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Per una buona legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento: un’uscita dal dilemma

di Eugenio Mazzarella

Nell’etica medica del “fine vita”, che ai più sembra oggi richiedere, nei limiti del possibile, un riferimento normativo d’ausilio e tutela della pratica medica e alle aspettative che emergono dalla società, i valori che potenzialmente entrano in conflitto sono noti. Da un lato l’indisponibilità della vita, anche la mia, ad ogni manomissione, e tanto più nelle sue situazioni di precarietà;  dall’altro la libertà della persona che vive – e muore! – in questa indisponibilità.  

Se si vuole uscire da questo dilemma, l’unica strada percorribile è forse attenersi proprio al lascito personale di una volontà espressa nella pienezza dell’autonomia della persona – quanto a se stessa, sia chiaro e a nessun altro. Ma, insieme, fare in modo di poter ascoltare, o riascoltare, “in situazione” – quando essa chieda attuazione alla prova della realtà – questa volontà espressa.

La liceità delle “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, anzi la viva opportunità che il legislatore provveda a dar loro rilievo normativo, è ormai un dato acquisito. 

Sulle “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, sono in discussione, in Parlamento, più proposte, e sarebbe importante una sintesi il più possibile condivisa. Un passo avanti si è fatto con il passaggio dalla definizione di “testamento biologico”, con cui si è soliti tradurre il living will americano, a quella di “dichiarazione anticipata di trattamento” (DAT). 

Lo slittamento semantico da “testamento” a “dichiarazione” non è neutro; tende a depotenziare il carattere rigidamente vincolante di una disposizione testamentaria (cosa che il living will non può essere) della DAT, facendone piuttosto un’impegnativa per tutti “presa di parola” del diretto interessato nelle cure di fine vita che possano riguardarlo. Quello che si vuole, con questo slittamento semantico, è in definitiva uno stato interpretativo “aperto” delle decisioni di fine vita, che trovi la sua concreta definizione al letto del malato, lì effettivamente “ascoltato” nelle sue volontà disposte; che in altri termini quelle decisioni non discendano sic et simpliciter da una disposizione testamentaria ora per allora, che può farsi obsoleta alla luce dei progressi della medicina; e questo al di là della considerazione che ciò che ritengo oggi preferibile per me in una situazione immaginata non è detto che sia ciò che effettivamente potrò volere nella situazione realizzata. 

Ora però proprio questa giusta esigenza che la norma garantisca uno stato interpretativo aperto, affidato all’alleanza terapeutica tra medico e paziente (ovvero il fiduciario che lo rappresenta), nelle cure di fine vita non può tradursi nella non assimilazione a priori dell’idratazione e dell’alimentazione all’accanimento terapeutico, ovvero – come prevede il  testo Calabrò approvato al Senato – nell’esclusione di principio di idratazione e alimentazione dalla Dichiarazione anticipata di trattamento, sul tacito presupposto che esse siano irrinunciabili per il paziente ed obbligatorie in terapia per il medico. Perché l’esclusione a priori dell’idratazione e dell’alimentazione dalla valutazione concreta della situazione clinica del paziente, decidendo anticipatamente per legge che non costituiscono in nessun caso accanimento terapeutico, o non concorrono a definirlo, chiude di fatto lo stato interpretativo aperto di un’alleanza terapeutica che si senta impegnata ad ascoltare nella situazione effettiva il paziente; e perché, concettualmente,  l’accanimento non è configurato  dal ricorso o dall’esclusione di questa o quella  tecnica, ma è il complesso di un approccio finalizzato della cura che ha perso la proporzionalità tra mezzi e fini.  

La particolarissima situazione dello Stato vegetativo permanente, le possibili complessità delle situazioni c.d, “di fine vita”, non certo assimilabili le une alle altre, così come a situazioni che non sono, in senso stretto, “di fine vita” ma di vita intollerabile”,  possono sì essere il più precisamente approcciabili nella norma, ma  il dilemma etico che pongono non può essere sciolto ex ante nella norma, e va sciolto ogni volta nella situazione concreta. E’ nella situazione concreta, affrontata da tutti in scienza e coscienza, che solo può dirimersi il quesito se l’insistere nel prendersi cura della  “vita biologica” (omeostasi chimico-fisica) non paghi prezzi insostenibili, magari in buona fede,  alla “vita biografica e di relazione” nella sua “complessità”, alla sua dignità di “persona”. 

Forse è giunto il momento che il legislatore  aiuti a distinguere tra la vera eutanasia (peraltro proibita anche dal Codice Deontologico), anche nelle sue forme surrettizie, e quella che più correttamente potrebbe definirsi “distanasia” (è una pregnante formulazione di un illustre clinico da poco scomparso, Mario Coltorti), il rifiuto accanito di vedere nella morte un pezzo della strada che la vita è chiamata comunque compiere. 

Ciò che va salvaguardato in una norma relativa alle DAT è da un lato l’autonomia personale consegnata ad un libero e consapevole atto di volontà dispositiva; dall’altro la relativa autonomia, anche da quelle disposizioni, della situazione concreta su cui le DAT si esprimono; al letto del paziente incosciente il fiduciario deve poter interpretare nell’alleanza terapeutica con il medico nel miglior interesse del paziente, le sue stesse disposizioni, in una fedeltà che non sia pedissequa; se così non fosse il fiduciario sarebbe poco più di un esecutore testamentario, e non piuttosto un “tutore” che interpreta alla luce della situazione una volontà che non può più esprimersi attualmente in proprio, e che in teoria avrebbe potuto essere, dalla situazione reale e non immaginata, sollecitata a “cambiare idea”. Una riserva di verifica in situazione della volontà disposta, il cui primato morale, e il cui prevalere in diritto, nessuno potrà mettere in dubbio, fatte salve evidenze scientifiche e terapeutiche conclamate in senso contrario che dovessero insorgere alla scienza e coscienza del dialogo tra fiduciario e medico

Insomma una riserva minima di applicazione delle DAT in capo al dialogo tra fiduciario e medico, all’alleanza terapeutica che dovrebbe continuare a manifestarsi al letto del paziente incosciente, dovrebbe essere prevista; anche perché così la normativa sulle DAT configurerebbe una sorta di “diritto mite”, per dirla con Zagebrelsky, un diritto che si realizza per un concorso di indicazioni deontologiche e normative, e non per un vincolo tassativo di una disposizione avente il carattere di un’obbligazione contrattuale.

Il carattere di diritto mite della normativa sulle DAT potrebbe essere ulteriormente qualificato dal carattere sperimentale della legge, fissando un termine per verificarne la tenuta dell’applicazione in relazione agli scopi sociali che si prefigge.

Su queste linee potrebbe ben essere cercata una sintesi, contribuendo alla definizione di una norma che sappia rispettare lo iato tra legge e pietà che vive sempre, nelle situazioni estreme, nella concreta vita etica.

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