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Etica del “riconoscimento”

e politica

 

di Gaspare Mura

Se guardiamo alla nostra situazione culturale, così grande appare la distanza che separa la tradizione classica, pensosa degli stretti legami tra etica (anche individuale)  e politica, dalle idee che alimentano l’etica e la politica dei nostri giorni, che potremmo essere indotti ad una visione pessimistica del nostro futuro. Saremmo cioè tentati di dare ragione a Osvald Spengler, che nel celebre e discusso saggio Il tramonto dell’Occidente, pubblicato alla fine del primo grande conflitto mondiale, tra il 1918 e il 1922, confutava l’ottimismo della cultura ottocentesca, evidenziando tutte le componenti della crisi soprattutto europea- crisi economica, sociale, politica, ma soprattutto di valori etici e di verità, -  sottolineando la netta cesura che separava il mondo contemporaneo dalla sua stessa tradizione, ovvero il distacco che si andava stabilendo nei confronti dei fondamenti etici e veritativi dell’ eredità culturale europea, e che gli faceva ipotizzare pertanto un “tramonto dell’Occidente”. Come ha lucidamente scritto uno studioso, infatti, il clima culturale in cui oggi siamo immersi è caratterizzato  dalla “crisi dei fondamenti – e non solo del sapere scientifico, sì anche della vita morale e politica” e di conseguenza dal “trionfo dell’opinione sulla verità, della storia sulla logica,  del contingente e mutevole, del relativo sull’assoluto, in una parola: della doxa sull’epistème” 1. Come lontana ci appare allora la riflessione etico-politica di un Platone, il quale, di fronte alla corruzione diffusa della democrazia ateniese, scriveva di essersi sentito ineluttabilmente “indotto ad apprezzare la buona filosofia ed a concludere che solo dall’opera di lei è possibile sperare di vedere un giorno giusta la politica degli stati e  giusta la vita dei cittadini” (Platone, Lettera VII, 326 b). La metafora platonica dei filosofi reggitori dello stato, ampiamente espressa nella Repubblica, non indica infatti la descrizione di una reale costituzione di stampo fondamentalista, come erroneamente ha inteso Popper, ma piuttosto la descrizione di una “città interiore” in cui abbiano a governare la ricerca della verità e della giustizia sull’ anarchia degli istinti, sul primato dei desideri soggettivi e sull’egoismo di un’ anima non educata dalla cultura, ovvero dalla “filosofia”. In altri termini, Platone volle sottolineare lo stretto legame che c’è tra l’etica individuale e il reggimento di uno stato, e che solo se il reggitore dello stato è giusto sul piano etico personale, può reggere lo stato con giustizia, perché la giustizia dello stato è l’espressione della giustizia del singolo reggitore. Parafrasando Platone in riferimento al nostro contesto politico e democratico, potremmo dire che i popoli hanno il diritto di essere governati da politici che non solo perseguano la giustizia e la libertà nell’azione pubblica, ma che diano la testimonianza di una esemplarità morale anche nella vita personale, perché la giustizia e l’eticità di un stato sono estensione di una giustizia e di una eticità che si è saputa praticare a livello personale da parte dei suoi rappresentanti e reggitori.

E’ dovere dell’intellettuale tuttavia attraversare il pessimismo dell’oggi e saper cogliere i germi positivi dell’odierna cultura, che forse potranno maturare solo in un domani che si spera non remoto. E’ stata questa in fondo la lezione  dell’ intellettuale francese di origine ebraica Julien Benda, il quale pubblicò nel 1927 il celebre trattato La trahison des clercs (Il tradimento degli intellettuali),   con cui intese denunciare il fatto che, di fronte ad una evidente crisi della politica, che aveva radici etiche, gli intellettuali francesi e tedeschi sembravano  aver rinunciato alla loro missione di denuncia e di affermazione dei valori universali della libertà e della giustizia, a favore di prese di posizione legate ad interessi politici e di parte. Al di là del contesto storico di quel celebre trattato, e delle diverse e talora opposte interpretazioni che ne sono state date, credo che una lezione estremamente attuale esso abbia consegnato alla nostra riflessione: i veri intellettuali sono coloro che, liberandosi da interessi politici di parte, sanno elevarsi ad una visione superiore e disinteressata del proprio tempo, e sanno additare la libertà e la giustizia come fini dell'azione politica, perché le loro “attività già dalla loro essenza non sono dirette a fini pratici”. Anche  per questo Benda suggeriva, agli intellettuali “senza interesse” che volessero veramente rendersi utili alla politica,  di ricorrere senza timore alla grande tradizione  classica e cristiana, dove sono custoditi i preziosi tesori che riguardano l'uomo, il valore etico delle sue azioni, i rapporti tra l'etica privata e l'etica pubblica, e  il fondamento etico di una  politica “giusta”. Per maturare appunto una visione “alta” della realtà umana, sottratta alla temperie delle epoche storiche, e  capace di riannodare i legami tra etica  e  politica.

Voglio ricordare allora un grande intellettuale recentemente scomparso, la cui lezione merita di essere meditata da quanti sono attenti alle sorti etiche e politiche del nostro paese e della stessa Europa. Nel suo ultimo libro Percorsi del riconoscimento2, Paul Ricoeur ci ha offerto una riflessione sull’etica del “riconoscimento” nella quale è forse possibile far convergere la ragione laica e quella religiosa, le tradizioni liberali e quelle comunitarie, al fine di riannodare i legami che nell’oggi separano l’etica dalla politica. Ricoeur prende spunto da una questione molto attuale , che coinvolge direttamente tutti i paesi d’Europa: che valore e significato dare a quanti, emigrati in questi paesi, sono portatori di culture e valori diversi? Sintetizzando numerose tematiche che hanno tracciato il suo “long détour” ermeneutico, Ricoeur si sofferma in primo luogo sull’importanza del linguaggio, perché ogni cultura è mediata dal linguaggio e perché , di conseguenza, è nel linguaggio che avviene la prima “hospitalité langagière” nei confronti della lingua dell’altro, dell’estraneo, dello straniero, che deve essere insieme riconosciuto nella sua alterità linguistica e semantica, ma anche accolto nella propria dimora linguistica, resistendo tuttavia  alla pulsione che spinge ad appropriasi dell’altro, dello straniero, dell’estraneo, tra-ducendolo nelle proprie categorie di pensiero.  “Ospitalità linguistica, dunque, nella quale il piacere di abitare la lingua dell’altro è compensato dal piacere di ricevere presso di sé, nella propria casa di accoglienza la parola dello straniero”3. Con grande finezza Ricoeur scioglie semanticamente  i diversi significati racchiusi nel termine francese “reconnaissance”: “1) Cogliere (un oggetto) con la mente, con il pensiero, collegando tra loro immagini, percezioni che lo riguardano; distinguere, identificare, conoscere tramite la memoria, il giudizio o l’ azione; 2) Accettare, ritenere come vero (o ritenere come tale); 3) Testimoniare con la gratitudine di essere debitori nei confronti di qualcuno” . L’analisi semantica svela la dimensione etica racchiusa nel termine “riconoscimento”, dimensione etica che precede quella eidetica e quella politica, e dovrebbe costituire il vero senso - laico e cristiano- del “riconoscimento”4. Qui Ricoeur si fa vicino al pensiero di Emmanuel Lévinas, che approfondiva la tematica del “volto” nel senso etico del “riconoscimento”: “Il ‘tu non ucciderai’ – scrive Lévinas,- è la prima parola del volto. Ora, questo è un ordine. Nell’apparizione del volto c’è un comandamento, come se mi parlasse un maestro. Tuttavia, al tempo stesso, il volto d’altri è spoglio; è il povero per il quale io posso tutto e al quale debbo tutto. E io, chiunque sia, ma in quanto prima persona, sono colui che ha delle risorse per rispondere all’appello” 5. La nudità del volto dell'altro è infatti biblicamente, per Lévinas, quella dell'estraneo e dello straniero, del povero, dell'orfano, della vedova. Ed è questa “nudità” che prima di tutto bisogna saper “riconoscere”, se vogliamo dare dignità etica e responsabile alle nostre azioni.  “La responsabilità è ciò che mi incombe in modo esclusivo e che, umanamente, io non posso rifiutare. ...Sono io nella misura in cui sono responsabile..Io posso sostituirmi a tutti, ma nessuno può sostituirsi a me...E’ in questo senso preciso che Dostoevskij dice: ‘Noi siamo tutti responsabili di tutto e di tutti, davanti a tutti ed io più di tutti gli atri”6. Ritengo personalmente che queste parole di Lévinas debbano essere prese molto sul serio, anche dal punto di vista della cultura laica. Sono parole ispirate alla Legge, letta alla luce della “fede dei Profeti”, e per questo parole universali dell’etica, alle quali il messaggio evangelico dell’amore dà compimento ma non abolisce. Lévinas infatti prende l’avvio dalla riflessione sul significato del soggetto, partendo  in particolare dalle provocazioni che derivano dalla dialettica “schiavo padrone” della Fenomenologia dello spirito di  Hegel, che ha ispirato la riflessione dello stesso Marx, e che ha comportato essenzialmente un approfondimento progressivo degli indissolubili legami storici e sociali che qualificano l'essenza della soggettività umana la quale, per potersi attuare pienamente, ha necessità di essere “riconosciuta” dagli altri in ogni contesto sociale e comunitario non solo come individuo, ma in tutte le sue potenzialità come apportatrice di valori e di cultura. In altri termini, una società ed una politica improntate all’etica del riconoscimento deve saper riconoscere a tutti i propri membri il diritto e la possibilità di poter esprimere quei valori e quelle potenzialità creative ed espressive di cui sono portatori e nei quali manifestano compiutamente la propria personalità.  Le società arcaiche risultano essere quelle in cui il soggetto umano viene considerato unicamente come funzionale a determinati compiti o addirittura alla statica del potere, privandolo del “riconoscimento” qualora la sua creatività originale e personale non corrisponda più al gruppo sociale dominante. L’etica del “riconoscimento” impone invece il “dovere” di riconoscere  l’ “altro”, il “volto” che ci passa accanto- dello straniero, dell’orfano e della vedova; ma anche dell’amico, del compagno di lavoro, del fratello e persino, evangelicamente, del nemico, - perché il “non riconoscimento”, il non riconoscere all’altro la possibilità di esprimere la sua identità e la sua autenticità, significa ucciderlo. “Chiunque avrà detto a suo fratello raca …”(Mt., 5,22), si potrebbe interpretare nel nostro contesto: chiunque non lo abbia “riconosciuto”. 

Per questo sapientemente Ricoeur collega al “riconoscimento” anche la “riconoscenza”,  che nasce quando riconosciamo che l’altro è un dono per noi. In Amore e giustizia Ricoeur approfondisce questo difficile rapporto dell’etica, fondata sul “riconoscimento” dell’altro, e quindi sull’amore, con la giustizia, fondata sulla pura logica distributiva dei doveri e dei compiti, e quindi sul reciproco interesse che impedisce il “riconoscimento”, e giunge a scrivere che “l'incorporazione tenace, via via, di un grado supplementare di compassione e di generosità in tutti i nostri codici - dal codice penale alle norme di giustizia sociale - costituisce un compito perfettamente ragionevole, benché difficile e interminabile”7 . Questa incorporazione dell’etica del “riconoscimento” nelle norme della giustizia sociale rappresenta per Ricoeur l’ideale regolativo di una società democratica nuova, capace di far crescere la solidarietà e la fraternità come fattori di antidoto  alle “mancanze di riconoscimento” che, sul piano interpersonale e degli stessi stati,  sono all’origine delle tensioni, delle lotte e dei conflitti .

Non a caso quindi , in Percorsi del riconoscimento, Ricoeur ritiene che per uscire dalla logica della violenza, del dominio dell’uomo sull’uomo, dei conflitti armati tra gli stati, sia necessario soprattutto uscire dalla concezione moderna della politica, fondata sulla visione di Hobbes, secondo cui solo il “contratto” tra le parti impedirebbe l’‘“homo homini lupus”.  Ricoeur oppone coraggiosamente, alla logica hobbesiana, la logica del “dono”, fondata sull’etica del “riconoscimento”. La logica del dono non è solo quella contrattualistica dello scambio e della reciprocità, ma è piuttosto quella della gratuità e della generosità; è, come egli si esprime,  la logica della “festività dell’esistenza”. L’etica del “riconoscimento” impone allora che si prendano a modello dei rapporti tra persone e tra nazioni, non gli stati di guerra ma gli stati di pace. “La tesi che vorrei argomentare … - scrive Ricoeur- si riassume nel modo seguente: l'alternativa all'idea di lotta nel processo del mutuo riconoscimento va ricercata nelle esperienze pacificate del mutuo riconoscimento, le quali si basano su mediazioni simboliche che si sottraggono tanto all’ordine giuridico quanto all’ordine degli scambi commerciali; il carattere eccezionale di queste esperienze, lungi dallo squalificarle, ne sottolinea la gravità e per ciò stesso ne assicura la forza di irradiazione e di irrigazione nel cuore stesso delle transazioni contrassegnate dal sigillo della lotta”8 . 

Ricoeur non teme allora di introdurre in un discorso etico-politico, il termine agape: “l'agape compie un passo in direzione della giustizia assumendo la forma verbale del comandamento ‘tu amerai’ che Rosenzweig, nella Stella della redenzione, contrappone alla legge e alla sua costrizione morale. Il comandamento che precede ogni legge è la parola che l'amante rivolge all'amata: amami! E’ l'amore stesso che si raccomanda tramite la tenerezza della sua obiurgazione; oserei parlare qui di un uso poetico dell'imperativo, prossimo all'inno e alla benedizione”9 . Perché è solo l’agape che segna, come ha scritto in un bel volume Enzo Bianchi, la “differenza cristiana”. 

E’ un cammino lungo quello che ci propone  Ricoeur, perché è un cammino che senza soluzioni di continuità attraversa l’etica, la politica, la giustizia, il futuro stesso di pace; e tutto nell’orizzonte dell’agape.  “È ora possibile tornare alla questione … concernente il rapporto tra la tematica della lotta per il riconoscimento e la tematica degli stati di pace. Ci eravamo chiesti quando un individuo possa ritenersi riconosciuto, e se la domanda di riconoscimento non corra il rischio di essere interminabile”10;  si, risponde Ricoeur, “la lotta per il riconoscimento resta forse interminabile”; e tuttavia dobbiamo convincerci che “ le esperienze di riconoscimento reale nello scambio dei doni, principalmente nella loro fase festiva, conferiscono per lo meno alla lotta per il riconoscimento l'assicurazione che la motivazione per cui essa si distingue dalla sete di potere, e che la pone al riparo dal fascino della violenza, non era né illusoria né vana”11.

In un passaggio del discorso prenatalizio alla curia romana del 22 dicembre 2006, Benedetto XVI, riprendendo un tema a lui caro fin dalla docenza universitaria, fa delle osservazioni circa il rapporto tra cristianesimo e cultura moderna che devono essere ancora recepite adeguatamente dalla cultura cristiana. Si tratta, dice Benedetto XVI, di una vera “sfida cognitiva”, di fronte alle convinzioni e alle esigenze della cultura moderna, per poterne sottolineare gli errori ma anche accogliere le vere conquiste, quali il riconoscimento dei “diritti dell'uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l'autenticità della religione”. Così che pur dovendo respingere “una dittatura della ragione positivista che esclude Dio dalla vita della comunità e dagli ordinamenti pubblici, privando così l'uomo di suoi specifici criteri di misura”, si deve anche essere capaci di assumere una giusta posizione di fronte alle provocazioni della ragione moderna, impegnandosi in “una ricerca che certamente non sarà mai conclusa definitivamente”.

E' questo il contesto teoretico in cui Benedetto XVI ha inserito il suo ultimo messaggio  nell'enciclica Caritas in veritate. Pur nel rispetto dell’autonomia delle realtà terrene, il Papa risponde in modo alto alle problematiche contingenti di tipo etico, sociale, economico e politico, rimettendo l’uomo in rapporto con Dio affinché il mondo non si perda, e sottolineando la necessaria dimensione antropologico-umanistica che deve caratterizzare le discipline giuridiche, economiche e finanziarie. Il Papa afferma tra l’altro che “il primo capitale da salvaguardare è l’uomo” e, durante la presentazione dell’enciclica, ha affermato che in essa “la cosiddetta questione antropologica diventa a pieno titolo questione sociale". Attraverso le endiadi iniziali – senza verità la carità è sentimentalismo, e senza fede la ragione è astratta – Benedetto XVI tenta di ricostituire l’unità dell’uomo secondo la visione biblica e cristiana che lo pone al centro del disegno di Dio. Oggi l’uomo ha smarrito la visione di se stesso nell’orizzonte di questo progetto ed è come diviso; proprio questa perdita è all’origine del nichilismo e dei fallimenti odierni, molto più gravi della pur gravissima crisi economica. Senza accenti pessimistici e anzi con la volontà di valorizzare quanto vi è di buono nella società e nella cultura contemporanee, il Pontefice vuole offrire indicazioni per riunificare tutto ciò che noi abbiamo separato: la ragione dalla fede, l’uomo da Dio, l’economia da una visione etica e umanistica, l’etica dalla gestione della vita familiare e sociale. In questo orizzonte la solidarietà, che oggi da sola non regge di fronte alle nuove sfide, secondo il Papa deve coniugarsi con la gratuità e con l’etica del dono. Se questi concetti non entrano nella dimensione economica della vita sociale, nessuna soluzione tecnica sarà in grado di risanare l’economia: occorre un supplemento d’anima veicolato e sorretto dalla tradizione biblico-cristiana-umanistica della Chiesa. Benedetto XVI chiede dunque un’ottica “alta” in cui considerare i rapporti tra etica e politica. Un'ottica capace di integrare le ormai superate visioni comunitariste e liberiste in una visione economica realizzabile solo nel binomio carità-verità. Non ci si può affidare alle regole esterne, mutevoli secondo i tempi, ma allo spirito che le gestisce e le mette in pratica. Di questo passaggio dalla logica contrattualistica a quella della gratuità i cristiani sono chiamati per primi a dare testimonianza, rifiutando la libertà scissa dalla verità e dalla carità che diventa autonomismo e privatismo. Il Papa mette in guardia dai rischi di un nichilismo tecno-capitalistico che vorrebbe regolarsi da sé, ma che senza un supplemento d’anima rischia di implodere. In questo orizzonte l’uomo è abbandonato all’immediatezza esistenziale, al consumo, a quella che il Pontefice chiama “dittatura del desiderio”. E’ proprio questo tipo di uomo ad avere prodotto la situazione che ha poi aperto la porta alla crisi economica e finanziaria odierna,  che è solo espressione di una cristi etica e politica. Di qui l’urgenza di ricostituire l’unità dell’essere umano attraverso la visone teologica collegata alla visione umanistico-antropologica , una visione che dovrebbe sottendere l’economia e la politica. 

Quella di Benedetto XVI non è tuttavia una riflessione pessimistica, ma un invito a superare la sfiducia e a reintrodurre nella politica e nell’economia i principi etici della trasparenza, dell’onestà, della responsabilità, della gratuità, della fraternità, termini estranei all’economia ma che fanno parte dell’umanesimo cristiano, quest’anima della storia che oggi ancora di più ha urgenza di inserirsi nei processi di globalizzazione per costruire un ordine mondiale realmente fondato sul diritto e sul “riconoscimento” di ogni uomo. Benedetto XVI  insomma vuole far comprendere all’uomo che egli è molto più grande dei progetti che può realizzare; aderire a Dio uscendo dall’umanesimo prometeico e ateo che ha caratterizzato la modernità e la sua concezione di una libertà sganciata dalla verità significa realizzarsi pienamente e “riconoscere” l’altro in pienezza e verità.

 

1. V. Vitiello, Dall’ermeneutica alla topologia, in “Aut Aut”, 296-297 (2000), p. 109.

2. Cf. P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, Cortina, Milano 2005. 

3. P. Ricoeur, Sur la traduction, Bayard, Paris 2004, p. 33.

  1. 4.Ricoeur, Percorsi..., cit., p. 17.

  2. 5.Lévinas, Etica e Infinito. Il volto dell’Altro come alterità etica e traccia dell’Infinito, Introduzione di G. Mura, Città Nuova, Roma 1984, p. 103. 

  3. 6.Lévinas, Etica e Infinito, cit. , p.115

  4. 7.P. Ricoeur, Amore e giustizia, tr. e postfazione di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia, 2000, p. 45. 

  5. 8.P. Ricoeur, Percorsi..., cit., p. 247. 

  6. 9.p. Ricoeur, Percorsi...., cit., p. 251. 

  7. 10. Cf. E. Bianchi, La differenza cristiana, Einaudi, Torino 2006. 

  8. 11. P. Ricoeur, Percorsi.... cit., p. 274.

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