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Enrico Berlinguer:

alla ricerca oggi di una politica pulita, alta, utile.

di Walter Tocci*

Parlando di Berlinguer bisogna aggrapparsi alla sedia per resistere ai sentimenti che ci portano via dal discorso. Occorre rimanere svegli per non farsi incantare dalla memoria ingannatrice che dei tempi andati nasconde sempre gli affanni e riporta alla luce solo le passioni. Ecco la difficoltà: non farsi prendere dalla nostalgia, rimanere all’oggi, ai nostri compiti e alle nostre responsabilità.

Perché siamo qui a parlare di Berlinguer? È lui che viene a noi o siamo noi che andiamo verso di lui? I due movimenti coesistono.

C’è una pienezza di Berlinguer che trabocca il suo tempo e arriva a noi e ci rinfresca. C’è una penuria nostra che spinge a ricordare, a fare esodo dal nostro tempo, come il nomade che cerca l’acqua nel deserto.

Allora la domanda diventa più precisa. Perché proprio oggi parliamo di Berlinguer? Nei primi dieci anni dopo la sua morte fu dimenticato, anzi il suo ricordo venne rimosso. Poi, lentamente crebbe di intensità fino a questo Venticinquesimo ricco di celebrazioni. Un quarto di secolo ci divide da lui. È accaduto di tutto: il Novecento è finito, il comunismo ha fallito, i partiti che fecero la Repubblica sono stati travolti. Proprio perché quel suo mondo non esiste più, la sua figura si ingigantisce. Un gigante, nani quelli venuti dopo di lui.

 

Eppure, bisogna ricordarlo sinceramente, le sue strategie politiche, il compromesso storico e l’alternativa democratica, furono entrambe sconfitte. Qualsiasi uomo politico sarebbe stato dimenticato in seguito a quel doppio smacco e invece siamo qui a parlarne. Perfino nel suo stile c’era qualcosa che andava oltre. Mi è capitato in questi giorni di rileggere i suoi discorsi che suscitano sempre riflessioni razionali, poi però capita di vedere un video con la sua voce e il suo volto e allora il fascino della persona vince su tutto il resto.

C’è un di più di Berlinguer, c’è una persona che va oltre il suo pensiero, va oltre la sua opera, va oltre il suo tempo. Rubo le parole a Mario Tronti per spiegarmi meglio: «Si conoscono bene solo gli uomini che non sono niente di diverso da quello che appaiono. Per chi possiede un di più di vita interiore la comprensione è lenta e lunga, e soprattutto postuma». Questo di più è l’alterità di Berlinguer. Sì, la parola appropriata è «alterità», l’unica in grado di rompere gli stereotipi che gli sono stati attribuiti. Alterità è infatti l’opposto di identità. Se la sua memoria fosse ridotta a una statua dell’identità comunista sarebbe già stata travolta dalla storia. Alterità non è neppure da confondersi con diversità. La diversità è una mera contrapposizione all’altro. L’alterità è andare oltre, è trascendere l’altro. Per questo rimane attuale oltre il suo tempo. Infine, l’alterità spiega anche la persona, con il doppio senso della parola che significa anche fierezza e coglie quel senso di nobiltà del suo tratto umano. L’alterità è la dimensione in cui vibrano come un diapason quei termini apparentemente antitetici che caratterizzano lo stile e gli ideali di Berlinguer: italiano e antitaliano; politico e, si direbbe oggi, antipolitico; rivoluzionario e conservatore; aristocratico e popolare; comunista e democratico; utopista e realista. Questa forza morale e politica supera il suo tempo e viene verso di noi.

 

Rimane da capire l’altro movimento che porta noi verso il suo ricordo. Che cosa ci manca? Che cosa cerchiamo? Cerchiamo la politica come l’intendeva Berlinguer. Cerchiamo la politica pulita, alta, utile. Qui si inserisce la «questione morale» di cui parla il titolo di questo convegno. Per Berlinguer essa non è solo una questione riguardante lo Stato e le sue regole, non è solo un tema cruciale per tutelare i diritti dei cittadini, ma è prima di tutto una condizione di possibilità della politica. Per molti della mia generazione fu importante non solo la famosa intervista a Scalfari, ma in particolare un saggio che pubblicò nel dicembre 1982 su «Rinascita», Rinnovamento della politica e rinnovamento del Pci, nel quale indicava la questione morale come «la premessa indispensabile per poter riavviare qualcosa di serio, di pulito, di nuovo nella vita politica italiana» e poi aggiungeva una frase che oggi noi faticheremmo a pronunciare «e noi sentiamo l’orgoglio di rappresentare questa speranza per il popolo e per la nazione».

Noi, militanti ed elettori di sinistra, cerchiamo da tanto tempo questa politica pulita, alta e utile. Da quando Berlinguer non c’è più abbiamo faticato a trovarla. Talvolta un evento ci dava l’impressione di essere vicini alla meta, ma poi si rivelava una delusione. Così fu nell’Ottantanove con la svolta, quando sia i favorevoli sia i contrari credettero, pur con obiettivi diversi, di aver trovato un nuovo modo di fare politica, ma presto si accorsero di aver conservato tutti i difetti del vecchio partito e di averne smarrito rapidamente le virtù. E poi nel ’96 con le belle bandiere dell’Ulivo, ben presto ammainate a causa delle lotte di potere nello stato maggiore. E infine nelle primarie di Prodi e di Veltroni, ben presto oscurate da un ceto politico autoreferenziale. Dopo Berlinguer sono state tante le speranze deluse. L’elettorato di sinistra è come una carovana nel deserto, ogni tanto crede di trovare dietro quella duna un corso d’acqua, ma quando arriva sul posto lo trova secco. Per questo la carovana si è sfiancata, si è sfilacciata; ma ha dovuto anche aguzzare l’ingegno, si è abituata a fare da sola, senza guide sicure. La risorsa migliore della sinistra italiana è il suo elettorato intelligente ed esigente. Spesso ha risolto la partita già persa dai suoi leader. Salvò la Costituzione nel 2006 mentre molti politici cincischiavano con le riforme istituzionali. Poi portò 19 milioni di voti nonostante la campagna elettorale tafaziana dei suoi capi. Infine, ha dimostrato di credere al Partito democratico più del ceto politico che pure l’ha promosso. E anche stavolta ha detto cose chiare: ha premiato i candidati più freschi, mostrandosi freddo verso quelli più consumati. Soprattutto ci ha fatto mancare i voti nelle città dove i nostri amministratori avevano dato il cattivo esempio.

Dispiace sempre perdere i voti, ma mettiamola così, in quei casi è anche una fortuna. Significa che il nostro elettorato non è rassegnato, ci chiede pulizia, continua a indignarsi per la questione morale, è esigente con i suoi candidati.

Questa severità degli elettori dobbiamo considerarla una fortuna per la sinistra. È una risorsa per la sua politica. Al contrario, per la destra è una debolezza, non una forza, che i suoi candidati aumentino le preferenze quando compiono le malefatte, proprio come accade al suo capo indiscusso. Verrà giorno in cui la destra italiana si renderà conto di quanti prezzi ha dovuto pagare per essersi messa nelle mani di un impostore.

C’è una forza civile dell’elettorato di sinistra che sposterebbe le montagne se ci fosse un partito capace di organizzarla. Vincerebbe anche le battaglie più difficili, perfino quella della sicurezza che sembra ineluttabilmente portare a destra.

Oggi con il voto di fiducia è stata approvata la legge sulle intercettazioni telefoniche. Per nascondere le relazioni pericolose di Berlusconi si lasciano a piede libero migliaia di delinquenti. Dovremmo lavorare solo su questo nelle prossime settimane, chiedendo aiuto alla nostra gente per chiarire il problema a tutti gli italiani e per demolire con un colpo solo tutta la propaganda della destra sulla sicurezza. Nel contempo dobbiamo dire ad alta voce che l’Italia è un Paese civile, che la democrazia qui ci è costata sangue, che è intollerabile negare l’assistenza sanitaria o l’istruzione a una persona solo perché è senza permesso o strappare il figlio dalle braccia di una madre solo perché non ha un certificato in tasca.

La destra ha vinto in economia, in politica e nella comunicazione e oggi punta a vincere nel senso comune, nella volgarizzazione della vita pubblica e nella limitazione dei diritti. È in gioco non solo l’amministrazione della cosa pubblica, ma il rango civile dell’Italia del futuro. La sinistra non sempre ha accettato la sfida sul terreno culturale, ha ritenuto ormai consolidato il primato dei valori democratici, talvolta ha rimosso il pericolo e qualcuno è anche corso a dare ragione agli avversari. Certo che poi i sondaggi danno ragione a loro. Dobbiamo raccogliere il guanto di sfida per la qualità della nostra democrazia. Ma questa battaglia non si fa a suon di comunicati stampa e talk show, si può vincerla solo utilizzando l’asso nella manica, coinvolgendo appieno la forza civile del nostro elettorato. Molti elettori sarebbero ben felici di corrispondere alla richiesta di aiuto, di non ricevere solo appelli alla mobilitazione contro il pericolo Berlusconi a ridosso delle elezioni, ma di essere impegnati tutti i giorni in un’azione politica e culturale per prosciugare l’area di consenso della peggiore destra europea. Per questo ci vuole un partito vero. Quale? Certo non quello dei sondaggi, delle preferenze e dei personalismi. Serve un partito che contribuisca a organizzare la democrazia. E qui torna in mente Berlinguer quando invitava, nello stesso articolo di «Rinascita», a rinnovare il suo partito per farne un’organizzazione «a diretto contatto con la gente per aiutarla e

ragionare, a organizzarsi, e a lottare». Poteva sembrare inutile quell’appello rivolto a un partito di massa che si poteva ritenere già possedesse quelle qualità.

Perché allora insistere su questo da parte del Segretario?

 

Perché addirittura usare quella parola «gente» oggi usurpata dalla destra? Perché la sottolineatura di un partito che «aiuta» a organizzare e non fa tutto da solo? Berlinguer avvertiva la fine dei partiti come organizzatori della democrazia. Con la questione morale denunciava le distorsioni degli altri, ma il vigore della denuncia era rivolto anche all’interno del Pci dei primi anni Ottanta, dove cominciavano a sentirsi i primi scricchiolii. Egli voleva salvare il suo partito dal declino dei partiti che avevano fatto la Costituzione. Presagiva

con lucidità la crisi storica della Prima Repubblica. Solo un altro uomo politico italiano, da un’altra sponda ebbe una percezione altrettanto lucida delle conseguenze che ne sarebbero scaturite: era Aldo Moro. Ci vorrebbe la forza storiografica di un Plutarco per scrivere le biografie parallele di Enrico Berlinguer e Aldo Moro. Entrambi capirono in anticipo che la fine dei vecchi partiti avrebbe creato una frattura tra popolo e classi dirigenti e che ciò avrebbe reso ancora più «difficile», per usare un termine moroteo, la democrazia italiana, che tutto ciò avrebbe riesumato una debolezza storica della statualità italiana, formatasi nel Risorgimento e anche prima, rispetto alla quale il primo trentennio repubblicano, oggi si vede più chiaramente, è stato una positiva parentesi. Sono stati due profeti. È andata proprio così. La terza fase di Moro e la seconda tappa della rivoluzione democratica di Berlinguer sono rimaste profezie sconfitte, questo è il filo interpretativo per comprendere la vicenda italiana, come ha sottolineato Alfredo Reichlin nella commemorazione alla Camera dei deputati. A causa di quelle sconfitte la frattura tra popolo e classi dirigenti è rimasta irrisolta per un trentennio e si è addirittura allargata ai giorni nostri. Con una differenza fondamentale, però: la destra ha trovato il modo per ricomporla mediante il cortocircuito tra l’imperatore e i sudditi, il populismo di Berlusconi. Alla sinistra invece è risultata fatale la mancanza di un partito vero.

Qui è il punto più esposto alla nostalgia e ci vuole maggiore cautela per non cadervi. Sono irripetibili i vecchi partiti di massa. Quel modello funzionava nelle determinate condizioni storiche e sociali del dopoguerra, ma oggi è tutto diverso. Il vuoto è stato riempito da una forma spuria di partiti, cresciuta lentamente e quasi inconsapevolmente, senza che se ne parlasse in qualche congresso. Non è stata descritta in modo approfondito dalla pubblicistica corrente e perfino l’analisi politologica ne ha dato un’interpretazione

generica con la formula del partito-pigliatutto. Dovremmo andare più in profondità per capire cosa sono diventati realmente i partiti, quanto questa stessa parola sia diventata fuorviante poiché allude al vecchio modello pur denotando una realtà quasi opposta.

La forma dei partiti ormai assomiglia all’organizzazione in franchising delle reti di vendita delle agenzie immobiliari. Entrando in un negozio di Tecnocasa o di Toscano si tratta con un rivenditore locale, ma si ha l’impressione di entrare in contatto con un’azienda nazionale più affidabile. Anche i partiti in franchising sono tenuti insieme dal simbolo e da leader televisivi, pur essendo ormai costituiti da notabili locali dotati di una forza elettorale personale che spesso trasportano da una lista elettorale all’altra. Questa forma politica costituisce il brodo di coltura per la questione morale. Ma, anche se non ci fosse il malaffare, essa sarebbe comunque devastante per i compiti e le responsabilità della sinistra. I partiti in franchising sono adatti ad attrarre clienti, non i cittadini; curano lo scambio locale, ma rimangono indifferenti ai progetti politici; mantengono il ceto politico, non selezionano la classe dirigente. Tale forma ha sostituito il vecchio partito di massa e si è consolidata con la lunga mutazione del trentennio. Per la prima volta con le primarie è apparsa all’orizzonte una soluzione diversa al problema. Sono state confuse con una mera procedura elettorale e invece costituivano un paradigma per ripensare in termini moderni una forza politica a insediamento popolare, l’unico possibile dopo il Novecento e in una società frammentata. A quei tre milioni e mezzo di cittadini che avevano mostrato la disponibilità a spendere un’ora del proprio tempo bisognava dire dopo poche settimane a quale porta dovevano bussare, quale telefono chiamare, quale militante cercare e invece si sono perfino smarriti gli elenchi. Il Partito democratico poteva essere come un’enorme banca

del tempo in cui il cittadino investe un’ora e ottiene in cambio una politica per il futuro civile del Paese. Sarebbe stata un’esperienza nuova di partecipazione politica, ma comportava lo smantellamento del partito in franchising e non c’è

stata la forza o la volontà di farlo.

Il Pd ha perso milioni di voti perché ha salvaguardato i suoi notabilati e ha mortificato il popolo delle primarie. Ma non c’è soluzione se non si riparte da lì. Il partito dei tre milioni di sostenitori è l’unica via per ricostruire nell’Italia di oggi una forma inedita di forza politica popolare. Questa è anzi la risposta che possiamo dare al problema che assillava Berlinguer dei partiti organizzatori della democrazia. Attenzione, il problema è lo stesso, ma la soluzione è diversa,

le scelte sono nostre e non possiamo metterle sulle spalle di Berlinguer. C’è una cesura storico-politica tra il vecchio partito di massa e il moderno partito democratico e possiamo indicarla con un’immagine. Nei primi trent’anni della Repubblica l’Italia è salita sul tetto della democrazia passando per la scala esterna delle grandi ideologie novecentesche. Siamo diventati democratici passando per essere comunisti, socialisti e democristiani. Nei secondi trent’anni

non siamo mai riusciti a passare per la scala interna di una matura democrazia costituita da regole condivise, dalla qualità dello Stato, da istituzioni solide, dalla diffusione della cultura civile. Su questa mancanza è cresciuto il berlusconismo, apparendo come l’unica soluzione in campo. La democrazia lascia liberi anche i suoi nemici di organizzarsi. Molti dittatori hanno vinto inizialmente con regole democratiche. Ma allo stesso tempo la democrazia coltiva le risorse per la propria crescita. E la sua qualità è il risultato di questo tiro alla fune tra forze contrapposte. Negli anni Berlinguer un grande saggio come Norberto Bobbio definiva una promessa non mantenuta della democrazia

proprio l’incipiente difficoltà di autorigenerarsi. Per risolvere questo problema storico-politico della Repubblica avevamo fondato il Partito democratico.

Perché lo abbiamo chiamato «democratico»? Perché non avevamo altro da dire? Perché volevamo solo delimitare il campo postideologico? No, il termine «democratico» ha un significato costruttivo in quanto si propone di migliorare la qualità della democrazia italiana, cioè di trovare le scale interne per il suo innalzamento, di saper coltivare le risorse per la sua crescita. Non ci siamo ancora riusciti, dopo le sconfitte sembra anzi quasi impossibile, ma rimane una necessità per l’Italia. La nuda necessità può vincere sull’apparente impossibilità.

È ancora nelle nostre mani il futuro del Pd. È il tema del prossimo congresso.

Sarebbe stato preso per pazzo colui che avesse detto, non più di due anni fa, a un democratico americano che il suo presidente sarebbe andato a Il Cairo a dire che «l’Islam è parte integrante dell’America». Eppure, come si vede oggi

era una profonda necessità degli Usa. Da quando Berlinguer non c’è più, gli elettori di sinistra sono spesso andati a votare con una certa insoddisfazione, tranne alcune belle eccezioni, si sono dovuti mobilitare più per sventare pericoli che per sostenere un progetto. Questa condizione esistenziale è stata rappresentata nel film di Riondino, lo abbiamo visto all’inizio del convegno, con l’immagine surreale di Berlinguer che piange, ma poi subito dopo nel video c’è quella scena, nella quale risponde a un’intervista di Minoli confessando quanto lo disturba l’attributo di uomo triste e nel dirlo prorompe in un sorriso timido e improvviso, l’immagine più cara di lui che conservano quelli della mia generazione. Ci vorrebbe un partito capace di suscitare anche nell’elettorato di sinistra quell’improvviso sorriso. !

 

*In collaborazione con la r

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