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La questione morale e la “rivoluzione democratica”

di Elio Matassi

Nella più immediata contemporaneità sono molti ad osservare che la politica, dopo la sua eclissi nella modernità, dove finisce con l’essere soppiantata dalle leggi economiche e dall’espertocrazia, può tornare ad essere centrale grazie all’ausilio dell’estetica e della poetica. A questo proposito è molto utile riportare alcune considerazioni critiche di Vittorio Foa, mutuate da un suo dialogo radiofonico con Natalia Ginzburg. Foa parte dalla constatazione che in politica vi sono almeno tre diversi livelli: “C’è un livello utilitario, che io non giudico una cosa volgare, che è una cosa necessaria, però se rimane li, l’immaginazione non è servita, l’immaginazione resta spenta. Se resta spenta l’immaginazione, resta spento anche il movimento della vita…; poi c’è la sfera etica, nel senso che le cose che si fanno hanno un senso per la collettività, per gli altri, e in questi altri c’è da scegliere… E c’è un terzo livello, che è il livello…della poesia. Che non è vero che è fuori dalla politica: è il livello dell’immaginazione…è la capacità di scegliere nella vita delle cose con un certo criterio e non con altri: con il criterio dettato da te stessa, capisci? Cioè tu non segui in quel caso delle regole. Le costruisci tu, come si costruisce una poesia”. Questi tre livelli ed in particolare il terzo, l’immaginario poetico, sembrano quanto mai indispensabili per affrontare l’esplosione della questione morale che ha coinvolto in profondità alcune giunte regionali e comunali dalle maggioranze di centrosinistra e dal Partito Democratico. Bisogna fare uno sforzo supplementare e di largo respiro per discutere l’idea stessa di democrazia (da approfondire e rafforzare), un’idea che non può rimanere ancorata entro un’ottica meramente giuridico-procedurale.

Il primo problema che deve essere posto in tutta la sua radicalità è il seguente: la questione morale è un problema che compete ad una sfera diversa da quella meramente politica o è l’espressione di una crisi profonda dell’idea stessa di politica e di democrazia? La democrazia, infatti, deve essere considerata l’unica forma di società in cui la sfera politica viene esplicitamente istituita come attività collettanea e, nel contempo, conflittuale. In questo ambito democrazia, politica e filosofia nascono e vivono insieme in quanto forme di messa in discussione della datità sociale istituita nello spazio pubblico.

Se questi sono i limiti entro cui deve essere contestualizzata la questione morale, la prima risposta è in parte già obbligata. La questione morale non è un accidente, un incidente di percorso da espungere e dimenticare rapidamente, ma il segno rivelatore di una crisi di una certa idea della democrazia che il Partito Democratico deve essere in grado di rinnovare. 

L’esplosione della questione morale non è esterna ma interna alla crisi stessa del tessuto democratico, è l’espressione trasparente della crisi di un modello di democrazia, retto sostanzialmente da una competizione fra oligarchie liberali che il sistema della rappresentanza giuridica dovrebbe essere in grado di garantire.

Il Partito Democratico è (o dovrebbe) essere nato non semplicemente per una fusione-integrazione di culture politiche eterogenee ma per rimettere al centro dell’attenzione l’idea stessa di democrazia, di fornire, finalmente, un significato nuovo a quell’aggettivo, ‘democratico’. Per tenere fede a tale progetto è indispensabile partire dall’unica premessa veramente fondante in maniera radicale. Che cos’è la democrazia, come è nata la democrazia? Per chi come me ha una visione non minimalistica della democrazia (la democrazia non è il meno peggio dei sistemi politici ma il migliore in assoluto senza ‘se’ e senza ‘ma’), la democrazia ha un carattere ed una vocazione essenzialmente partecipativa, negati e traditi sia nel mondo occidentale con il progressivo trasformarsi delle democrazie parlamentari in oligarchia liberali e nel mondo orientale, dominato dai paesi usciti dal ‘socialismo reale’, con società intrinsecamente burocratiche. 

Società burocratiche ed oligarchie liberali sono due facce della stessa medaglia, due aspetti speculari e complementari dello stesso problema, il tradimento dell’idea stessa di democrazia. L’esplosione della questione morale non potrà concernere solo alcuni che hanno sbagliato, ossia un dettaglio marginale. Se la democrazia viene correttamente individuata nella sua dimensione-declinzione associativo-partecipativa, anche la questione morale va riportata dentro alle origini di quest’idea ‘forte’ della democrazia. La corruzione non è solo l’errore di un singolo o di alcuni gruppi, la corruzione è in primo luogo il risultato più tangibile e della degenerazione dell’idea di democrazia in un sistema oligarchico o burocratico, l’uno solo controaltare del secondo. Dopo questa degenerazione e dopo tale corruttela è venuto il momento di una vera e propria rinascita della democrazia, di una restaurazione  del suo significato più profondo ed originario, di quella che può essere definita ‘rivoluzione democratica’, che il Partito Democratico dovrà saper interpretare fino in fondo, in primo luogo, contro il proprio passato (anche recente).

Quando parlo di ‘rivoluzione democratica’ non penso affatto ai termini in cui ne parlava Tocqueville, che vi scorgeva un evento storicamente ineluttabile, dal carattere essenzialmente sociologico. Come è noto all’indomani della rivoluzione francese Tocqueville vedeva nell’avvento della democrazia un nuovo regime sociale, nel quale avrebbero fatto la loro comparsa sulla scena della storia le masse, fino ad allora tenuta ai margini. La democrazia non è, invece, purtroppo, nulla di ineluttabile né tanto meno di provvidenziale. 

L’attuale empasse del movimento democratico, l’attuale crisi dell’attività politica  sono dovute in primo luogo alla progressiva eclissi del significato immaginario della modernità, concorrente rispetto al primo costituito dal dominio di una razionalità assoluta, dal predominio dell’economico, del quantificabile come valore esclusivo. Bisogna tornare all’immaginario poetico sollecitato da Vittorio Foa e ben presente nella riflessione di Corlelius Castoriadis, il pensatore greco-francese che ha coniato l’espressione stessa di ‘rivoluzione democratica’: il vero compito di una linea politica autenticamente democratica, e quindi solo in tal senso un compito ‘rivoluzionario’, è quello di considerare gli esseri umani come protagonisti attivi del proprio cambiamento. Non vi è nulla di astratto o di velleitario in tale progetto; l’argomentazione di Castoriadis è più complessa ed anche più aderente alla crisi della democrazia. La passione, infatti, per un’idea forte dell’autonomia e della sua realizzazione deve essere riportata all’interno della dialettica istituente-instituito. Per Castoriadis non vi sono alterità di alcuna tipologia, né ieratica o biologica o puramente razionale che, dall’esterno, possano fondare universalmente il sociale. 

Lo sdoppiamento di istituente ed istituito è immanente ad ogni società data. Questo è il senso da attribuire all’espressione ‘rivoluzione democratica’: la società democratica in quanto auto- istituzione, equilibrio dinamico, costantemente in fieri tra l’istituente e l’istituito e, dunque, non governata come la natura da leggi universali, non può non avere una dimensione intrinsecamente ed originariamente politica. A risultare determinante nell’equilibrio di una determinata società è la società stessa, un’opera collettanea in cui ogni società è al contempo soggetto ed oggetto. L’unica forma di società che l’assume, la esplicita fino alle estreme conseguenze, proponendosi di coltivarla, è la democrazia.

La democrazia non è la norma ma l’eccezione proprio in virtù di tali sue prerogative rivoluzionarie, ossia in quanto implica un capovolgimento prospettico della tendenza spontanea all’eteronomia sociale, cui fa, invece, riferimento Paul Valéry in questa sua lapidaria osservazione: “La politica fu in primo luogo l’arte di impedire alla gente di immischiarsi in ciò che la riguarda”. L’obiettivo rivoluzionario di una politica autenticamente democratica è esattamente il contrario, entrando perciò in rotta di collisione con le tendenze dominanti dell’immaginario contemporaneo, polarizzato dal primato dell’economico e dalla sua presunta razionalità inderogabile. 

La questione morale non è che la manifestazione estrema della corruzione dell’idea di democrazia. Questo è il vero ed unico problema, culturale e politico, del Partito Democratico, quello della sua compiuta identità democratica. Solo su questo si potrà misurare l’identità del Partito Democratico e, solo in un passaggio successivo, la costruzione delle alleanze politiche. E’ un falso problema, quello della svolta centrista in alternativa ad una linea politica che tenti di recuperare un rapporto con la sinistra estrema. Non si è riflettuto a sufficienza sulle ragioni della parallela e speculare crisi della sinistra riformista e massimalista; in precedenza, la crisi della prima provocava come automatismo naturale la crescita della seconda, oggi, invece, perdono entrambe. 

Ci si è chiesti fino in fondo il perché di questa duplice sconfitta? Bisogna cambiare rotta, ma cambiare rotta non deve significare per il Partito Democratico la creazione di un nuovo neologismo, ‘dalemiano’, ‘veltroniano’, oppure … Non è questo il percorso da compiere. L’aggettivo giusto il Partito lo ha già trovato, è ‘democratico’, ha tradizioni e radici antiche che non vanno occultate ma semmai riconquistate.

Bisogna tornare alla centralità dell’autonomia che non è un dato naturale, sottratto all’intervento della politica; essa è, invece, incessantemente istituzione della libertà, perché non sarà mai tale se non viene tenuta in vita da istituzioni politiche. La forma più conseguente dell’autonomia è la ‘filosofia’ in quanto il suo fine è quello di argomentare e diffondere l’eccellenza e la razionalità dell’autonomia come forma di vita. Autonomia e filosofia sono, in ultima analisi, i momenti costitutivi della rivoluzione democratica.

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