top of page

Educazione e formazione in una democrazia liberale

 

di Mauro Visentin

 

 

Nel mio primo intervento sulle colonne di Schibboleth ho sollevato e discusso il tema dell’identità del nuovo Partito Democratico, sottolineando come, a mio parere, essa debba gravitare attorno ai diritti cosiddetti “civili” – rivendicati da soggetti diversi con sempre più frequenza ed insistenza – e alle questioni che riguardano forme di esclusione fino a poco tempo fa sconosciute o addirittura inimmaginabili, frutto delle mutate condizioni e percezioni dovute allo sviluppo, da un lato, della scienza e delle tecniche (soprattutto, ma non solo, in campo biomedico) e, dall’altro, della società di massa (che è anche, in Occidente, una società caratterizzata dall’“affluenza” di soggetti portatori di ruoli sociali inediti, dal profilo spesso ancora indefinito; cosa che li porta ad essere figure attualmente in cerca di definizione, normativa e non). Questo significa che l’identità del Partito democratico non potrà essere elaborata che investendo problemi di ordine etico, rispetto ai quali una delle due componenti primarie che dovrebbero, fondendosi, dargli vita, ha una sensibilità che, anche per chi fosse animato dal più pervicace intento di fare, in nome della buona causa dell’unità, le più ampie concessioni, non si saprebbe né si potrebbe definire “laica”. Beninteso, qui non si tratta certo di proporre, come base culturale identitaria del nuovo soggetto, un laicismo oltranzista, sul modello di quello adottato da partiti storici come il partito d’azione o il partito radicale. Formazioni come queste rappresentano raggruppamenti politici a vocazione minoritaria, nei quali la componente ideologica è destinata a prevalere in modo naturale sulla visione pragmatica del concretamente possibile. L’idea, pertanto, affacciata anni fa da qualcuno, di dare vita, con il Partito Democratico, ad un partito radicale di massa (o ad un partito d’azione ugualmente di massa), non può essere giudicata altrimenti che come priva di qualsiasi consistenza e inconcludente. Il Partito Democratico, proprio perché “di massa”, non potrà riproporre schemi e richiami culturali di questo genere. Ma sul fatto che debba essere laico nessun dubbio. Laico, è chiaro, nel senso più pragmatico possibile di questo termine (laico come lo è il Partito Democratico americano, dove sono assai numerosi i leader con forti radici culturali religiose, senza, tuttavia, che si posa neppure concepire l’idea che a qualcuno di essi venga mai in mente di tradurre un articolo di fede in un principio vincolante sulla base del quale regolare il proprio impegno politico). Come si può allora trovare una mediazione su cui sia possibile costruire un dialogo e un percorso comune, all’interno del nuovo partito, tra laici e cattolici, rinunciando, da parte dei primi, all’idea puramente laica della fede, secondo la quale essa sarebbe qualcosa di semplicemente interiore, da confinare nel recinto angusto della coscienza soggettiva? L’ipotesi di lavoro sulla quale inviterei i rappresentanti del mondo politico impegnati in questo progetto a confrontarsi, nell’intento di trovare un criterio che consenta di dirimere in modo non conflittuale i problemi che dovessero insorgere tra loro sul terreno dei temi “eticamente sensibili” è quella che esporrò qui di seguito, e per illustrarla voglio partire da una considerazione alla quale sarei tentato di assegnare il ruolo e il significato di una premessa: il recente disegno di legge di iniziativa governativa sui DICO, che riguarda le unioni di fatto, è l’espressione di un buon compromesso. Se si eccettuano taluni aspetti che sfiorano il grottesco (come la possibilità per uno dei conviventi di ottenere una registrazione anagrafica dello stato di convivenza attraverso un’iniziativa unilaterale, fatto salvo il dovere di informare il partner, dell’avvenuta registrazione, a mezzo di raccomandata), la tutela dei diritti che essa introduce e contempla, mi sembra reale e, almeno per adesso, sufficiente. Ma la Chiesa e una parte dei parlamentari cattolici della maggioranza non se ne è mostrata soddisfatta. Quello che vorrei sottolineare è che gli argomenti addotti per respingere in blocco questo ragionevole compromesso ruotano tutti intorno alla tesi ad effetto che così si introdurrebbe, nell’ordinamento italiano, un “matrimonio di serie B”. Ora, a parte il fatto che un “matrimonio di serie B” pensavo che per la Chiesa fosse già quello puramente civile, che nessuno ha mai contestato, il fatto che i DICO potessero apparire agli occhi di un credente sotto questa forma non mi sembrava dare adito a nulla di scandaloso, come sarebbe invece avvenuto se, per ipotesi, essi fossero stati normativamente disegnati in modo da poter prendere il sopravvento sulle unioni tradizionali e configurarsi come un “matrimonio di serie A”. Ma mi sbagliavo. Infatti, la semplice possibilità che essi finissero col diventare, agli occhi di tutti e nella considerazione corrente, anche solo un “matrimonio di serie B” è stata ritenuta dalla Chiesa, dai parlamentari del centro-destra e da una parte di quelli del centro-sinistra una condizione sufficiente per scagliare il loro anatema. Con quali argomenti? A conti fatti sono riuscito ad individuarne solo uno, che, a ben vedere, ricorre, implicitamente o esplicitamente, in molte, se non proprio in tutte le questioni sollevate negli ultimi tempi a proposito dei temi politici che hanno un più accentuato risvolto etico: talvolta, come nel caso dei DICO, in veste esclusiva, ossia di argomento unico, appunto, talaltra in associazione con ulteriori e diverse motivazioni. L’argomento è quello del carattere diseducativo che il riconoscimento giuridico di queste situazioni di fatto avrebbe sui giovani e sulla società nel suo insieme. Ebbene, ciò che ci si può e ci si deve sentire in diritto di esigere da un politico cattolico, se è un cattolico liberale, consiste proprio nel rifiuto di una simile preoccupazione e nel dovere di accettare il principio che allo Stato non competono compiti educativi.

L’educazione è il processo per mezzo del quale le famiglie, in primo luogo, e, secondariamente, la società attraverso i diversi gruppi di appartenenza, trasmettono, di generazione in generazione, i propri valori. Questa trasmissione avviene, di norma, in una fascia d’età nella quale la coscienza critica è ancora poco o per nulla sviluppata. Essa, inoltre, riguarda, come abbiamo detto, i “valori”, ossia il frutto di una complessa sedimentazione storica che è, tuttavia, anche un processo empirico e contingente. Cosa che si può esprimere in altro modo dicendo che un valore deve essere “scelto” e non può essere “dimostrato”. Occorre, in proposito, fare attenzione a non confondere, come spesso capita, il relativismo “ontologico-esistenziale”, che consiste nel riconoscere una natura storica all’esistenza dei valori (al loro sorgere e imporsi a partire dal terreno della “cultura” – intesa nel senso antropologico del termine – e della storia), con il relativismo “assiologico”, ovvero con l’indifferentismo etico: le due cose non sono affatto collegate, o possono esserlo solo a partire dalle pretese di chi coltiva una visione metafisica e totalizzate (che spesso si traduce, si è tradotta, sul terreno politico, in una visione totalitaria) della realtà. In altre, e più semplici, parole, i valori non sono “incontrovertibili”: la loro verità non può essere dimostrata se non  partendo dalla presupposizione di certe premesse che devono essere accettate perché devono esserlo (in quanto assunzioni primarie, fondate su gusti, opinioni, propensioni, disposizioni d’animo, di carattere arbitrario, ovvero, in ultima istanza, non ulteriormente riducibile a “ragioni”, che non siano esse stesse “storiche”, “fattuali”, “contingenti”). Con questo non si intende sminuire i valori. E non li si sminuisce, infatti, per nulla. Visto che – anche se normalmente questa conseguenza viene ignorata – quanto abbiamo appena sottolineato è precisamente la ragione per la quale essi sono “valori”, cioè “hanno valore” o “valgono”. Sono valori, hanno valore, valgono perché sono oggetto di una scelta responsabile (più o meno responsabile, ed è appunto su questo che dovremmo ragionare, tra poco) e comparativa. Cosa che significa: perché sono semplici possibilità (modi semplicemente possibili di vedere le cose) che non escludono l’eventualità di un conflitto o di una incompatibilità vicendevole tra i tentativi di affermarli. D’altra parte, proprio perché sono questo e proprio perché, dunque, l’intento di dare a ciascuno di essi compiuta attuazione comporta, almeno potenzialmente, una forma di antagonismo reciproco, i valori possono (devono) essere assiologicamente assoluti. Ovvero assunti con il pieno senso della responsabilità che questo comporta e con la piena ed esclusiva convinzione della loro validità. Nell’intento di far prevalere ognuno di essi su tutti gli altri, o meglio su tutti quelli che risultino incompatibili con la sua assunzione (utilizzando, ove possibile – anche se storicamente non è questo ciò che per lo più è avvenuto – mezzi coerenti con la natura e lo scopo del valore prescelto). Ora, quello che si deve pretendere dai cattolici del nascente Partito Democratico è che non sovrappongano la loro fede religiosa ai valori di uno Stato liberale (a quei valori che uno Stato liberale applica o professa, ma non impone direttamente, introducendosi nelle coscienze, al foro interno dei singoli individui, perché si limita a governare quello esterno, mentre si affida, per il resto e quando sia il caso, alla forza pedagogica indiretta dell’esempio), cioè che non subordinino questi a quella, ma cerchino di armonizzare l’una con gli altri, tenendo fermo il criterio che, nell’azione politica e nella sfera pubblica, senza voler negare in linea di principio il diritto della fede ad intervenirvi, in caso di conflitto, sono quelli e non questa a dover prevalere.

Sulla base di tali premesse occorre riconoscere che l’educazione è un processo fondato sull’autorità, e che, perciò, la trasmissione dei valori in cui essa si risolve non può avvenire che in forma, in ultima analisi, autoritaria. Sia chiaro, nessuno può pensare, per questo, di negare il ruolo fondamentale, per ogni società e in ogni epoca, dell’educazione. Ma si può, su questa base, rifiutare l’idea che essa sia o possa essere, per una coscienza liberale, un compito dello Stato. Allo Stato compete invece, là dove esiste un sistema di istruzione pubblico, il compito della formazione, che consiste nel fornire all’individuo gli strumenti critici, cognitivi e culturali, per tornare sui valori che gli sono stati trasmessi, vagliarli, esaminarli, eventualmente riappropriarsene attraverso una ripetizione del loro processo di assimilazione e metabolizzazione che venga però, ora, rivissuto nella forma di una scelta, consapevole e responsabile. Oppure, altrettanto responsabilmente, rifiutarli. Essere in grado di apprezzare la differenza che intercorre fra questi due compiti è fondamentale per poter distinguere una concezione liberale da una concezione etica dello Stato.

Ne discende un corollario significativo che riguarda un altro dei temi spinosi che il Partito Democratico dovrà, verosimilmente avviarsi ad affrontare: quello dei finanziamenti alla scuola privata, cavallo di battaglia dei cattolici. In proposito ricorderò che nel programma del suo primo esecutivo Prodi aveva abilmente aggirato l’ostacolo, evocando il concetto, suggestivo e degno di essere approfondito e generalizzato, di un “sistema integrato d’istruzione pubblica”, o anche di un “sistema pubblico integrato d’istruzione”. Con questa formula si intendeva sottolineare opportunamente il fatto che in una moderna società democratico-liberale i servizi pubblici non debbono essere per forza erogati direttamente dallo Stato o dalle amministrazioni locali, ma possono essere forniti (stipulando apposite convenzioni) anche da privati (da privati, è ovvio, che accettino di sottoporre le loro prestazioni a regole e criteri di carattere pubblico). Il principio, come dicevo, è molto interessante e potrebbe essere utilmente esteso a tutti i servizi che hanno per destinatari i cittadini in quanto tali, al fine di rendere sostenibile il peso economico di un welfare che, in virtù dell’allungamento della durata media della vita e dell’estensione a tutti delle protezioni sociali e delle opportunità che uno Stato moderno deve offrire ad ogni soggetto che ricada sotto la sua amministrazione e competenza, ha raggiunto livelli un tempo inimmaginabili. Ma, come ho già detto, per dare vita ad un sistema di questo tipo è necessario che i privati che forniscono il servizio sussidiariamente (altro il discorso per quelli che lo fanno in concorrenza con lo Stato) sottostiano a regole e principi fissati secondo un’ottica pubblica e non privata, statale o istituzionale e non sociale. Cosa che non permette di eludere l’articolo 33 della Costituzione, il quale richiede la completa assenza di oneri a carico della collettività come condizione perché sia lecito ad enti e privati l’istituzione di scuole ed istituti educativi. Non permette di farlo, si potrebbe intendere (dando un’interpretazione – in virtù del principio esposto più su, secondo il quale lo Stato non si occupa di educazione ma solo di formazione – più estensiva di quella tradizionale) non perché gli istituti di cui fa menzione l’articolo costituzionale citato siano “privati”, ma perché sono, appunto “educativi” (come sono, di fatto e inevitabilmente, quelli religiosi o confessionali). Fermo restando che la norma costituzionale potrebbe invece, alla luce di questa interpretazione, non applicarsi a scuole private “laiche”, ossia volte a formare coscienze critiche e non a trasmettere valori (sia religiosi sia laici).

Non si può chiedere, credo, ad un cattolico liberale, nulla di più, ma anche nulla di meno dell’accettazione di questa base elementare di confronto. E’ solo a partire da qui che un dibattito sulle rispettive identità e sui loro punti di incontro, fra laici e cattolici, può essere proficuamente avviato. Solo a partire da qui sarà infatti possibile porre le basi di una nuova cultura dei diritti, e su di esse fondare una nuova concezione dell’equità sociale e un rinnovato senso del ruolo delle istituzioni. In definitiva: una nuova idea di “sinistra”.

bottom of page