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Il PD e la nascita del partito unico del PDL

di Elio Matassi

Dopo le traumatiche dimissioni di Walter Veltroni e le elezioni alla segreteria del partito di Dario Franceschini, il Partito Democratico, si trova dinnanzi ad uno dei ‘passaggi’ più complessi della sua controversa vita: l’imminenza di una ‘tornata’ elettorale molto rilevante (amministrativa ed europea) e la nascita, sancita dal primo congresso del partito ‘unico’ del PDL, accompagnata dalla retorica e  dall’appello diretto al ‘popolo’ ed alla nazione, il partito autentico ‘degli italiani’, del bene comune e dello spirito nazionale. 

Se si comparano le affermazioni dei vari leaders del PDL con l’attuale situazione internazionale (la grave crisi finanziaria), in particolare, e le maniere di uscirne, prospettate dai maggiori capi di governo europei e dall’attuale leader degli Stati Uniti, Barak Obama, recentemente eletto, sembra quasi che l’Italia faccia parte di un altro pianeta.

L’affermarsi di un blocco conservatore con vocazione maggioritaria, con dei distinguo rilevanti al proprio interno, dalla retorica neopopulistica con l’appello conseguente ad un nuovo ‘miracolo economico’ e l’ostentazione di ottimismo, supportata dal collante ideologico dell’anticomunismo, il nuovo ‘anti’ della seconda Repubblica, mentre quello della prima era stato l’antifascismo, alla critica del mercatismo ed al richiamo dei valori più tradizionale della tradizione cristiana del super ministro dell’economia Giulio Tremonti, all’invocazione di una stagione costituente ed al rispetto delle regole del presidente della Camera Gianfranco Fini, avviene in Italia proprio nel momento di un capovolgimento di paradigma:  ha perfettamente ragione Aldo Schiavone, uno degli intellettuali che fa capo all’esperienza di “Inschibboleth”, nel suo recentissimo, L’Italia contesa. Sfide politiche ed egemonia culturale nel sostenere che il nuovo clima internazionale non è incoraggiante per la destra, né in Europa, né negli Stati Uniti: “E’ la sua (della destra) forza di irradiamento ideologica – quella che negli ultimi trent’anni ha sostanzialmente dettato la forma politica del mondo, arrivando a condizionare non poco anche Clinton e Blair – che appare intrinsecamente legata ad un modello non più proponibile e che tutti stanno abbandonando. Il pensiero che fino ad ora lo ha sostenuto non spiega più né dove siamo, né di che cosa abbiamo bisogno. Se all’ordine del giorno c’è la ricerca di una relazione diversa e più adeguata tra ragione e potenza – fra razionalità sociale e potere economico e tecnologico, fra interessi della collettività e quella dei soggetti forti che agiscono sui soggetti globali – ebbene tutto ciò ci immette in un laboratorio di idee e di possibilità che non appartiene al patrimonio della destra mondiale, e tanto meno a quello della sua variante italiana, del berlusconismo come l’abbiamo fin’ora conosciuto” ( pp. 72-73). Ed infatti, sotto molti punti di vista la situazione si è completamente rovesciata rispetto agli ultimi decenni quando erano i partiti di sinistra che per restare in sella, erano costretti ad attuare politiche ‘di destra’, sull’onda della trasformazione: liberismo spinto, deregolazione, riduzionismo anti statalista.  In questo momento, invece, le destre che gestiscono il potere, si vedono precipitosamente costrette a praticare politiche tutte interne alla tradizione più marcatamente progressista: ‘nazionalizzazioni’, pressione statale sul mercato, sostegno pubblico alla domanda. Anche in Italia, ne stiamo avendo un esempio particolarmente significativo. 

Questo rovesciamento del trend politico – culturale favorisce la rientrata in gioco della sinistra o, perlomeno, aiuta a creare delle condizioni più favorevoli  per la sua rinascita, anche se coltivare l’illusione che basti assecondare la corrente della storia, per tornare ad essere protagonisti, potrebbe risultare ingannevole. 

La ricetta ‘socialista’ che ha avuto negli anni sessanta il suo punto massimo di consenso presumeva società industriali ‘lente’, nate dal fordismo e taylorismo, con strutture di classe che dipendevano dalla rigidità dell’organizzazione del lavoro. Il “continuismo” rigido con questa tradizione non potrebbe più garantire nulla perché è venuto meno il presupposto fondante di quella stessa ricetta  politica. 

E’ necessario, pertanto, aggiornare quella tradizione con una nuova politica della responsabilità, più flessibile e democratica al contempo. Come è possibile pensare ad un ethos civile condiviso in un tempo contrassegnato dalla fluidità, dall’obsolescenza rapida, dall’incertezza? 

Sul piano culturale suggestioni importanti possono essere mutuate da E. Morin che afferma la necessità di “passare dall’ossessione di un progetto che contenga già in sè compiutamente la forma di società da edificare, all’idea che nuove possibilità di libertà e di solidarietà debbano essere fatte emergere dall’azione politica”. Egli ritiene e questo mi sembra un aspetto rilevante che sia necessaria una nuova coscienza planetaria fondata su una visione solidaristica dei rapporti fra gli uomini e fra questi e la natura. Si tratta di sviluppare quella che viene definita ‘etica della relianza’, espressione coniata da M. Bolle de Bal e che rinvia all’unione di relier (legare) ed allianz (alleanza). 

Quali sono i principi sui quali fondare tali rapporti e che, almeno potenzialmente, siano accettabili in termini universali? Innanzitutto i diritti umani intesi come sfondo di un’idea di cittadinanza non più vincolata ad appartenenze particolari, ma sopranazionale. Tale prospettiva è tanto più attuale in quanto “per la prima volta nella storia umana l’universale è divenuto realtà concreta: è l’inter-solidarietà oggettiva dell’umanità, nella quale il destino globale del pianeta sovra determina i destini singolari delle nazioni e nella quale i destini singolari delle nazioni perturbano o modificano il destino globale”. Esattamente il rovescio del ‘partito degli italiani’ ostentato dal PDL. 

Sempre sul piano culturale, interessanti sono gli spunti rintracciabili in A. Sen che va nella direzione di una possibile integrazione delle elaborazioni teoriche dell’etica e quelle dell’economia che, per molto tempo, sono state ritenute incompatibili. Fra quanti operano e detengono posizioni decisionali e di responsabilità nel mondo dell’economia, la consapevolezza che non solo è possibile, ma  necessario rapportare economia ed etica è solo relativamente diffusa (troppo spesso, manager ed imprenditori ritengono l’etica un ‘lusso’ o una sorta di fiore ‘all’occhiello’ da utilizzare in termini di promozione all’immagine).

Come passare dalla teoria alla prassi, quale strategia politica dovrà intraprendere il Partito Democratico, nell’immediato, per resistere e rovesciare le tendenze già in atto? Due sono le possibili alternative: l’alleanza con il ‘centro’, l’UDC di Pierferdinando Casini o il ritorno ad un confronto – accordo con tutte le frange della sinistra più radicale. La prima prospettiva è impraticabile, il partito di Casini sta solo scegliendo l’occasione migliore per rientrare nell’alveo del PDL, un’occasione che potrebbe essergli fornita dalla imminente esplosione di un conflitto identitario tra il PDL e la Lega. Sul piano dei valori più generali, delle scelte economiche il partito di Casini è attratto irresistibilmente da un nuovo rapporto con il PDL. Le opzioni, del resto, che vengono praticate nelle alleanze per le amministrative dimostrano in maniera inequivoca tale vocazione.  

L’unica via praticabile, sia pur complessa e controversa,  è quella di un nuovo rapporto con tutte le anime della sinistra di cui il PD dovrebbe rappresentare il collettore centrale, una via che dovrà aprire lo spazio ad una nuova generazione del PD, dove rivoluzione generazionale non significa necessariamente rivoluzione anagrafica ma ‘apertura’ a nuovi esponenti, espressione della società civile e non dell’oligarchia partitocratica. Solo questa nuova generazione di dirigenti potrà contribuire a superare l’”eccezionalismo” italiano.

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