top of page

Ancora sull’Università

(una modesta proposta)

di Mauro Visentin

Da qualche settimana l’università è sotto accusa. Il governo, dopo aver introdotto con la legge 133 significativi tagli al fondo di funzionamento ordinario che alimenta le casse degli atenei italiani dal prossimo anno a seguire in modo sempre più accentuato (si parte da una decurtazione di 63,5 milioni nel 2009, per arrivare a 455 milioni nel 2013, a regime), si è trovato a dover fronteggiare una levata di scudi imprevedibilmente massiccia e unitaria, che ha coinvolto studenti e docenti, forse mai prima d’ora così concordi. Ed è corso ai ripari. Come tutti quelli che non hanno una coscienza proprio limpida e specchiata, l’attuale maggioranza ha iniziato a difendersi attaccando. E ha subito trovato una facile sponda nella diffusa abitudine giornalistica di criticare tutto e tutti (salvo se stessi), facendo appello alle migliori risorse della demagogia italica (trans- e cispadana, per una volta unite e convergenti). Professori incapaci e impreparati, con pochissimo appeal all’estero – cioè quell’eldorado dove, com’è noto ad ogni italiano che si rispetti, regnano sovrane l’incorruttibilità, la meritocrazia, la virtù – (a parte, beninteso, i giovani ricercatori meritevoli, costretti, dalla sordida camorra baronale, all’esilio); un sistema di reclutamento che premia il servilismo e l’ignoranza; una inverosimile proliferazione di sedi e corsi di laurea dai nomi talvolta bizzarri che forniscono competenze insufficienti o inutili; una massa crescente di studenti fuori corso e una spesa decisamente fuori controllo; un assenteismo generalizzato e un livello della ricerca da terzo mondo. La lista potrebbe continuare. Tutto falso? Nemmeno per sogno: tutto (o quasi) in buona misura vero (a parte le iperboli e le esagerazioni volte al perseguimento dell’“effetto”). Ma nulla che si possa curare con i tagli alla spesa. I tagli avrebbero senso se il malato fosse terminale. Ovvero se non ci fossero terapie disponibili per tentare di risollevarlo dal misero stato in cui versa. E’ così? Ebbene, se fosse così bisognerebbe essere onesti fino in fondo e, sfidando il paradosso, rischiare la lapidazione per dire, chiaro e tondo, che allora sarebbe anche del tutto inutile parlare di “riforma”, e che i tagli, di qualunque entità, sarebbero comunque insufficienti: se fosse così meglio tagliare tutto, non solo qualche punto percentuale, e chiuderle, una buona volta, queste università indecorose, mandando i nostri studenti all’estero con il danaro pubblico tanto virtuosamente risparmiato! 

Se però le cose non stanno così, e nonostante tutto l’università italiana è un malato grave ma curabile, i tagli non servono a nulla, o servono soltanto a peggiorare le cose (e magari a coprire i buchi di bilancio che qualche elargizione elettoralmente mirata in settori diversi dalla scuola e dalla formazione è inevitabile che apra). Se l’Italia è (o ritiene di essere) un Paese moderno, in grado di competere con quelli ad essa affini e assimilabili, deve comportarsi come questi ultimi: non deve risparmiare sulla formazione e sulla ricerca, ma spendere di più e meglio. Sul primo punto (spendere di più) dubito che il governo (e in particolare il ministro dell’economia) sia d’accordo. Sul secondo (spendere meglio) chi non sarebbe pronto a consentire? Viva il merito e abbasso il demerito! (come dire: viva il bene e abbasso il male). Senza dubbio, ma come? Ecco, qui le ricette abbondano. Non c’è nessuno che non abbia la sua. Ma ci sono alcune “ricorrenze”. Per esempio, i professori stranieri nelle commissioni di concorso. Un uovo di Colombo che il provincialismo mai sazio di governanti, giornalisti e docenti anglofoni non si stanca di riproporre. Ora, a costo di apparire baronale, nazionalista, corporativo, insomma un difensore dei privilegi male acquistati della casta accademica, non posso esimermi dall’osservare quanto segue. E in primo luogo che questo metodo (comprensivo di un criterio di valutazione basato sull’ impact factor) va bene, può andar bene (forse), fatta salva la devastante immagine che la ricerca italiana darebbe di sé al di fuori dei nostri confini (ma si può sempre sostenere che questo sia, di fronte alla corruzione dilagante nei concorsi, il male minore), solo per le discipline scientifiche e, in generale, per quelle in cui è diventato ormai corrente l’uso della lingua inglese, visto che un simile uso rende i testi che vengono pubblicati per divulgare gli esiti delle ricerche, di qualunque provenienza e nazionalità siano coloro che li redigono, accessibili a tutta la comunità scientifica internazionale. Ma non va bene, non può andar bene, per le discipline nelle quali, a causa di ragioni che sono indipendenti dalla volontà e dalla solerzia degli studiosi, non può essere utilizzato un simile “esperanto”. Appartengono a quest’ambito la filologia (anche se, nel caso dell’italianistica, l’obiezione non sarebbe dirimente, per il fatto che i – pochi – studiosi stranieri che se ne occupano, l’italiano devono conoscerlo per ragioni professionali), la filosofia (con l’eccezione della logica formale e matematica) la storia, l’archeologia, il diritto. Tutti campi nei quali la produzione scientifica, nella maggior parte dei casi (e, come dicevo, per fondati motivi, visto il legame più intrinseco che in queste discipline l’oggetto stabilisce con la forma dell’esposizione), si presenta sotto la veste di testi redatti nella lingua madre degli autori. Per adottare il metodo tanto caldeggiato nella formazione delle commissioni relative ai concorsi che riguardano le aree disciplinari appena elencate, occorrerebbe rivolgersi sempre ai (pochi) studiosi stranieri che sommano alla competenza scientifica in questi ambiti una buona conoscenza dell’italiano, e dal momento che questi studiosi sono, come è inevitabile, quelli, tra gli stranieri, maggiormente legati all’Italia e ai ricercatori italiani, ne consegue che il risultato finirebbe con l’essere,  si può ritenerlo molto verosimile, più di facciata che di sostanza, almeno riguardo allo scopo che i proponenti l’auspicata riforma si prefiggono, ossia quello di moralizzare i concorsi.

Altro tema ricorrente, il mercato. Mettere, cioè, gli atenei in competizione virtuosa fra loro. Ora, se si accampa questa proposta senza avanzarne altre, significa che, seguendo una tradizione presso di noi sempre molto fiorente, si preferisce appellarsi ad un principio astratto (e spesso ideologico) piuttosto che confrontarsi con la situazione effettiva con cui si ha a che fare. Infatti il mercato è un regolatore efficace solo se l’università è privata, o meglio, quando il sistema universitario come tale è, in massima parte e nelle sue espressioni più eccellenti, non pubblico (come negli Stati Uniti). E questo significa: solo se il titolo di studio che gli atenei rilasciano non ha valore legale, ovvero non è riconosciuto dallo Stato. Ma questa – che è, se si pretende di affidare al mercato la selezione meritocratica fra le diverse università, l’unica proposta seria e coerente – è un’idea avanzata solo, al momento, da qualche “bello spirito” (come Giovanni Sartori e come l’estensore – di cui ignoro il nome – di una proposta di legge in tal senso che mi risulta essere stata già da qualche tempo depositata in Parlamento, non so bene se presso il Senato della Repubblica o la Camera dei deputati). L’ipotesi è avanzata solo da uno sparuto drappello di sostenitori. E se i sostenitori sono così pochi non è per caso ma per ottime ragioni. In linea di principio, sia l’università pubblica sia quella privata hanno i loro pregi e i loro difetti. Mentre si può senz’altro dire che un sistema misto come quello che si è cercato di introdurre (e in parte si è introdotto) da noi con l’autonomia (e ancora di più, se il progetto dell’attuale maggioranza passasse, verrebbe introdotto con la trasformazione degli atenei in fondazioni di diritto privato), cioè, per intenderci, un sistema pubblico che funzioni (o finga di funzionare) privatamente, è, senz’ombra di dubbio, molto peggiore di entrambi gli altri due (nel primo dei quali – ossia quello pubblico – può certo rientrare anche una forma mista in cui il privato funga da erogatore di un servizio che si rivolge alla collettività nazionale e dunque funzioni in modo pubblico e non privato). Vediamo allora di esaminare partitamente, per poterci orientare meglio, i pregi e i difetti di tutte e due le forme “pure” di ordinamento universitario che si sono affermate nel mondo occidentale (quella pubblica che adotta criteri di funzionamento  pubblici e quella privata che funziona privatamente). 

Il sistema privato ha, in linea di principio, due limiti fondamentali. Uno riguarda i costi della formazione che restano a carico dei cittadini e che sono infinitamente più alti di quelli del sistema pubblico. Con la conseguenza di risultare un modello di formazione superiore molto squilibrato dal punto di vista dell’equità sociale. L’altro concerne la ricerca di base, che è assai meno appetibile, agli occhi di un finanziatore privato, di quella applicata, ma che è imprescindibile per l’avanzamento generale del sapere e che ha (in tempi che non sono, tuttavia, prevedibili con certezza e che possono essere anche molto lunghi) ricadute spesso decisive nel campo stesso della scienza applicata e della tecnica. Si tratta, insomma, di un investimento a lungo raggio, fondamentale ma molto oneroso e dalla rimuneratività non immediata. Dunque, di rischio elevato per chi investe capitali propri e non pubblici. In compenso, il modello statunitense è in grado di fornire, in un relativamente ristretto numero di casi, servizi molto efficienti, strumentazioni d’avanguardia e docenti di fama, garantendo, perciò, a coloro che hanno i mezzi per accedere alle università più prestigiose, un avvenire quasi certamente di successo. Un modello di questo tipo può parzialmente ovviare ai due limiti che ho appena denunciato con un efficiente sistema di borse di studio per i non abbienti meritevoli e per le minoranze etniche, da un lato, e, dall’altro, con una fiscalità fortemente agevolata per chi investe in operazioni culturali di tipo mecenatesco, contribuendo così anche ad indurre comportamenti virtuosi in una larga componente del ceto imprenditoriale, che, infatti, negli Stati Uniti manifesta una propensione ad investire in cultura e ricerca a fondo perduto assai più significativa di quella che si registra da noi in Europa.

     Il sistema pubblico è certamente più equo di quello privato, ma per evitare sprechi e disservizi (tutto ciò che è pubblico – specie in un Paese come l’Italia, contraddistinto da un senso di appartenenza nazionale così flebile da risultare a tratti del tutto sfuggente – viene spesso utilizzato e gestito con grande sciatteria) è necessario che sia sottoposto a vincoli precisi e molto rigidi, il cui rispetto deve essere imposto e tutelato in modo centralistico. Questi vincoli devono avere essenzialmente un obiettivo: evitare che la necessaria autonomia amministrativa (è infatti assurdo che un ateneo debba rivolgersi al ministero dell’università anche per acquistare un temperamatite) si trasformi, in misura progressiva, in autonomia politica (relativa, cioè, a scelte strategiche e di indirizzo riguardo alla formazione e alla ricerca), ovvero ad impedire che, come dicevo prima, l’università pubblica funzioni in modo privato (socializzando gli oneri e privatizzando i ricavi). Il più importante di questi vincoli deve essere affidato al sistema di valutazione. E in proposito occorre affermare con chiarezza un principio, ovvero che un modello di istruzione universitaria a base pubblica non può essere regolato con criteri privatistici, cioè, in altre parole, da meccanismi di mercato. Il mercato, per un sistema di questo tipo è un pessimo regolatore, e non ci vuole molto a capire perché. Abbiamo detto che un sistema pubblico implica (e impone, se si vuole che le parole abbiano un senso) che il titolo rilasciato da ciascun ateneo che ne fa parte (sia esso pubblico o privato) abbia valore legale e riconoscimento giuridico. In tal caso, dovunque conseguito, il titolo è lo stesso e ha lo stesso valore. In un sistema di questo tipo, finanziare le università ricorrendo a criteri come il numero degli studenti iscritti, quello degli studenti in corso o anche quello degli studenti laureati significa fare esattamente il contrario di ciò che tutti riconoscono come necessario, ossia premiare il merito, la virtuosità, l’efficienza degli atenei. Perché? Non ci dovrebbe essere neppure bisogno di chiarirlo, tanto la cosa è evidente: quando l’esito è comunque garantito ed è dovunque lo stesso, il numero affluisce là dove il risultato si consegue con lo sforzo minore. Un regime di erogazione dei fondi basato su questi criteri non potrebbe, pertanto, fare altro che favorire una concorrenza al ribasso, una corsa all’abbassamento del livello di severità e rigore per quanto riguarda la qualità dell’insegnamento impartito e la selettività delle prove da superare per conseguire il titolo. Per questo, come ho già detto, un’università pubblica che funzioni con criteri privati (adottando, cioè, il mercato come regolatore), al di là delle buone intenzioni con le quali da parte di qualcuno si propone convintamente di imboccare questa strada, è il peggiore dei modelli possibili. L’unico modo con il quale, in un sistema di istruzione superiore essenzialmente pubblico, si può validamente misurare l’efficienza degli atenei e la qualità del servizio erogato (in termini di trasmissione del sapere, livello della ricerca e capacità formativa) è quello di conferire ad un’agenzia indipendente il compito di misurare il grado delle competenze in entrata e in uscita, rispettivamente, degli iscritti, dei laureati e degli specializzati di ogni singola università, dando così luogo ad una classifica nazionale, che possa essere resa pubblica e quindi anche accessibile a società e aziende private. Adottando un metodo di valutazione come questo, la competizione fra università statali diventa virtuosa e un sistema di istruzione superiore a base pubblica può presentare livelli di qualità e di efficienza in tutto e per tutto paragonabili a quelli di un sistema a base privata, e per quanto riguarda la ricerca fondamentale perfino più elevati. Il problema, in ogni caso, è scegliere con coerenza, evitando i pasticci e le confusioni: proprio il contrario di quello che, sin qui, si è fatto da noi, da parte di governi di ogni colore. In generale, visto che trapiantare un sistema radicalmente diverso e nato per soddisfare esigenze diverse in un contesto dove tradizioni, abitudini e mentalità non sono conformi ad esso presenta costi elevatissimi e richiede un tempo di rodaggio molto lungo, nel corso del quale sprechi, disagi e inefficienze probabilmente aumenterebbero anziché diminuire, è evidente che, ove questo sia compatibile con un miglioramento significativo degli standard di prestazione che al momento appaiono insoddisfacenti, risulterà preferibile mantenere, migliorandolo, il sistema in vigore piuttosto che sostituirlo con uno completamente nuovo.

     

     In queste settimane, come ricordavo all’inizio, L’università italiana è al centro di uno scontro molto acceso fra studenti e docenti, da una parte, il ministro e la maggioranza che sostiene compattamente il governo, dall’altra. E, come sempre avviene in questi casi, la demagogia e la retorica di cui si serve, per difendersi, soprattutto la signora Gelmini, non lasciano nulla all’immaginazione. Ma le idee di riforma che stanno dietro la cortina fumogena delle battute polemiche e delle rivendicazioni di maniera non sembrano molto limpide. Prendiamo il caso dei concorsi recentemente banditi dopo un blocco durato oltre due anni. Il ministro è intervenuto con decreto, lasciando immutati i bandi (come non si poteva evitare di fare senza ledere i diritti acquisiti delle università che li avevano emessi e dei concorrenti che avevano presentato domanda di partecipazione) ma sospendendo le procedure elettorali per la nomina delle commissioni, in attesa di sostituirle con procedure nuove, di cui sono state rese note le linee guida. In sostanza, si tratta di tornare ad un  meccanismo simile a quello vigente per i concorsi a cattedra quando ancora le commissioni erano nazionali e le procedure delle prove gestite centralmente dal ministero, vale a dire: l’elezione di una rosa di commissari potenziali (pari a tre volte il numero di quelli necessari per comporre le commissioni) e l’estrazione da questa rosa dei commissari effettivi per sorteggio casuale. Quando il meccanismo appena descritto veniva utilizzato per costituire un’unica commissione nazionale per ogni settore scientifico, l’ostacolo, rappresentato dal sorteggio, che veniva opposto in questo modo agli accordi tra i docenti dotati di maggior peso politico all’interno di un raggruppamento disciplinare era facilmente aggirabile per via dei numeri, complessivamente esigui, necessari alla composizione della rosa, oltre che grazie al ferreo controllo che il potere accademico dei suddetti professori era in grado di esercitare sull’elettorato attivo e passivo. Ora che l’espletamento delle procedure concorsuali è stato trasferito, in nome dell’autonomia, dal centro alle periferie e le commissioni sono, per ogni settore scientifico-disciplinare, molteplici (una per ogni bando, ossia per ogni posto disponibile) si tratterebbe di eleggere decine di commissari potenziali per comporre una rosa (anche se, al riguardo, il testo del decreto non è chiaro) che in molti casi (a seconda del numero di docenti presenti nel raggruppamento e del numero di concorsi banditi) potrebbe coincidere con quello di tutti gli ordinari della disciplina o addirittura eccederlo, trasformando il meccanismo di selezione dei commissari in un puro sorteggio.

     E’ una panacea, il sorteggio? Difficile ammetterlo, anche se i consensi che sembra raccogliere al di fuori dell’università potrebbero far pensare che opporsi ad esso sia solo un modo per cercare di conservare un potere di controllo corporativo. Tuttavia, anche a prescindere dal fatto che, per quello che so (ma potrei sbagliarmi), il sistema del puro e semplice sorteggio non viene utilizzato in nessun paese del mondo per nominare i membri delle commissioni esaminatrici dei concorsi universitari, resta che come metodo esso può rappresentare una soluzione solo se diamo per scontato che i docenti con più peso politico-accademico siano anche quelli scientificamente meno attivi o magari quelli meno rispettosi dell’oggettività che deve contraddistinguere ogni scelta in questo campo. Due condizioni, peraltro (in particolare la prima), che è difficile ammettere come indiscutibili visto che, quantunque il controllo di un vasto apparato di potere accademico richieda tempo ed energie che sembrerebbe naturale supporre sottratte all’impegno scientifico, è un fatto incontestabile che ci sono docenti in grado di ottimizzare a tal punto le loro prestazioni (dote che invidio loro sinceramente, io che non so fare più di una cosa alla volta) da riuscire ugualmente bene in entrambi i campi. D’altra parte, se a monte di questa decisione stesse invece il convincimento (che i quotidiani e gli altri mezzi di informazione sembrano al momento molto impegnati a diffondere) secondo cui tanto, comunque, il corpo accademico nel suo insieme è composto solo da individui screditati e di infimo livello morale, non si vede come un sistema fondato sul sorteggio potrebbe cambiare le cose, essendo evidente, se la premessa è questa, che in ogni caso la scelta avverrebbe secondo criteri eccepibili.

 

     A questo punto vorrei avanzare, tenendo fede all’impegno cui allude il sottotitolo di questo intervento, una (modesta) proposta. Non senza, tuttavia, avere, prima, chiarito alcuni presupposti che mi sembra non si possano, responsabilmente, ignorare (anche perché, piaccia o no, ignorarli non serve a nulla, solo a non tener conto della realtà). Punto primo: dovunque, in entrambi gli emisferi e sotto tutte le latitudini, il sistema di reclutamento universitario è fondato su base cooptativa. Il che vuol dire una cosa semplicissima, ossia che i futuri professori universitari non possono essere scelti che dagli attuali professori universitari. Punto secondo: i professori universitari di uno stesso ambito disciplinare sono legati tra loro dai vincoli più diversi (amicizia, discepolato, favori accademici fatti o ricevuti – nulla di scandaloso; penso a cose come: un trasferimento, la chiamata in una sede più comoda o prestigiosa, il sostegno nel concorso che li ha fatti diventare quello che sono o il sostegno offerto ad un loro candidato e così via). Punto terzo: il fatto che un docente abbia un allievo non significa, necessariamente che quest’ultimo sia un portaborse o un maggiordomo, puòsignificare anche che il primo lo stima e ha visto ed apprezzato in lui doti e qualità che non ha riscontrato in altri; se lo appoggerà in un concorso, pertanto, non farà nulla di illecito, ma cercherà di fare il suo mestiere, che è (o dovrebbe essere) promuovere il merito là dove egli lo individua e riconosce con onestà e in buona fede (abbia poi torto o ragione rispetto al giudizio di altri docenti che la pensano diversamente da lui: la divergenza delle valutazioni, per alcune materie in particolare, dove l’oggettività dei valori scientifici è assai meno parametrabile che in altre, è un fenomeno fisiologico). Se le cose stanno così (e chiunque conosca un poco l’università, non solo italiana, sa che stanno proprio così, ovunque), è evidente che un sistema di reclutamento perfetto non potrà mai essere trovato, come pure che la situazione descritta, anche se non comporta necessariamente scelte arbitrarie e partigiane è esposta a questa possibilità in modo strutturale. Di conseguenza, il miglior sistema di reclutamento è quello che, senza proporsi l’obiettivo irrealizzabile di annullare questo margine di arbitrarietà e partigianeria, miri a contenerlo entro limiti che siano il più possibile ristretti e vincolanti. 

     Credo che la prima cosa da fare per mettere a punto un meccanismo del genere sia abolire le idoneità. Un sistema che si è rivelato pessimo, perché nella sua prima applicazione, quando le idoneità disponibili per ogni concorso erano tre (ma anche in seguito, quando sono state ridotte a due), ha favorito il loro impiego come moneta di scambio negli accordi tra i commissari. Tuttavia anche nella sua ultima versione (una sola idoneità) il sistema è sbagliato, in quanto, comunque, sancisce il diritto dell’ateneo che ha bandito il concorso a chiamare oppure no l’idoneo a seconda della sua convenienza (in questi casi si chiama l’idoneo solo se è un docente strutturato nella sede banditrice, ossia un “interno”, altrimenti non lo si chiama e si mantiene la disponibilità del budget per ribandire quanto prima, nella speranza che l’“interno” venga questa volta idoneizzato, o per “chiamarlo”, nel caso ottenesse una idoneità esterna). Tutto questo, con la delocalizzazione dei concorsi e con l’autonomia degli atenei, che ha assegnato alle singole sedi la competenza finanziaria relativa alla retribuzione del corpo docente, ha favorito un processo degenerativo abnorme, per cui si è iniziato a parlare, neppure tanto velatamente, di qualcosa di cui non si dovrebbe affatto poter parlare in modo legittimo, all’interno dell’università, ossia degli “avanzamenti di carriera” dei docenti non ancora giunti all’ordinariato. Non si dovrebbe poter parlare legittimamente di una cosa del genere perché in Italia non esiste alcun “carriera” universitaria: i concorsi sono liberi, nel senso che non è necessario, per esempio, essere un professore associato per poter concorrere ad un posto di ordinario (o un ricercatore per poter concorrere ad un posto di associato): l’unico requisito richiesto è quello rappresentato da una produzione scientifica adeguata e congruente con il livello accademico del posto per il quale si concorre. La logica dei concorsi “riservati” è sempre stata deleteria per il sistema universitario, dal momento che ha sempre finito col favorire la stabilizzazione e i cosiddetti diritti acquisiti di coloro che, ad un qualsiasi titolo (spesso senza alcuna vera verifica del proprio livello scientifico, basti pensare ai professori incaricati di un tempo, in particolare quelli che insegnavano nelle sedi periferiche, per non parlare di quelli che prestavano la loro opera nelle “libere università”, poi statalizzate) si trovavano a impartire un insegnamento pubblico senza possedere il ruolo richiesto a tal fine, ruolo cui dà infatti accesso e diritto solo il superamento di una prova concorsuale. I “diritti acquisiti” sono certo degni di riconoscimento in un Paese giuridicamente evoluto dove non regni l’arbitrio, ma nell’università, dove l’unico criterio deve essere il merito scientifico, essi dovrebbero essere ininfluenti. Considero una ricchezza del nostro sistema di istruzione universitaria il fatto che, almeno in linea di principio, a qualsiasi grado di docenza, l’insegnamento sia accessibile a tutti coloro che, anche stando al di fuori dell’accademia, si siano distinti per operosità e risultati ottenuti nella ricerca.

    Per ottenere che i concorsi universitari tornino ad essere anche di fatto ciò che giuridicamente non hanno mai cessato di essere, ossia concorsi liberi e aperti a tutti, non riservati a chi già ne ha vinti di livello inferiore, non basta, però, eliminare il sistema perverso delle idoneità: occorre anche togliere alle singole sedi l’alibi rappresentato dal risparmio che l’“avanzamento di carriera” di un “interno” consente ad esse di realizzare. Giacché un “interno” che, per esempio, da associato diventi ordinario ha, da questo punto di vista, rispetto ad un “esterno”, il vantaggio di costare di meno (ovvero di costare, alla sede banditrice nel cui organico egli è già incardinato, il solo differenziale retributivo intercorrente tra i due livelli di docenza – visto che lo stipendio di associato gli viene già corrisposto – e non l’intera retribuzione). La soluzione è una sola, semplice ed efficace (ed infatti già efficacemente sperimentata da altri sistemi universitari europei come, ad esempio, il tedesco): quella di impedire che un docente “interno” possa prendere parte – sia, in primo luogo, come candidato, sia anche, secondariamente come commissario esterno – al concorso bandito, per il suo raggruppamento disciplinare, dalla sede universitaria alla quale appartiene.

     So che questa ipotesi è molto osteggiata nell’ambiente accademico. Proprio questo prova, a mio avviso, che la sua attuazione inciderebbe realmente e in modo virtuoso sugli assetti di questo ambiente: occorre rendersi conto del fatto che chi vuole davvero migliorare le cose non deve affidarsi alla speranza che i comportamenti individuali si adeguino spontaneamente alle esigenze dell’interesse collettivo, ma deve introdurre regole che inducano, con il tempo, i comportamenti individuali a non tentare di eludere queste esigenze, obiettivo che si può realizzare solo facendo in modo che simili tentativi risultino, il più delle volte, inutili: sono le buone regole che educano i singoli e li spingono ad assumere comportamenti socialmente virtuosi, e le buone regole sono quelle che meglio provvedono all’interesse generale e che, allo stesso tempo sono meno facilmente aggirabili. Quella che suggerisco di introdurre nel nostro sistema concorsuale universitario presenta entrambi questi vantaggi. E’ infatti difficile da eludere (anche se eluderla non è, naturalmente, del tutto impossibile), perché l’unico modo di farlo sarebbe quello di allestire uno “scambio” fra due atenei, che dovrebbero trovarsi in condizioni simili, avendo entrambi i requisiti oggi richiesti per bandire un posto nella stessa disciplina e nella stessa fascia di docenza, e che – per dare vita alle due commissioni, dal cui giudizio dovrebbe risultare l’affermazione dei rispettivi candidati “interni”, ciascuno nel concorso bandito dalla sede non sua – dovrebbero anche poter gestire l’elezione di almeno otto docenti di quel settore, disponendo di un unico posto assegnabile, e per di più obbligatoriamente destinato al vincitore, chiunque egli fosse (cosa che potrebbe, volendo, essere ulteriormente complicata da un metodo di selezione dei commissari che preveda anche un sorteggio). Inoltre, non si potrebbe procedere allo scambio se non dopo un periodo di tre anni almeno (durante lo straordinariato i professori non sono trasferibili), senza contare che le norme sui trasferimenti potrebbero essere modificate in senso restrittivo, impedendo che il “ritorno” nella sede di provenienza possa essere ottenuto prima di un congruo numero di anni. E’, dunque, un meccanismo che ostacola in modo significativo i giochi di potere e di interesse, rendendo i loro risultati incerti e difficilmente programmabili per l’imponderabilità delle molte variabili interessate. Ma è anche un meccanismo virtuoso, perché reintroduce la mobilità in un settore nel quale essa, che un tempo era la regola, è andata progressivamente sparendo. E la mobilità è una risorsa e una ricchezza per l’università, perché favorisce la comunicazione, lo scambio e quindi la circolazione di esperienze e di idee, mette in contatto con realtà diverse, consente agli studenti di avvalersi dell’apporto di professori di provenienze, scuole, indirizzi e tendenze molteplici. Le obiezioni che si possono opporre (e che di regola si oppongono) ad un simile metodo di reclutamento sono solo due, una inconsistente e puramente demagogica, smentita in numerosissimi casi, facilmente verificabili, l’altra alla quale è possibile (e anche giusto) replicare, proponendo alcuni rimedi agli inconvenienti che correttamente essa segnala. Secondo la prima, i professori non residenti sono professori assenteisti. Ora, è chiaro che se si incentiva la mobilità si può incentivare anche il pendolarismo dei docenti (non è infatti detto che un professore debba, cambiando sede, trapiantare se stesso con tutta la famiglia e le masserizie, e non è, forse, neppure giusto che questo accada, almeno per alcuni degli interessati coinvolti loro malgrado – come  ad esempio i famigliari del “trasferito” –, visto che, almeno per quei ricercatori che non hanno bisogno di laboratori, la ricerca si può, e talvolta si deve fare anche fuori dell’università). Che, dunque, con un simile sistema ci possano essere più professori pendolari appare molto verosimile. Ma è poi un così gran male? Per la mia esperienza (che è appunto quella di un pendolare) devo dire di no, perché questi professori sono spesso quelli più puntualmente reperibili per gli studenti: nei giorni in cui è prevista la loro presenza di norma ci sono davvero, e non riservano sorprese a chi li aspetta, perché programmano la loro attività con anticipo e tenendo sempre conto degli spostamenti cui il pendolarismo li obbliga. L’altra obiezione è la più seria: riguarda l’onere economico della mobilità, che, quando come ora accade resta a carico del singolo docente fa di un professore pendolare un professore molto più povero di quanto non sia un suo collega che insegna nell’università sotto casa. E questo a parità di servizio prestato, oltre che in una condizione generale, dal punto di vista retributivo, che vede i docenti universitari italiani peggio pagati di quasi tutti quelli degli altri grandi Paesi europei. Ma ovviare a questo inconveniente è difficile solo se sull’università si vuole intervenire – come sembra voler fare l’attuale maggioranza – esclusivamente allo scopo di tagliare e non di spendere meglio (e per il resto, a parole). Basterebbe, per troncare sul nascere ogni legittima riserva al riguardo, considerare le spese per la mobilità spese per la produzione del reddito e consentire la loro deduzione o detrazione ai fini fiscali (dall’imponibile o direttamente dalle imposte pagate).

Molti altri sono i mali della nostra università, anche se quello del reclutamento è uno di più gravi e incancreniti. Il discorso, perciò, non può fermarsi qui (anche se, per ora, deve farlo), e occorrerà riprenderlo in una prossima occasione, per ampliarlo e concluderlo. Sono lieto di assumere questo impegno con i lettori di InSchibboleth.

bottom of page