andar oltre: se si sapesse quello che, in una determinata situazione, forma il vero interesse del popolo, se si fosse sicuri del senso concreto delle parole libertà, uguaglianza, fraternità, i soli problemi da risolvere sarebbero di ordine tecnico e concernenti i mezzi più appropriati per realizzare uno scopo riconosciuto come tale da tutti i cittadini: al limite, si potrebbe rinunciare a tutte le organizzazioni politiche e accontentarsi di una amministrazione competente. Ma sappiamo sin troppo bene che non è così. Come scrive Weil, vi sono forme politiche di cui la democrazia non può far altro che accontentarsi – l’aristocrazia di nascita, il governo né controllato né revocabile, la dittatura illimitata nel tempo del suo esercizio. Certo, da queste forme si è tentati di far emergere determinazioni positive: la democrazia sarebbe il sistema politico e costituzionale in cui ogni autorità emana dal popolo; in cui il governo è istituito dal popolo e revocabile da parte dei suoi committenti; in cui ogni essere umano adulto partecipi alle decisioni ultime. Avremmo così definito la democrazia moderna come sistema politico rappresentativo, a diritto di voto legale, a governo controllato (periodicamente o di continuo) e revocabile.

Questo quadro non è affatto falso, ma rimane ancora insufficiente. Come conciliare infatti la contraddizione apparente fra la neutralità della democrazia dinnanzi alle forme classiche (cioè greche) di costituzioni e l’esistenza di un problema istituzionale della democrazia? Quest’ultimo problema si pone su un piano storico che riguarda le strutture politiche, economiche e sociali. Si dirà allora che la democrazia non esclude affatto le opposizioni politiche, sociali, religiose, ideologiche: al contrario essa ne vive, e il suo vantaggio incomparabile su tutte le altre costituzioni consiste precisamente in questo. Poiché la democrazia permette, domanda, impone il compromesso fra avversari in vista della comune difesa degli interessi nazionali. In parole povere, ci sarà sempre una maggioranza di cittadini (o di suoi rappresentati) decisa a intendersi su un programma d’azione, e determinare ciò che, nella situazione del momento, è il bene del popolo e con quali mezzi realizzarlo.

Benissimo: ma non è questa un’ipotesi d’ordine metafisico, una credenza identica o almeno comparabile a quella di Rousseau e della sua volontà generale? E siamo così sicuri che in ogni Stato e in ogni condizione storica una tale maggioranza riesca a esprimersi? Lasciamo da parte questo postulato e dimentichiamo il caso, certamente possibile (si legga la cronaca politica dei nostri giorni), di una nazione così divisa che non riesca a darsi un governo e fissarsi uno scopo. Ciononostante, resta il fatto che la democrazia postula alcuni dati che non sono contenuti, o almeno non sono espressi, dalla sua stessa definizione. Proviamo a coglierli. Una prima acquisizione è fatta: non può esserci democrazia in una nazione che non sia unita da valori comuni e che non riconosca alcuni scopi come desiderabili. Un popolo incapace di dar vita a un governo che agisca in vista di interessi nazionali – o meglio: incapace di determinare questi interessi e di istituire un governo capace di difenderli – un tale popolo è destinato alla dittatura (non-democratica) o comunque alla perdita della propria indipendenza. Una volta accordati su questo postulato, siamo un po’ più rassicurati? Chi risponderà con un sì netto e deciso, è perlomeno temerario. Sì, perché Hitler è arrivato al potere con i mezzi più democratici che esistano, Napoleone iii ha avuto il suffragio universale, la maggioranza del nostro popolo italiano è stata a lungo lontana dall’opporsi a Mussolini. Quindi: i processi democratici più autentici possono condurre alla soppressione della stessa democrazia. Una maggioranza può volere la soppressione politica, sociale e anche fisica di un gruppo etnico, di fedeli a una tale religione, di aderenti a una certa ideologia. In questo caso siamo ancora in democrazia? Da un punto di vista formale, siamo obbligati a rispondere di sì. Il regno della maggioranza, un governo chiamato a realizzare la «volontà popolare» non ci lascia liberi, secondo la logica, di rifiutare questa conseguenza. Ancora una volta la democrazia, vista e vissuta dai suoi “credenti”, appare diversa da ciò che è compresa nella sua definizione. Ci troviamo di fronte a uno di quei presupposti informulati, incoscienti, nascosti così a lungo che nessun programma o atto politico pregiudicano la sensibilità politica della democrazia di cui quei presupposti costituiscono il fondo.

Allora qual è il principio che vieta alla democrazia la persecuzione di un gruppo per la sua religione, ideologia, situazione sociale o convinzioni? La risposta sembra esser nel fatto che per la democrazia non esiste verità: una verità definita una volta per tutte. Perché per essa i valori sono di volta in volta differenti, sono in costante evoluzione, così come le tecniche e le pratiche politiche e amministrative devono evolversi con la società e le sue “idee”. Ognuno, in un dato momento, può aver ragione come anche torto. Nessuno decide in virtù di un diritto divino. La democrazia si concepisce come un sistema di libera discussione in evoluzione. Nessuna decisione è presa una volta per tutte, non vi è principio che non possa esser criticato, modificato, abrogato. Ogni cittadino può sempre partecipare, liberamente, alla discussione.

D’un tratto la democrazia s’impone un limite: il limite della libertà che vuol mantenersi come libertà. Se nulla impedisce alla democrazia di escludere temporaneamente alcuni gruppi, anche considerevoli – la minoranza – dall’esercizio del potere, ciò  non significa che questi gruppi debbano esser privati della possibilità di prendere la direzione della comunità trasformandosi in maggioranza. Questo passaggio ci permette d’eliminare l’inquietante possibilità di una giustificazione della non-democrazia con l’aiuto di metodi democratici. Se noi diciamo che la democrazia è il regno della maggioranza concepito per salvaguardare i diritti della minoranza, l’avremo sufficientemente distinta da tutti gli altri sistemi maggioritari (poiché in fondo ogni sistema finisce per esser maggioritario, a condizione di sopprimere ogni opposizione e consacrare tutti i suoi sforzi all’«educazione delle generazioni future» di triste memoria). Ma le cose nella realtà vanno un po’ diversamente. Ancora una volta non abbiamo fatto che definire. Non possiamo accontentarci del ruolo di giudici: abbiamo sì ottenuto un criterio secondo il quale possiamo definire se, almeno in principio, una tale misura è democratica o meno. Ma dimentichiamo perché consideriamo Hitler, democraticamente eletto dal popolo tedesco, come un capo di Stato non-democratico? – nonostante niente c’impedisce di sperare che mai più suoi simili facciano capolino nella storia. Da qui l’ultimo tratto caratteristico della democrazia, e sicuramente il più profondo e nascosto: la democrazia assume che tutti i cittadini siano ragionevoli. Solo i cittadini possono partecipare alla vita politica della comunità: bambini, folli, criminali ne sono esclusi non per cattiva volontà degli altri, ma per il loro rifiuto della ragione. Ragione: ma che significa questa parola inquietante davanti alla quale vien da domandarsi, come Ponzio Pilato lavandosene la mani: cos’è la ragione? Dopotutto, altro non è che il rifiuto del ricorso alla violenza per imporre le proprie concezioni; rifiuto d’agire in favore di una forma di Stato fondata sull’impiego della violenza. Esser ragionevoli significa non perseguire immediatamente il proprio interesse personale di fronte a quello della comunità politica. Siamo tornati a Rousseau ancora una volta? Nient’affatto: allora l’uomo era già ragionevole, la violenza era già vinta. Oggi sappiamo che l’uomo non è ragionevole, ma può esserlo e deve diventarlo. L’uomo non è contento della propria sorte, ma può avere una sorte che dia soddisfazione alle sue aspirazioni e ai suoi diritti imprescrittibili. Non è automatico che ci sia accordo fra interessi non soltanto complementari, ma anche e necessariamente opposti; non è meccanicamente che si è condotti dalla violenza al pensiero universale e democratico; non è l’azione di leggi impersonali che sopprimono delle situazioni tali che solo il ricorso alla rivolta promette all’uomo una vita accettabile, felice e degna d’esser vissuta. È l’azione cosciente e responsabile che può condurre a ciò, attraverso l’educazione alla ragione attraverso la ragione.

Problemi e limiti della democrazia sono tanti. Ma non cadiamo nell’errore di considerarla, per una sorta di grazia di stato, resistente a ogni prova, a ogni tensione, a ogni ingiustizia. Qualsiasi nazione può ritornare in una situazione in cui la democrazia diventa impossibile, perché una maggioranza incosciente e non ragionevole esaspera una minoranza spingendola alla rivolta. Una volta stabilita la democrazia, bisogna ancora che ogni cittadino possa esser contento delle condizioni di vita materiali e morali. La democrazia è dappertutto una “marcia” verso la ragione, educazione perpetua dell’uomo dall’uomo stesso, perché l’uomo sia veramente e pienamente uomo. Perché il credo della democrazia è quello di costruire un mondo umano: bisogna che essa lo voglia ragionevolmente, nelle condizioni che la realtà storica le offre come solo campo della sua azione. La democrazia non è mai: è sempre da realizzare.

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