top of page

Esistere, Vivere, Abitare

alcune domande a 

Silvano Petrosino

a cura di Bachisio Meloni

Alla consueta domanda del “chi?”, nell’ambito dell’interrogazione sulla nozione di soggettività, dovremmo forse e più propriamente sostituire quella del “che ne è” del soggetto. Il ricorso allo snervante interrogarsi su quale sia per la soggettività l’entità della sua struttura e i modi tipici del suo consistere, porta invece a riporre l’attenzione su quali tipi di esito e rispetto a quali continue sollecitazioni o sfibranti sommovimenti è possibile configurare la sua posizione o inclinazione primaria nel mondo (“dove sei?”), dal punto di vista del suo “esser-per-altri”, e per le cose, non meno che per il suo “esser-per-sé” e il proprio costituirsi come tale. “Si tratta della posizione (della verità) del soggetto – dichiara Silvano Petrosino –, cioè del suo stare come soggetto, posizione che diviene problematica ed interrogante proprio di fronte all’evidenza del suo continuo capovolgersi, del suo insistente venire meno, del suo non riuscire a ‘mantenere le posizioni’ ”.

È di fronte a tale genere di questioni che ci pone l’autore di Capovolgimenti, e ciò avviene fin da Babele. Architettura, filosofia e linguaggio di un delirio (il melangolo, Genova 2003) – testo che costituisce nel suo pensiero come “il primo capitolo di un più ampio lavoro sull’abitare”, percepito ora dalla prospettiva della casa e dell’“implacabile legge dell’ospitalità” o dell’accoglienza di cui parla Derrida, ossia nel senso dell’“economia” (oîkos nomos), dell’abitare il profilo del mondo come apertura “non assoluta” ad altri.

Con la nostra intervista all’autore ci apprestiamo a percorrere o a ricostruire il cammino di questa elaborata riflessione riguardante la più vasta area di indagine sul luogo come uno dei più incalzanti e problematici orizzonti nella fenomenologia dell’umano.

 

Professor Petrosino, vorrei partire proprio dal titolo: “Capovolgimenti”. Con questa scelta a me sembra che lei si soffermi su una questione assai cruciale: con l’idea del capovolgimento, insieme a Platone, e secondo l’esempio del dialogo socratico, siamo portati a identificare la dialettica con la riflessione filosofica stessa, ossia come un pensiero determinato a partire da due movimenti logici, reciprocamente inversi. Insomma, ci troviamo ad aver a che fare con realtà  in grado di suscitare l’ambivalenza, l’equivoco, l’equi-vocazione: come per l’appunto recita il sottotitolo del suo testo, la casa può sempre ridursi a tana, l’economia può sempre scadere in business. Che cosa l’ha spinta a scegliere un simile titolo?

 

Le confesso che quando ho pensato al titolo non avevo in mente la categoria di dialettica, quanto piuttosto quella di topologia, soprattutto in riferimento all’elaborazione che di essa ne fornisce il pensiero lacaniano. In altre parole, l’idea di “capovolgimento” mi si è imposta in relazione al tema del soggetto, alla posizione ch’egli assume, o meglio: alla posizione ch’egli si sforza di assumere, ma soprattutto a quella ch’egli, al di là di ogni sua ingenua convinzione e volontà, finisce in verità per assumere. Da questo punto di vista a me sembra che la questione per eccellenza che investe il soggetto (e che in qualche modo lo istituisce in quanto tale), prima ancora di essere quella della sua natura o identità (“Chi sei?”), sia quella della sua posizione (“Dove sei?), della sua concreta presa di posizione, come se per il soggetto l’essenziale non fosse tanto laddove egli sia (concezione fisico-spaziale del luogo umano), e neppure in un certo senso che cosa egli abbia compiuto, quanto piuttosto come egli si ponga rispetto a ciò che ha compiuto, come risponda e quale posizione gli assuma nei confronti di tutto ciò che lo riguarda (concezione etico-ontologica del luogo umano). All’interno di questa prospettiva l’idea di “capovolgimento” si chiarisce in riferimento a certe preoccupazioni proprie del pensiero di Marx, Nietzsche, Freud e Lacan: si tratta della posizione (della verità) del soggetto, cioè del suo stare come soggetto, posizione che diviene problematica ed interrogante proprio di fronte all’evidenza del suo continuo capovolgersi, del suo insistente venire meno, del suo non riuscire a “mantenere le posizioni”, come se la questione che travaglia il soggetto fosse essenzialmente e prima di tutto, non tanto quella dell’Altro o dell’altro, quanto piuttosto quella del suo stesso stare in piedi e del suo proprio consistere in quanto soggetto, cioè del  suo non perdersi come soggettività unica ed irriducibile, in poche parole: del suo non perdersi come singolo uomo. È al livello di questa unicità del soggetto che bisogna intendere l’interrogativo biblico: “Adamo dove sei?”, al quale forse bisogna sapere ricondurre le grandi riflessioni marxiana e freudiana sull’alienazione. Alla sua domanda, dunque, risponderei in estrema sintesi così: dire “capovolgimenti” significa dire “soggetto”, e tali “capovolgimenti” non possono mai essere interpretati come momenti all’interno di una dialettica, cioè come delle “antitesi”, perché a questo livello non c’è alcuna garanzia che il soggetto si riprenda, ritorni con i “piedi per terra” e non finisca per perdersi definitivamente.

 

Mi permetta di insistere sulla figura del “capovolgimento”. Mi sembra che questa idea suggerisca non solo movimenti imprudenti o percorsi esistenziali dagli esiti negativi; mi riferisco in particolare alla sua precisazione relativa ai termini “A/altro” e “alterità”, pensabili non solo a partire dalla verticalità di Dio come “Assolutamente altro” o in senso orizzontale come “altro da me”; oltre a queste concezioni, si tratterebbe di pensare – e in altre occasioni lei ha insistito su questa “necessità topologica” – la trascendenza e l’alterità anche “all’interno” della propria esperienza di sé, secondo un “capovolgimento” del tutto simile ad un movimento ellittico determinato dalla propria “de-nucleazione”, la quale non coincide affatto con una mera spersonalizzazione o con una pura invasione del dionisiaco o con una semplice alienazione: è piuttosto rinuncia a sé nei termini della responsabilità etica. Potrebbe chiarire questo punto che mi sembra decisivo per comprende l’architettonica del suo testo?

 

Lei tocca un tema la cui importanza è difficile da sottovalutare. Sono qui in gioco, se così posso esprimermi, le categorie di “altro” e “alterità”. Mi permetta al riguardo di partire da un’ossevazione di Derrida: “(...) «l’altro», come si dice oggi, «il rispetto dell’altro», il «rapporto con l’altro»... la parola «altro» diventerà presto, ve lo annuncio, del tutto impronunciabile per via dell’abuso o dell’inflazione di cui è vittima, anche per colpa della televisione» (J. Derrida, «...soprattutto niente giornalisti!», Castelvecchi, Roma 2006, p. 25). Poco oltre il filosofo francese precisa: “(...) la parola «altro» scomparirà (...) per via dell’usura e dell’inflazione verbale, per abuso di retorica, talvolta di demagogia, non ne potremo più di questa povera bella parola, e ci verrà voglia di rimpiazzarla con un termine più nuovo” (Ibi, p. 51). Non c’è dubbio sul fatto che oggi ci troviamo all’interno di una “retorica dell’altro”; i “luoghi comuni” che definiscono sempre una retorica hanno il vantaggio (e la sventura) di sospendere l’urgenza dell’interrogazione: e in effetti, qui tutti si trovano d’accordo e non si sente più l’urgenza di continuare a porre domande. Contro una simile retorica e l’omologazione ch’essa genera mi sembra sia necessario “capovolgere” certe consuetudini cercando di evitare, come si è soliti dire, di buttare via con l’acqua sporca anche il bambino, che in questo caso coincide, per l’appunto, con la “povera bella parola” di alterità. Per salvaguardare una tale parola credo si debba procedere con cautela dimostrando di sapere distinguere e differenziare; è a questo punto che si impone la necessità di distinguere “tre” forme di alterità. Mi permetta a tale riguardo di riproporre in questa sede un passaggio del libro: “ (...) conviene precisare l’impiego dei termini «altro» e «alterità». Quest’ultimo, forse, permette di cogliere con maggiore determinazione il tratto essenziale che fin qui si è tentato di far emergere. Bisogna infatti affermare come sia sempre la totalità dell’esperienza a strutturarsi (ma così anche a trovarsi de-strutturata) secondo l’ordine dell’alterità, sia che essa riguardi «verticalmente» Dio e l’«al di là», od «orizzontalmente» l’altro esistente, vivente o uomo,  o «interiormente» il proprio in-sé. A tale riguardo, sebbene sia senz’altro più facile riconoscere il rinvio all’alterità all’interno dell’esperienza dell’A/altro nel suo senso più immediato – sia esso, per l’appunto, Dio, o l’altro esistente, vivente o uomo – non si può tuttavia negare come questo stesso rinvio travagli dall’interno anche quella particolare esperienza (particolare perché supposta essere il luogo di una piena coincidenza) che è l’esperienza di sé. In effetti, come negare che il singolo uomo, nel momento stesso in cui fa esperienza di sé come soggetto, si trovi sempre investito dall’evidenza di un’irriducibile non coincidenza con il proprio sapere su di sé? Per altro già lo si  sottolineava: l’esperienza è sempre «propria», anche se la «propria» esperienza non è mai qualcosa che il soggetto possa considerare ultimamente come una sua «proprietà». In termini più semplici, ma forse anche più stringenti, si deve così confermare l’antica e gloriosa tradizione secondo la quale «l’uomo è ignoto a se stesso». La sfasatura che raggiunge il  soggetto dall’«esterno» –  il soggetto è soggetto proprio perché è soggetto a questa sfasatura – è pertanto della stessa natura di quella che lo intacca dall’«interno»: questo «interno» è già da sempre per lui un «esterno». «Esperienza» ed «alterità» sono dunque realtà che si co-appartengono, e non c’è esperienza – fosse anche, e forse a maggior ragione, la propria – che non sia fin dal principio dell’altro, che non sia un’esperienza d’alterità” (pp. 28-29).

 

I due filosofi più presenti nel suo lavoro sono Heidegger e Levinas. Al primo lei rinvia per chiarire la fondamentale distinzione tra “spazio” e “luogo, e per chiarire la nozione del “Geviert”, della quadratura; al secondo lei rinvia per approfondire la nozione di “casa” e per illustrare la centralità che all’interno dell’esperienza del soggetto viene a svolgere la dimensione della “ospitalità”. Il legame tra i due filosofi è fin troppo evidente; in effetti,  fin da uno dei suoi primi saggi, “De l’évasion” [da poco ritradotto: Dell’evasione, Cronopio, Napoli 2008], Levinas invita a riflettere, ben al di là della concezione heideggeriana del linguaggio, e del linguaggio poetico in particolare, come “dimora dell’essere”, sulla questione dell’essere come luogo di per sé inabitabile [Lei ne parla in “L’esperienza della parola: testo, moralità e scrittura”, Vita e Pensiero, Milano 1999]. La dimensione della casa come luogo della dimora, del godimento, ma altresì della maternità/paternità, dell’“implacabile legge dell’ospitalità” e dell’accoglienza di cui parla Derrida, è di fatto un preludio alla dimensione etica e quindi ad una più persuasiva idea di trascendenza. È corretto interpretare in questi termini il ruolo svolto dai due filosofi all’interno della sua riflessione?

 

Preciso che all’origine di “Capovolgimenti” vi è il tentativo di sviluppare una riflessione filosofica sul “luogo” in quanto spazio abitato dal soggetto umano; è solo perché interessato al “luogo” che il testo si concentra successivamente sui temi della “casa” e della “economia”. Ora, è proprio in relazione alla questione generale del “luogo” che il pensiero di Heidegger e quello di Levinas mi sono apparsi di un’assoluta importanza. Innanzitutto, l’interpretazione heideggeriana relativa al primato esistenziale del “luogo” rispetto allo “spazio” merita di essere continuamente ricordata, riproposta ed approfondita. Molta riflessione sociologica sulla “città”, sulla “metropoli” e sui “centri urbani” si e ci risparmierebbe alcune banalizzazioni se sapesse alimentarsi di questa analisi heideggeriana. Al tempo stesso la riflessione di Levinas sulla “casa” mi sembra cogliere un punto essenziale del modo d’essere del soggetto, un modo all’interno del quale il raccogliersi in sé deve essere sempre coniugato con l’essere accolto dall’altro da sé; in altre parole è come se il soggetto per potersi veramente raccogliere in sé (se si vuole è il tema dell’auto-coscienza) necessitasse di un “luogo franco” in cui poterlo fare, in cui  poter essere secondo il proprio esclusivo modo d’essere, luogo in cui essere accolto per quello che è senza senza condizioni e senza censure. In tal senso, soprattutto in rapporto all’auto-inganno e all’auto-censura in cui il soggetto rischia sempre di cadere all’interno della sua stessa auto-coscienza, il raccogliersi in sé non può che rinviare ad un essere accolto da altro da sé, accoglienza di cui la “casa” sarebbe, per l’appunto, il luogo per eccellenza. Tuttavia lei ha ragione nel sottolineare un’opposizione irriducibile tra Heidegger e Levinas, opposizione che ultimamente rinvia al tema dell’alterità a cui ho accennato nella precedente risposta; in fondo, ad avviso di Levinas ciò che dimora, ciò che abita per utilizzare un termine che preferisco, non è mai l’essere, ma sempre e solo il singolo, un singolo uomo, e questi abita come singolo, come sé, solo all’interno di un luogo in cui si trova accolto dall’altro da sé. Ho cercato di esplicitare questa struttura o logica fondamentale dell’esperienza del soggetto soffermandomi su quella che forse è l’essenza stessa dell’ “abitare”: se, come vuole Heidegger, l’uomo esiste come uomo in quanto abita, allora egli abita, e non semplicemente esiste o sussiste, proprio perché è egli stesso abitato; si potrebbe anche dire: l’esperienza del soggetto, esperienza dell’abitare, ma anche esperienza che è essa stessa un abitare, non può mai prescindere dal fatto che il soggetto stesso, l’abitante, è a sua volta abitato da un’alterità (ecco, direbbe Levinas, il tema non-heideggeriano per eccellenza) che in alcun modo è in grado di trascurare e misurare. In estrema sintesi: l’uomo, nel suo vivere da uomo, abita, e non solo esiste, perché è a sua volta abitato, perché la sua esperienza di uomo è al tempo stesso sempre quella di un essere abitante/abitato. 

 

Non mi ha tuttavia risposto sul “Geviert” heideggeriano; potrebbe soffermasi su questo “quadrivio” tra mortali e divini, tra terre e cieli (termine peraltro tradotto in vari modi, come Quaternità, Quadratura, Quadrato)? Sembra si tratti  di un “arci-luogo” in cui l’uomo può trovare il suo posto, la sua dimora e la sua patria, al di là di ogni angoscia o di ogni inquietudine. Tuttavia, sappiamo quanto sia incredibilmente problematica tale nozione tracciata dall’ultimo Heidegger, un Heidegger che sembra aver completamente rinunciato al linguaggio tradizionale della filosofia. 

 

Come giustamente lei ricorda, questa nozione heideggeriana è “incredibilmente problematica”; mi limito pertanto ad accennare brevemente alle ragioni che mi hanno spinto a soffermarmi su di essa. Su questo tema il merito di Heidegger a me sembra consistere essenzialmente nel superamento di una concezione “puntuale”, e quindi ingenua, della topologia propria del soggetto: il luogo dell’uomo non è mai rappresentabile con un punto, poiché il suo stare “qui” non è mai separabile dal suo essere “là”, poiché la “terra” sulla quale egli soggiorna non è mai separabile dal “cielo” sotto cui essa sta e al quale sempre rinvia. In tal senso nel pensiero heideggeriano si assiste ad una sorprendente, e a mio avviso salutare, complicazione dei rapporti tra l’ “esterno” e l’ “interno”, tra il “sopra” ed il “sotto”, tra il “qui” ed il “là”, complicazione che aiuta a non cadere nella trappola di una certa concezione lineare, archimedico-puntuale della coscienza in quanto cogito. A tale riguardo può essere utile ricordare un passaggio di Merleau-Ponty che non riporto in Capovolgimenti, ma che ho citato in una precedente pubblicazione; queste righe mi sembrano qui non del tutto fuori luogo dato che in esse si tratta pur sempre di una forma dell’abitare, quella del “visibile”: “Come tutto sarebbe più limpido nella nostra filosofia se potessimo esorcizzare questi spettri, farne delle illusioni o delle percezioni senza oggetto, porli ai margini di un mondo senza equivoci. La Diottrica di Cartesio è un tentativo in questo senso. È il breviario di un pensiero che non vuole più abitare il visibile e decide di ricostruirlo secondo un modello creato dal pensiero stesso (...) [Al suo interno] non ragioneremo tanto sulla luce che vediamo, ma piuttosto su quella che dal di fuori entra nei nostri occhi e pone in atto la visione (...) Da questo punto di vista, la cosa migliore è pensare la luce come un’azione per contatto, simile a quella delle cose sul bastone del cieco. I ciechi, dice Cartesio, «vedono con le mani». Il modello cartesiano della visione è il tatto” (M. Merleau-Ponty, “L’occhio e lo spirito”, in Il corpo vissuto, Il Saggiatore, Milano 1979, p. 215). D’altra parte, come è ovvio, i meriti della relazione del Geviert non  devono offuscare i rischi che pure la travagliano; questa relazione, infatti, rischia sempre di non essere propriamente tale, e in essa il “cielo” tende sempre a rivelarsi una mera proiezione della “terra”: nel Geviert, direbbe Levinas, non si ritroverebbe alcuna autentica “alterità”, non vi produrrebbe nessuna vera “esposizione”, qui tutto starebbe troppo “in pace”, regno di un’immanenza all’interno della quale non abiterebbe più alcuna autentica alterità/trascendenza.  

 

Vorrei riprendere a questo punto il tema della “retorica dell’altro” più sopra citata. Mi sembra che lei abbia deciso di distinguere “l’ospitalità assoluta” da “l’ospitalità piena” proprio per evitare una simile retorica. Tale distinzione, inoltre, può aiutare a comprendere quell’inquietante accostamento tra i termini “giustizia” e “perversione” che caratterizzerebbe ciò che lei presenta come il capovolgimento per eccellenza: il valore supremo della giustizia vissuto in termini generici, nei termini di un puro medio, può determinare una situazione di perversione. È corretta una tale lettura?

 

Direi di sì. Se vi è un tratto specifico dell’uomo questo deve essere individuato in quello che Derrida felicemente definisce “un invincibile desiderio di giustizia” (J. Derrida, “Fede e sapere”, in AA.VV., La religione, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 20). D’altra parte non si può negare l’evidenza che mostra come questo desiderio “invincibile” sia in realtà continuamente “vinto” all’interno di un agire che trasforma la giustizia nei migliori dei casi in una astratta ricerca di equilibrio, e il più delle volte, come per altro Nietzsche aveva ben compreso, in una mera volontà di rivincita, cioè in pura e semplice vendetta. Qualcosa di simile accade, così penso, per l’ospitalità, per l’agire ospitale. C’è un modo di ospitare che ha qualcosa di perverso. Si tratta di quella che definisco “ospitalità assoluta”: si ospita per il gusto e la gratificazione di ospitare; all’interno di un simile ospitare l’ospitante è più affezionato (quasi ne gode) al valore astratto dell’ospitalità che attento alla concreta determinazione, all’unicità, dell’ospite. L’“ospitalità assoluta” si prende così cura più dell’ospitalità che dell’ospite; da questo punto di vista essa ama alla follia il gruppo, ha una vera passione per lo spirito di gruppo, mentre non ha alcuna autentica preoccupazione per l’unicità dei soggetti che ospita poiché è del tutto paga del semplice fatto di ospitarli: più ospiti ospita più è soddisfatta, e neppure immagina che per un soggetto “finito e mortale” un’autentica attenzione verso uno debba talvolta escludere l’attenzione per l’altro. Così facendo l’“ospitalità assoluta” rischia sempre di ospitare tutti, di voler ospitare tutti, ma mai pienamente nessuno. L’“ospitalità piena”, invece, è quella che un soggetto finito e mortale, riconoscendosi tale, esercita nei confronti di un soggetto a sua volta finito e mortale; appartiene all’esercizio di questa ospitalità l’attenzione per l’unicità di ciò che si ospita, ed essa è definita non solo dal saper riconoscere il limite, ma anche dal sapersi imporre un limite (vero antidoto ad ogni perversione): questa pratica dell’ospitalità, infatti, sa che per essere piena deve rinunciare a voler essere assoluta. 

 

Ciò che emerge con chiarezza dal suo testo è la volontà di non intraprendere inutili contrapposizioni: chiusura/apertura, pessimismo/ottimismo o perdizione/salvezza; si tratta semmai di far luce, insistendo più che su nozioni fondamentali positive, su ciò che si determina sulla base di una cattiva interpretazione delle stesse. Occorre dunque considerare e quanto più anticipare – ultimamente mi sembra questo il messaggio che scaturisce dalla sua riflessione – gli esiti più concreti, senza però avere la pretesa di imporre alcuna risoluzione dialettica, bensì con la precisa consapevolezza di ragionare su questioni in grado di aprirsi alle più diverse prospettive. Rimane l’atteggiamento vigile, “non ingenuo”, di salvaguardia, di separazione e denuncia, così proprio dell’attività critica del pensiero filosofico; mi chiedo tuttavia se questo possa bastare, anche in relazione a quanto osserva ad esempio Bauman riguardo alla costruzione di una identità e di una realtà sempre più all’insegna della mercificazione, sulla scia peraltro di quanto già affermava Marx: “La ‘soggettività’ dei consumatori è costituita da scelte di acquisto (...) Quella che si ritiene sia la materializzazione della verità interiore dell’io è in effetti una idealizzazione delle tracce materiali – reificate – delle scelte del consumatore” [Consuming Life, Polity Press, Cambridge 2007; tr. it. a cura di M. Cupellaro,Consumo, dunque sono, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 20].

No, certamente non basta. D’altra parte non è compito della filosofia cambiare il mondo e tantomeno salvare l’uomo; rispetto a simili formidabili compiti la riflessione filosofica appare come del tutto inerme. Eppure essa può dare un contributo essenziale in questa impresa proprio sollecitando l’atteggiamento da lei descritto: imparare ad essere vigili, interrogare e denunciare l’ovvio, sviluppare una capacità critica, non rinunciare mai a riconsiderare ogni volta di nuovo il già saputo imparando a separare e distinguere. Nel caso di Capovolgimenti la questione che si propone di continuare ad interrogare è la seguente: che cosa significa abitare? Ecco qualcosa che rischia sempre di apparire come un’azione del tutto ovvia e in sé a-problematica. A questo interrogativo il testo risponde rinviando ad Heidegger, il quale a sua volta non fa altro che ripetere, così almeno a me sembra, un versetto del Genesi (2, 15): abitare significa, o dovrebbe significare, coltivare e custodire. Ma, ancora, che cosa significa “coltivare” e “custodire”, e soprattutto perché  bisognerebbe sempre compiere una cosa “e” al tempo stesso anche l’altra? Ora, è proprio di fronte a simili interrogativi che bisogna concedersi il lusso di qualche esitazione riconoscendo che è qui impossibile “intraprendere inutili contrapposizioni” o “imporre alcuna risoluzione dialettica”, per utilizzare le sue parole. Imporre tali nette contrapposizioni e risoluzioni dialettiche significherebbe non cogliere la drammaticità dell’esperienza umana, significherebbe in ultima istanza non comprendere nulla del modo d’essere proprio del soggetto. Quest’ultimo, in effetti, nel suo essere in azione rischia sempre di coltivare ma non di custodire, di custodire ma non di coltivare, di credere e pensare di coltivare senza tuttavia in realtà farlo, di credere e pensare di custodire senza tuttavia in realtà farlo. In tal senso bisogna evitare in ogni modo una concezione ingenua e caricaturale del soggetto umano, e a mio avviso evitare l’ingenuità significa soprattutto riconoscere che non c’è esperienza umana che, nel suo rispondere all’alterità che la abita, possa definitivamente allontanare da sé fantasmi, illusioni, sensi di colpa, paure, desideri di rivalsa, volontà di vendetta, ecc. Per ricordare solo i tre capovolgimenti esaminati nel libro (ma evidentemente ve ne sono molti altri), è proprio all’interno di una simile scena, in questo luogo originario che è la sua stessa esperienza, che la casa rischia sempre, anche se non inevitabilmente, di pervertirsi in tana, la ricerca della ricchezza di pervertisi in miseria, l’ospitalità offerta di pervertirsi in affermazione narcisistica. Heidegger ha dunque ragione, il soggetto umano esiste in quanto abita, ma come non riconoscere (e la filosofia può aiutare a sviluppare una simile lucidità) che nel suo abitare, nella sua formidabile opera di trasformazione della natura, egli rischia in ogni istante, non tanto di perdere qualcosa, quanto piuttosto di perdere se stesso, di perdersi proprio in quanto singolo soggetto?

bottom of page