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Come cancellare il dialetto

di Umberto Curi

La questione dell’insegnamento del dialetto nelle scuole, recentemente rilan- ciata con forza dal ministro Luca Zaia, presenta almeno due aspetti merite- voli di riflessione. Il primo, sul quale si è quasi esclusivamente concentrata la discussione delle ultime settimane, è di carattere politico. Il forte investi- mento della Lega su questo terreno conferma che, in vista delle ormai pros- sime elezioni regionali, il Carroccio sente l’esigenza di una riaffermazione di identità, tanto più necessaria per scongiurare l’ipotesi di un riassorbimento nel quadro indistinto del centrodestra. Da questo punto di vista, Bossi è di- sposto a pagare prezzi consistenti sul piano di una possibile espansione al Sud, pur di riprendere un protagonismo da qualche tempo un po’ offuscato nelle regioni settentrionali. Consapevole che, dal Piemonte fino al Veneto, la Lega dovrà giocarsi la sua partita contro il Pdl, molto più che contro un centrosinistra impossibilitato a competere davvero per il governo di quelle regioni, il Senatur sta impostando il confronto sul piano politico-culturale, cavalcando con grande spregiudicatezza temi sui quali sa di poter riscuotere vasti consensi popolari. Pur essendo in realtà più importante e significativo, il secondo aspetto di questa controversia è rimasto sostanzialmente nell’ombra, anche nelle repliche di esponenti del Pd. Non è un caso. Anziché ridurre la questione ad un semplice referendum pro o contra il dialetto (impostato così,

il problema è ozioso o demenziale, o entrambe le cose insieme), si trattereb- be di inquadrare l’argomento su un piano molto più serio, domandandosi in termini più generali che cosa si debba insegnare a scuola, e dunque quale ruolo essa debba avere nella società attuale. Tutti gli sproloqui sulla bellez- za, la ricchezza e il “colore” dei nostri dialetti (e non solo di quello veneto, ovviamente), lasciano in realtà il tempo che trovano, visto che a nessuna persona sana di mente può venire in mente l’idea balzana di cancellare la pratica del dialetto. Ma neppure – ed è questo il punto – di insegnarlo a scuola. Vi sono delle attività che appartengono al repertorio delle cose che si apprendono insieme col latte della propria madre, e che poi si coltivano “naturalmente” per il fatto stesso di vivere e lavorare in un certo territorio, e che non richiedono affatto un insegnamento. Sarebbe come insegnare ai giovani del Nord a mangiare polenta o ad avere la passione per le escursioni in montagna, o a quelli del Sud a consumare pomodori o ad apprezzare il mare. Tutto ciò appartiene a tradizioni e costumi locali, che si tramandano senza alcuna grottesca “istituzionalizzazione” scolastica. Altrimenti bisogne- rebbe dedicare ore di insegnamento alla “pizzica” per i giovani del Salento, o istituire corsi per i cori alpini nel Cadore. La vitalità e la persistenza di queste culture è affidata alla loro capacità di rinnovarsi, come espressioni genuine di concreti modi di vita. Se il dialetto fosse insegnato a scuola , per- derebbe la sua specifica natura di mezzo di comunicazione “naturale”, con i connotati della freschezza e della autenticità che conosciamo, per diventare appunto lingua fossile, “materia” di insegnamento, oggetto di studio. Di ciò dovrebbero rendersi conto tutti coloro i quali , per ragioni diverse ma per lo più condivisibili, sono affezionati alla sopravvivenza e alla trasmissione delle culture locali: in linea di tendenza, se realizzata la proposta leghista finirebbe paradossalmente per cancellare la pratica concreta del dialetto veneto nel giro di un paio di generazioni. Trapiantare il dialetto a scuola vorrebbe dire infatti inaridire la fonte dalla quale esso sgorga spontaneamente, impeden- do di fatto che esso possa sopravvivere. Col risultato che il veneto andrebbe ad arricchire il numero delle lingue “morte” insegnate nelle nostre scuole. Insomma, uno dei tanti inganni sui quali la Lega sta costruendo anche nella nostra regione la sua proposta di governo.

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