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Salvezza dell’individuo e comunità.

Riflessioni sulla fondabilità dell’etica

 

di Giuseppe Cantillo

Hannah Arendt, concludendo le lezioni raccolte in Alcune questioni di filosofia morale denuncia con forte preoccupazione l’atteggiamento di indifferenza morale che appare dominante nel nostro tempo considerandolo «il pericolo maggiore che possiamo correre», e vede «nella mancanza di volontà e nella incapacità di scegliere i propri esempi» di moralità, i propri modelli nella decisione sul bene e il male, o anche «nella mancanza di volontà o nella incapacità di relazionarsi agli altri tramite il giudizio […] le vere pietre di inciampo che gli uomini non possono rimuovere», i posti dove «si nasconde l’orrore e al tempo stesso la banalità del male» (Einaudi, Torino 2006, pp. 111-112). Le penetranti osservazioni della Arendt esprimono in modo esemplare la difficile situazione spirituale del Novecento e in particolare dell’etica. A questo riguardo, Pietro Piovani, in apertura alla voce Etica da lui redatta nel 1977 per l’Enciclopedia del Novecento, osservava che «il Novecento è, caratteristicamente, tempo di negazioni, problematizzazioni, ripensamenti, rinnegamenti» e in particolare l’etica appare pervasa da questa “atmosfera” di estrema “problematicità” e “irrequietudine” e caratterizzata essenzialmente dalla pluralità e diversità dei sistemi di norme e valori e dalla convinzione della loro relatività.

Questa situazione è certamente connessa con le radici stesse della modernità, ma è divenuta sempre più netta e preoccupante nel corso del secolo appena declinato , attraverso le catastrofi storiche e culturali, che l’hanno profondamente segnato. E’ accaduto che il “progetto moderno” di liberare l’uomo in tutti campi dai vincoli dalle autorità esteriori e di promuovere il cambiamento della società in vista della piena realizzazione delle potenzialità e della libertà di ogni uomo è andato incontro ad esiti drammaticamente contraddittori. E nell’età del “dominio della tecnica” e della “folla solitaria” il male radicale – come suggerisce Hannah Arendt in una lettera a Jaspers del 1951 – non consiste più tanto nell’egoismo e nel ridurre l’uomo a semplice mezzo, quanto nel ritenere che l’uomo sia “assolutamente superfluo” . Il che si conferma minaccia tanto più incombente in questi nostri anni inquieti e incerti di inizio del nuovo millennio, tragicamente segnati dal terrorismo e dal ritornato fondamentalismo che lo sostiene, dalle guerre imperialistiche ammantate di ipocrite giustificazioni, dall’incontrastato dominio dell’economico, per cui si è non solo accentuata, ma per molti versi trasfigurata quella situazione di crisi di valori, di ideali, di modelli etici che caratterizzava già la fine del Novecento. Con l’espandersi della globalizzazione e il pervasivo installarsi delle tecnologie in tutte le pieghe della nostra esistenza, declinandone nuovi modi, nuovi stili di vita, tendenzialmente omogenei e ripetitivi, delinenandone nuove possibilità fino alle soglie del post-umano, la crisi si è spinta sempre più innanzi lasciando intravedere perfino una vera e propria finis ethicae (e finis politicae).

Ci si è inoltrati profondamente nell’epoca del nichilismo o dello scetticismo, seguendo la suggestiva oscillazione semantica di Weischedel -- un’epoca in cui sembra assestarsi definitivamente la rinuncia ad ogni prospettiva di etica universale. Come ha ricordato Apel, da più parti si ascoltano «voci [che] invitano ad attenersi ciascuno alle consuetudini della propria morale tradizionale». Senonché proprio le conseguenze dello sviluppo tecnologico ed economico, con la loro portata planetaria, rendono indispensabile, come lo stesso Apel afferma, «una ‘bussola’ etica per l’intera umanità» (Il concetto della corresponsabilità primordiale quale presupposto di una macroetica planetaria, in AA.VV. Filosofi tedeschi a confronto, a cura di M. Mori, Il Mulino, Bologna 2003, p. 42) . E in effetti la situazione è ambivalente: da un lato, di fronte alle tante ingiustizie del mondo che abbattono interi popoli si fa sempre più forte il bisogno di universalismo etico-giuridico; dall’altro, com’è stato felicemente osservato, la tendenza all’ «‘apatia’ politica e intellettuale», «al ripiegamento in un privato edonistico e consumistico», al diffondersi di «forme di impegno sociale micrologico, orientato all’immediatezza dei bisogni concreti, privo della capacità (e spesso anche dell’interesse) di articolarsi in prospettive di giudizio critico, secondo categorie progettuali di portata complessiva», dal momento che «la crisi delle ideologie è sfociata in un malessere diffuso nei confronti della ragione, in una sfiducia nella sua capacità sistematica di comprendere la storia e di incidere» (T. Bartolomei Vasconcelos - M.Calloni, Prefazione a Etiche in dialogo. Tesi sulla razionalità pratica, Marietti, Genova 1990, p. 7). Di fronte a questa crisi radicale della moralità, che mette in questione i valori universali della vita e della dignità dell’uomo, il pensiero morale non può limitarsi a rispecchiarla, ma deve riproporre la questione di una fondazione razionale dell’etica, del riconoscimento di una norma, di una misura universale dell’azione. In mancanza di essa, infatti, l’azione resta consegnata esclusivamente alla puntualità e all’immediatezza di una decisione e di un gesto assoluti, e perciò assolutamente prevaricatori, privi della necessaria dimensione universale e inter-soggettiva. Se la libertà è la condizione della morale, la sua forma, essa non è ancora il contenuto morale, che la ragione pone dinanzi alla volontà, al libero arbitrio. E’ necessario un giudizio riferito all’oggetto del nostro volere ed agire. E’ necessario un criterio di questo giudizio pratico: quindi l’esercizio della ragione pratica, “teoretico-morale”, che è la fonte di questo criterio, della legge morale, che consiste nel riconoscimento del grado di essere degli enti, della loro partecipazione al bene.

Nasce di qui l’esigenza di una fenomenologia dell'etica: una descrizione dell'esperienza morale che ha di mira l'essenza, la natura umana, dove per “natura umana” si può intendere soltanto una struttura a-priori della coscienza come condizione di possibilità dell’esperienza umana; e questa struttura a-priori è il carattere di senso e di valore che ha l’atto di vita umano, la sua originaria “sensatezza”, la sua originaria “aspirazione al valore”, senza di cui non vi sarebbe quel “modo di essere” che è proprio dell’uomo e che si oggettiva nel mondo storico-culturale. Questa “natura” dell’uomo, questa trascendentale struttura fondativa della sua stessa storicità, è ciò che affiora intuitivamente nella “coscienza metafisica” e nella “coscienza religiosa”, lasciando intravedere una “eccedenza” del trascendentale sulla storia, che dev’essere presupposta se si vuol comprendere la possibilità stessa della storia e ancor di più se si vuole sperare nella sua continuità. Siamo così condotti alla ricerca del fondamento dell’umano, alla “genealogia dell’umano” in un fatto originario che si rivela costituire il fondamento nascosto del soggetto, la comunità , rispetto a cui, distaccandosi, si afferma l’esistenza del singolo soggetto, la sua personalità individuale. (cfr. Aldo Masullo, Il senso del fondamento, nuova ed., Editoriale Scientifica, Napoli 2007) . Al tempo stesso il fondamento nascosto si pone come dovere e come telos, come termine ideale dell’agire dell’individuo, la cui dignità di uomo si afferma proprio nella decisione di spezzare l’egoismo ponendosi a servizio dell’altro, della comunità. La genealogia si fa allora etica della dignità della persona e della comunicazione. Quanto più il soggetto si afferma nel proprio infinito valore personale, rifiutando di perdersi nell’indistinzione della massa, tanto più si scopre fondato su una originaria comunità e chiamato ad agire in vista della comunità. Salvezza dell’individuo e ideale della comunità segnano i termini di una tensione dialettica costitutiva dell’esistenza autenticamente umana nella cui salvaguardia si svela consistere il contenuto del dovere morale. Un’etica fondata sul fondamento nascosto della comunità riapre la possibilità di progettare significati e valori che non perdano di vista l’autonomia e il valore infinito dell’esserci proprio di ogni soggetto, di ogni esistente, al fine di istituire una società di soggetti liberi e rispettosi della libertà di tutti, riconosciuti come altri soggetti, cioè riconosciuti – per riprendere l’espressione del Frammento sull’Amore del giovane Hegel – come “uguali in potenza”, come “viventi l’uno per l’altro nel modo più completo”.

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