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La morte televisiva di Jade Goody

di Carmelo Meazza

Jade Goody è morta qualche giorno fa nella sua casa londinese, dolcemente, nel sonno, fuori dalla luce dei riflettori. Così hanno scritto le agenzie di stampa. Questa drammatica storia di una giovane del nostro tempo non accade casualmente. Essa rientra tra quel genere di eventi che hanno la forza di farsi emblema e indicare qualcosa di irreversibile per la loro epoca. La grande stampa internazionale, particolarmente attratta dalla biografia di Jade, ha dato molta enfasi, a questa morte notturna, silenziosa, in solitudine, in un sonno profondo, dentro gli abissi misteriosi di un sogno. In fondo è ciò che molti di noi augurano a se stessi: se proprio si deve lasciare questo mondo e questa vita la porta di un sogno sembra la più benvenuta e qualche volta anche la più opportuna. E, tuttavia, se c'è qualcosa di cui questa biografia è l'emblema è esattamente il contrario di quanto le agenzie hanno preferito mettere in evidenza. Da tempo Jade aveva convocato il grande circo mediatico per dare notizia della sua terribile malattia, inaugurando un reality nel quale, come in presa diretta, si trasmetteva il suo progressivo e inesorabile decorso verso la morte. Sapeva bene dunque che il momento del trapasso, persino l'istante notturno del suo morire, sarebbe stato inondato dalla luce televisiva e avrebbe preso parte a una scena pubblica  ormai sempre accesa, nella pura superficie, senza notte e senza giorno. 

Forse non c'impegniamo in una domanda semplice se ci chiediamo che cosa vuol dire offrire alla luce mediatica, quasi nella diretta di un reality, ciò che in fondo rappresenta l'intimità per eccellenza: una malattia, una sofferenza, un patimento, una lunga agonia; che cosa può voler dire cioè esporre tutto questo in una luce pubblica, senza riservarsi nulla. Senza far riserva di nulla. Forse non è una domanda troppo scontata se ci chiediamo cosa cambia, se cambia, nella natura del morire, se persino la morte sembra perdere ogni intimità e ogni segreto. 

 

Jade non ha fatto altro che portare alle estreme conseguenze quanto accade ormai quasi normalmente, quotidianamente, nel mondo multimediale: una pulsione, un desiderio, un'inclinazione, è difficile dirlo, spinge tantissimi uomini e donne a svuotare il proprio spazio e tempo interiore, la propria privacy, dinanzi a tutti. La rete ha amplificato questo desiderio, fino al punto che tutto ciò che ci capita, in particolare quanto accade nelle sfere della nostra privatezza, una passeggiata sulle rive di un lago, in montagna, nella penombra di un bosco, ma anche un gesto affettuoso, una carezza, un abbraccio, ha come ambizione suprema di finire nella circolazione mediatica. Questo accade sempre più diffusamente e non siamo ancora in grado di capire pienamente come stia cambiando la natura del confine tra le sfere del pubblico e le sfere del privato. Del resto, questa vocazione all'esposizione di sé nella rete a sua volta è coerente con una nuova  possibilità con la quale tutti dobbiamo fare i conti, la possibilità costante cioè di trovarci  sotto scorta, sotto sorveglianza, nella vigilanza di un occhio elettronico, tracciabili ad ogni passaggio , impossibilitati a nasconderci dall'occhio divino di un satellite, da Google, e dalla rete, o più semplicemente da una videocamera. Non basteranno le legislazione di tutela per impedire tutto questo. Anzi dovremo abituarci all'idea che la rete sarà sempre più il luogo nel quale il mondo delle privacy saranno violate e soprattutto vorranno essere violate. Dovremo convincerci che il telos più profondo della rete prima o poi si esprimerà nel tentativo di mettere in circolo i pensieri e i vissuti degli utenti connessi. Di connettersi alla loro connessione. Il che vorrebbe dire: connettersi  in una condizione nella quale non si potrebbe fare un passo indietro rispetto a ciò che si rappresenta. Senza la maschera in cui celarsi in un certo segreto. Tutto ciò è ancora molto lontano ma non sarebbe una inutile fatica per la stessa filosofia tentare di orientarsi in un universo che perde sempre di più alcuni dei tratti che hanno segnato una lunga tradizione. Forse non è una fatica vana chiedersi che ne sarà di un soggetto a cui verrebbe impedito di esporsi dietro la sua maschera, un soggetto che avrebbe una nudità ma non avrebbe pudore, potrebbe mentire solo esponendo la sua menzogna. Ora, se tutto questo è ancora nell'ordine dell'inverosimile e quindi è bene restare cauti e prudenti, una solida realtà è la progressiva decomposizione delle sfere della privatezza di cui innumerevoli reality televisivi sono testimonianza. Jade ha partecipato da protagonista a uno di questi; proprio il più invasivo di tutti. La formula come si sa prevede che si viva insieme, in uno spazio relativamente ristretto, con la certezza che tutto ciò che si fa, che si dice e si esprime sia esposto alla curiosità più o meno morbosa di innumerevoli altri. Di giorno e di notte. Quindi senza una vera e propria notte e in qualche modo senza possibilità di dormire. Levinas forse direbbe nell'insonnia ossessiva dell'il ya. Forse non siamo ancora in grado di orientarci nel giusto modo in questa realtà del contemporaneo. Siamo in difficoltà a capire sia le spinte di fondo che conducono verso un'esposizione di sé in cui si rivelano o si svelano i propri recessi con la stessa tranquillità con cui i corpi si denudano e si tolgono i veli (certe performances di corpi nudi a cui alcuni artisti hanno affidato di recente il loro messaggio rientrerebbero in questa spinta), sia le conseguenze che questo ha nelle forme delle soggettività che si vanno affermando. Quello che sappiamo con una certa sicurezza è che le sfere della privatezza, della privacy, la possibilità di esporsi nel cono d'ombra di una certa ritrazione accompagnano lo sviluppo della modernità è concorrono insieme a tutte le profondità (profondità dello spazio e profondità dei tempi) a definire i tratti di una civiltà il cui declino incomincia lentamente dentro controspinte formidabile agli inizi del XX° secolo. 

 

Stiamo ora attenti. Se una madre fosse il modello del sacrificio eroico nel momento in cui offre la propria vita per suo figlio, se questo fosse la misura per un giudizio su Jade, dovremmo mettere nel conto un contro effetto a suo modo inevitabile per ogni sacrificio in nome di colui che amiamo in modo esclusivo: tutto ciò che si è donato per lui  non potrebbe colmare tutto ciò che non si è donato a chi non è stato nostro figlio, nostro fratello, nostro amico esclusivo. 

Basterebbe questo esempio per restare prudenti nel momento in cui si parla di offerta o di sacrificio, e non precipitare in un giudizio affrettato su Jade o di una certa esperienza di cui può essere l'emblema. 

Prudentemente possiamo dire però che non si può donare davvero se in qualche modo non si compie un atto di disappropriazione verso di sé.  

Una parte della filosofia morale del nostro tempo in vario modo, per strade diverse, insiste giustamente su questo aspetto. Anche se non è molto chiaro che cosa significhi in fondo una disappropriazione, si parla diffusamente e con impegno di ospitalità, di un'intenzionalità aperta che non escluda l'altro dal luogo che io stesso occupo, e che si occupa inevitabilmente e fatalmente a partire da ciò che innanzitutto ci è piùproprio. Quindi è naturale lavorare sul proprio, chiedersi che cosa effettivamente esso sia, come ci riguardi e per quali vincoli si imponga. Non è un caso che una ricerca così serrata abbia portato alcune filosofie ad interrogare in modo nuovo la grande questione dell'essere-per-la morte di Martin Heidegger. In fondo è a partire da una certa proprietà del morire che il Dasein è richiamato e in qualche modo eletto in una certa destinazione. Poiché nessuno muore al mio posto, poiché morire mi riguarda più di ogni altra cosa, dal mio morire ricavo un'inespropriabile proprietà di me. Come se il pronome possessivo che il se stesso pronuncia, proprio nel limite della sua finitudine, fosse uno strano dono di una morte impossibile da condividere. Uno strano dono perché nel suo movimento, nel segreto che stabilisce, nel limite di un segreto inappropriabile, rende impossibile proprio ciò che una parte della ricerca filosofica ritiene indispensabile per un gesto di donalità e cioè una qualche disappropriazione di sé. Come se nell'angoscia della propria morte, nello stesso momento in cui diventa chiaro che non si tratta di una paura, l'ospitalità di un altro, per un altro, diventasse impossibile.

Se c'è qualcosa di emblematico nella vicenda di Jade riguarda un certo morire dell'angoscia del morire in una società nella quale ogni cosa tende a sottrarsi dalla copertura di un qualche velo. Certo è difficile dirlo, e siamo nell'azzardo, tuttavia Jade Goody nel momento in cui mette in scena l'anticipazione della sua morte e la espone denudandola di ogni privatezza, può aver avuto molta paura di morire ma non angoscia. L'angoscia avrebbe reso impossibile la pubblicità della sua morte o viceversa la pubblicità della sua morte avrebbe reso  impossibile l'angoscia. Dobbiamo convincerci che da tempo l'esperienza del morire, almeno quel morire che tanto bene Heidegger nella sua prima grande opera ha documentato, sta cambiando, e se incominciamo a sapere qualcosa di più sui rischi di una finitudine che può esaltarsi nel privilegio di un'elezione siamo ancora lontanissimi dal capire che cosa accadrebbe in un soggetto disappropriato del suo stesso morire. Possiamo supporre dei pericoli nuovi e di altra natura rispetto a quelli che conosciamo. Ma bisogna stare attenti anche a non lasciarsi travolgere dal pessimismo, spesso presuntuoso e inutile. 

Che la nostra società possa alleggerire il senso del morire, che possa persino vivere senza doversi destare nella sua finitudine, non necessariamente conduce al cinismo di una vita onnipotente. Questo è possibile, e infatti accade con una frequenza che impressiona, ma si dà forse anche un'altra possibilità. Al tramonto di una certa angoscia del morire la nostra intenzionalità può essere più ospitale, e diventiamo forse anche forse più capaci di separare alla radice il male di sofferenza dal male morale. Come ci ha spiegato Ricoeur questa è la condizione per abbandonare definitivamente ogni teodicea e ogni ontometafisica e pensare altrimenti. 

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